Come sapete, una cosa a cui tengo particolarmente, è il dialogo con voi lettori. Io non ho alcuna pretesa di possedere la scienza infusa, e spesso i vostri commenti ai miei articoli mi hanno insegnato qualcosa di nuovo o aiutato a correggere i miei punti di vista. In ogni caso, la vostra voce merita sempre di essere ascoltata.
Se poi capita, come nel caso che vi dirò adesso, che essa sia anche un’occasione per “ripassare i fondamentali”, per riesaminare e approfondire alcuni concetti di base che tutti noi dovremmo possedere, tanto più ne varrà la pena.
Ultimamente – rispetto al momento in cui sto scrivendo, febbraio 2021, perché non so quando questo articolo sarà pubblicato – precisamente il 16 febbraio, un nostro lettore ha postato un commento a un mio articolo antecedente di due anni, La più bella del mondo, quarta parte. Apparso sulle pagine di “Ereticamente” nel febbraio 2019.
Da questo articolo in cui parlavo della “nostra” costituzione (“La più bella del mondo” secondo l’insigne giurista Roberto Benigni), il lettore ha estrapolato un frammento in cui dicevo:
“una “filosofia” che discende direttamente dai “magnanimi lombi” di Marx secondo la quale l’essere umano è interamente il prodotto di fattori ambientali, sociali, educativi, con la totale esclusione di quelli ereditari, etnici, biologici.”
E mi risponde:
“Marx era razzista e anti-semita”.
Anti-semita magari non lo era, viste le sue note ascendenze ebraiche, ma razzista lo era certamente, e a riprova di ciò, il nostro amico mette un link a un articolo del dicembre 2020 del sito “Il filo dritto”, Ma guardate che Marx ed Engels erano i più razzisti.
Io ovviamente mi sono letto l’articolo. In esso si fa notare che, mentre il movimento dei Black Lives Matter si è scatenato con furia iconoclasta contro tutto ciò che ha ritenuto spesso a torto, razzista, i monumenti e i simboli marxisti sono stati risparmiati, eppure l’articolo lo dimostra con un florilegio di citazioni che non lascia dubbi, Marx ed Engels erano indubbiamente razzisti, convinti dell’innata superiorità dell’uomo bianco e del suo “mondo civile” sulle popolazioni extraeuropee, su cui aveva perciò diritto d’imporsi attraverso la conquista coloniale.
Il lettore commenta:
“Al contrario, la differenza da lui più di una volta enfatizzata tra epoche, paesi e popoli “civili” e “incivili”, a partire da Per la critica dell’Economia Politica (1859), tradisce la convinzione di Marx circa una dicotomia di ordine razziale esistente fra gli uomini. Nel Capitale egli parla addirittura dell’esistenza di “caratteristiche razziali innate” come agenti di sviluppo sociale da accertarsi attraverso “un’attenta analisi”.
Marx razzista? Non parrebbero esserci dubbi.
Io ho risposto al commentatore nei seguenti termini:
“Caro Lettore: Io posso risponderle solo dicendo che al riguardo c’è in Marx una totale contraddizione. L’antinomia natura-cultura è sempre stata al centro delle elucubrazioni della sinistra, che sembra incapace al riguardo di accettare la semplice riflessione di Konrad Lorenz “L’uomo è PER NATURA un animale culturale” (e natura, la parte biologica dell’essere umano significa anche razza). Ora la cosa curiosa è che all’inizio la sinistra è totalmente dalla parte della (sua idea di) natura contro la cultura. “L’uomo nasce buono (natura) e la società (la cultura, l’appreso) lo corrompe”, è il leitmotiv di J. J. Rousseau, e Rousseau è il “padre” di Marx, a mio parere, molto più di Hegel, dal ginevrino Marx ha preso gran parte delle sue idee, a cominciare da quella che la proprietà privata sia la causa di tutti i mali del mondo. A un certo punto si verifica un cambiamento di programma: la natura viene considerata irrilevante e la cultura esaltata. Io me lo spiego così: in una prima fase, si trattava di combattere la cultura tradizionale e le sue acquisizioni in nome di un ideale umano che altri non era che il “buon selvaggio” (mai esistito) di Rousseau, poi, in vista del conseguimento del potere, la natura doveva essere annichilita, messa in non cale in nome della “nuova cultura” che ci si proponeva di costruire, in pratica i condizionamenti ambientali che avrebbero dovuto permettere la totale manipolabilità dell’essere umano. Le contraddizioni di Marx derivano probabilmente dal fatto che si è trovato proprio a metà del guado di questo processo”.
Riconosciamo che questo amico ha ragione riguardo a Marx, ma non dimentichiamo che la sinistra odierna è ferma sulla totale negazione dell’eredità biologica e credula sull’onnipotenza dell’ambiente al punto da pensare che qualcuno assolutamente non europeo, per il solo fatto di vivere sul nostro suolo possa diventare in breve un “nuovo italiano” solo dalla pelle più scura, e preferibile a noi al punto da voler soppiantarci con esso, perché privo di quella memoria storica che ci insegna che le idee marxiste, dovunque sono state applicate, da un secolo a questa parte, hanno prodotto solo disastri.
E’ una serie di concetti che vi ho già esposto, ma che vale la pena di ripetere. Se qualcuno sostiene che due più due uguale a tre, sostenere che due più due fa cinque, non è il modo migliore di rispondergli, noi non dobbiamo fare l’errore speculare e simmetrico, ma rispondere facendo riferimento alla verità, alla realtà delle cose. Se le sinistre e i “democratici” insistono nel negare ogni valore all’eredità biologica e razziale, questo non deve spingerci a pensare che l’ambiente, l’apprendimento, la cultura non abbiano alcuna importanza.
La psiche è qualcosa di immateriale, non visibile, perciò, per capire come funziona il rapporto fra fattori innati e fattori appresi, sarà bene cominciare dall’esaminare qualcosa di puramente fisico e facilmente misurabile: l’altezza, che essa sia collegata a fattori genetici, su questo non si possono avanzare dubbi: genitori alti tendono ad avere figli alti, e genitori bassi figli bassi. Difficilmente il figlio di un fantino sarà un’eccellenza nella pallacanestro, ma la genetica dà un campo di possibilità all’interno del quale andrà collocato il dato effettivo, un range in cui rientrerà l’esatta statura di una persona, ma all’interno di questo campo di possibilità, la posizione esatta sarà determinata da fattori ambientali come l’aver avuto durante l’infanzia e l’adolescenza un’alimentazione sufficiente o scarsa, l’aver fatto o no attività sportiva, e via dicendo.
Da quando nel 1861 è nato lo stato italiano, è esistito fino a pochi decenni or sono il servizio militare di leva, e con esso le commissioni mediche che hanno arruolato i ragazzi, li hanno riformati o dichiarati rivedibili, e che anno dopo anno, hanno preso scrupolosamente nota dell’altezza dei giovani italiani.
I dati raccolti dal 1861 al 1960 dimostrano che nell’arco di un secolo l’altezza media dei giovani di leva è cresciuta esattamente di 10 centimetri. Bisogna ricordare che fino al 1960 l’Italia non era terra di immigrazione che potesse rappresentare un flusso di geni in grado di modificare il profilo genetico della popolazione, era semmai terra di emigrazione.
Quei dieci centimetri in più sono prettamente la conseguenza di fattori ambientali. Migliore alimentazione, migliori condizioni igieniche e sanitarie.
Ciò che vale per i caratteri fisici, vale anche per le caratteristiche psichiche che del pari sono sottoposte a un doppio determinismo, genetico e ambientale.
La sinistra si basa su vaneggiamenti e utopie che non hanno il minimo appiglio nella realtà. Un’idea, potremmo dire l’idea centrale di questa visione (o accecamento) è proprio quella dell’illimitata manipolabilità dell’uomo attraverso i condizionamenti ambientali, in modo da poter costruire per amore o per forza (molto per forza e ben poco per amore) l’ “uomo nuovo” del socialismo. Bene, si tratta di un’idea che, anche se ci si guarda dal dirlo in giro, la ricerca scientifica ha mandato in pezzi.
In uno splendido articolo di diversi anni fa pubblicato su “L’Uomo Libero”, il compianto Sergio Gozzoli l’ha esposto con grande chiarezza, sintetizzando i risulatati delle ricerche della sociobiologia di E. O. Wilson:
Le conclusioni scientifiche non lasciano dubbi: il cervello umano – ogni singolo cervello umano – non è una tabula rasa che l’esperienza debba riempire attraverso l’accumulo di impressioni e informazioni, ma è un «negativo impressionato in attesa di essere immerso nel liquido di sviluppo».
L’ambiente, cioè la vita che lo accoglie e lo nutre, può portarlo – a seconda che esso sia positivo o negativo – al massimo della sua pienezza o al minimo della crescita e del rigore: il cervello di un grande matematico, o di un prodigioso portiere di calcio, se non è stimolato da attività ed esercizio non svilupperà mai le proprie caratteristiche, mentre al contrario ricerca ed allenamento stimoleranno lo sviluppo pieno delle potenzialità genetiche. Quello che però è certo è che il risultato conclusivo era già contenuto, in potenza, nella pellicola genetica del cervello.
Il problema centrale (…). è che dalla genetica non dipendono soltanto l’intelligenza, le inclinazioni, i ruoli, l’aggressività e l’emotività, ma anche le scelte morali fondamentali, che non sono affatto il prodotto di un libero arbitrio, ma espressione di tendenze iscritte da sempre nel patrimonio genetico del nostro cervello”.
Chi abbia letto il bellissimo libro di Michel Onfray Il crepuscolo di un idolo, smascherare le favole freudiane, non dubiterà del fatto che Sigmund Freud era un santone, un guru, un ciarlatano, quello che volete, ma non certo uno scienziato, e che la psicanalisi non è altro che una stegonesca ciarltaneria che al di là dell’effetto placebo, non ha mai guarito nessuno. Quello che però è forse più difficile da accettare, è il fatto che gran parte di quello che oggi passa per psicologia è altrettanto ciarlatanesco e stregonesco, a uno stadio non dissimile da quello in cui era la medicina fisica prima delle scoperte microbiologiche di Louis Pasteur, con la pretesa di curare malattie senza avere nessuna reale idea della loro origine.
Il grande Konrad Lorenz, forse l’ultimo vero uomo di scienza della nostra epoca, esprimendo concetti non diversi da quelli di Wilson e Gozzoli, ha dedicato un intero libro, Evoluzione e modificazione del comportamento, a rispondere alle critiche dei comportamentisti.
Il comportamentismo, la corrente psicologica che ha dominato gli Stati Uniti per oltre mezzo secolo, oltre a negare l’esistenza della mente per il fatto che la mente altrui non si vede (se volessimo escludere dalla scienza tutto ciò che non è visibile, come gli atomi, le molecole, la radiazione elettromagnetica, mi chiedo a che punto saremmo nella fisica), si faceva un sacrosanto dovere di negare che nell’essere umano vi sia qualcosa di innato, non dipendente dagli stimoli ambientali, oltre che il mentalismo, l’innatismo è stato per esso il maggiore peccato.
A partire dagli anni ’70 del XX secolo il comportamentismo, creato da John B. Watson, si è trasformato in cognitivismo (che ha avuto come “padre” Ulrich Neisser, cosa strana, correligionario di Freud). Questo a causa dell’invenzione del computer. Se una macchina è in grado di compiere operazioni “mentali” come l’elaborazione di dati e la loro archiviazione (memoria), che senso ha negare tale possibilità all’essere umano?
Rimane tuttavia il tabù dell’innato, e questa negazione è alla base di una serie di polemiche piuttosto acri con i ricercatori europei, non solo Konrad Lorenz, ma anche gli psicologi della Gestalt e Jean Piaget.
Ora è chiaro che, se non si è divorati dal demone ideologico del “politicamente corretto” almeno le strutture e le funzioni percettive devono essere innate, esserci arrivate per via filogenetica, precedere l’esperienza, perché sono esse che la rendono possibile. “Elementare, (John B.) Watson”, verrebbe da dire.
Ricordo che anni fa, durante una lezione, ebbi una discussione con un allievo (se si è disponibili ad ascoltarli, possono spesso fornire utili spunti di riflessione), stavo appunto spiegando che il comportamentismo, proprio in ragione della sua negazione dell’esistenza di qualcosa di innato (e quindi etnico, razziale, al di là dei condizionamenti ambientali) è considerato la più democratica fra le correnti psicologiche (prescindiamo ora dal fatto che, essendo la psicologia divisa in “correnti”, “tendenze”, “approcci” alla maniera di una religione o di una comunità artistica o letteraria, questo la dice lunga sul suo reale status scientifico).
“Ma professore”, mi obiettò l’allievo, “Quello che l’essere umano sia plasmabile come cera molle, è il sogno di qualsiasi dittatore”.
Non era un’obiezione irrilevante o priva di senso, alla base c’era una fondamentale differenza nell’interpretare il concetto di democrazia che per lui, come per moltissime persone tratte in inganno significava “regime libertario”, mentre io direi che coincide sostanzialmente con l’essere di sinistra, e difatti l’esperienza ci insegna che la democrazia può essere tirannica ed estremamente dura nella persecuzione dei dissidenti.
Tuttavia, come vi dicevo, il fatto che altri sostengano che due più due fa tre, non ci obbliga a sostenere che due più due faccia cinque. Riconosciuta l’importanza dei fattori ereditari, biologici, etnici, razziali, nel determinare ciò che noi siamo, dobbiamo riconoscere che anche i fattori ambientali, la cultura, l’educazione hanno un ruolo la cui importanza non va disconosciuta. Potremmo dire anzi che in un certo senso chiedersi se sia più importante l’eredita biologica o l’ambiente nel determinare quello che siamo, non sia diverso dal chiedersi se per camminare sia più importante la gamba destra o la sinistra.
Qui ci possiamo rifare a una questione ormai annosa, quella del Q. I., del quoziente d’intelligenza e dei dibattiti che sono sorti intorno alla sua misurazione.
Che il quoziente d’intelligenza sia razzialmente determinato, è una cosa ormai assodata, anche se i democratici hanno fatto e continuano a fare di tutto per nascondere questo fatto. Vari studi compiuti soprattutto negli Stati Uniti dove esiste una popolazione razzialmente mista, hanno indicato a parità degli altri fattori, fatta 100 la media di Q. I. della popolazione bianca, una media di 105 per i ragazzi di origine mongolica (cinesi e giapponesi), e di 85 per gli afroamericani. Il discorso, naturalmente, è più complesso, perché gli americani bianchi sono al disotto del 100 previsto dalla scala Stanford-Binet per le popolazioni bianche, conseguono un 98, e per quanto riguarda le popolazioni mongoliche che continuano a vivere nelle aree natie, i punteggi non sono così brillanti e ad esempio i cinesi (un miliardo di persone, penso sia un campione significativo) ottengono mediamente un 102 che è esattamente uguale a quello che ottengono gli italiani nativi (siamo un popolo intelligente, quattro punti sopra la media yankee, perché vergognarsi a dirlo?).
Notiamo per prima cosa che il fatto che gli asiatici ottengono prestazioni mediamente migliori dei caucasici, costituisce di per sé una buona risposta all’obiezione tante volte sollevata dai democratici, a cui pare che avere la pelle bianca faccia schifo, che i test di Q. I. non misurerebbero realmente l’intelligenza, ma gli standard culturali delle popolazioni occidentali.
Ma la vera sorpresa è arrivata studiando i Q. I. dell’Africa subsahariana, infatti gli aframericani sono sostanzialmente mulatti, e il nero puro scende a un drammatico 70, che è esattamente il limite tra normalità e ritardo mentale.
Lo psicologo Daniel Goleman, autore del libro Intelligenza emotiva ha studiato la differenza di Q. I, che esiste tra i ragazzi asiatici e caucasici (che è pur sempre un terzo di quella che separa questi ultimi dagli afroamericani), e ha scoperto che mentre lo svantaggio dei neri è drammaticamente evidente fin dall’ingresso nella scuola elementare, all’epoca quella fra europei e asiatici non esiste, si manifesta gradualmente con gli anni, per rimanere poi stabile una volta arrivati all’età adulta. Secondo Goleman, ciò non è dovuto tanto a fattori genetici quanto ambientali-educativi. Tradizionalmente, i genitori asiatici sono più severi, pretendono che i ragazzi eseguano fedelmente le consegne scolastiche, studino, facciano i compiti e ciò ha un effetto benefico non solo sull’apprendimento, ma proprio sullo sviluppo dell’intelligenza.
E’ chiaro cosa significa ciò. Per l’intelligenza si verifica esattamente quel che abbiamo visto riguardo all’altezza: la genetica dà un campo di possibilità, ma poi i fattori ambientali, in questo caso educativi, decidono se ci si posizionerà vicino al margine superiore o a quello inferiore del campo. Ciò, lo si capisce bene, costituisce una forte indicazione a favore di quello che possiamo chiamare lo stile educativo tradizionale, laddove lo stile “democratico”, lassista, permissivo, deresponsabilizzante, non solo impedisce di acquisire competenze essenziali, ma limita lo sviluppo intellettivo dei ragazzi.
NOTA: Nell’illustrazione, (da “Filo diritto”), monumento a Marx ed Engels al Lustgarden di Berlino, monumento a due razzisti.