8 Ottobre 2024
Democrazia Etica

(Er)Eticamente

Forse qualche lettore si sarà chiesto se per caso il sottoscritto sia un genio universale oppure un incredibile presuntuoso che crede di esserlo. In questi anni sulle pagine di “Ereticamente” o altrove, pare abbia letteralmente riscritto lo scibile umano. Mi sono occupato di religione e di politica da un punto di vista molto anticonformista e minoritario, ma non contento, ho messo le mani sulla storia (“La manipolazione della storia” sul sito del Centro Studi La Runa, poi su “Ereticamente” “Ex oriente lux, ma sarà poi vero?”, un ampio saggio diviso in quattro parti), poi sulla scienza (sempre su “Ereticamente” “La scienza manipolata” e “Il fantasma dello stregone”). Non ancora contento, ho riscritto la filosofia (“La filosofia dal nostro punto di vista”) e quindi la letteratura (“Romanticismo e luoghi comuni”; qui per la verità si vede che non ero sul mio terreno, ho abbordato piuttosto questioni politiche e filosofiche che non letterarie).
In realtà, non penso di essere né l’una né l’altra cosa: se dovessi dare una valutazione di me stesso, direi che sarebbe falsa modestia da parte mia negare di ritenere di avere una discreta intelligenza, una buona cultura e una certa capacità dialettica ma sicuramente entro limiti che non eccedono le potenzialità di un essere umano del tutto normale. Ho semplicemente avuto la fortuna (o la sfortuna, perché a manifestare indipendenza di giudizio ci si fanno un sacco di nemici) di trovarmi fra le mani il bandolo per sbrogliare l’arruffata matassa della nostra cultura. Bandolo che consiste nella scoperta di una doppia falsificazione, la FALSIFICAZIONE CRISTIANA e la FALSIFICAZIONE DEMOCRATICA.
Da dove nasce la falsificazione cristiana, non è poi così difficile da capire: in età medievale la Chiesa aveva imposto la propria cultura, la propria visione del mondo come l’unica possibile, e per chi non ci stava, per gli eretici, per chi si arrogava il diritto di scegliere, cioè di usare il proprio cervello (“eresia” viene dal greco “AIRESIS” che significa “scelta”), c’era la morte sul rogo dopo atroci torture. Le grandi rivoluzioni scientifiche sono avvenute lottando contro l’ortodossia biblica e il potere ecclesiastico. Copernico e Galileo hanno liberato dall’ortodossia biblica l’astronomia e le scienze fisiche, Darwin ha fatto lo stesso per la biologia.
Un’analoga rivoluzione non è avvenuta per la scienza storica, la storia aspetta ancora il suo Copernico, il suo Galileo, il suo Darwin. Poiché la Chiesa ritiene e impone la bibbia (antico e nuovo testamento) come verità rivelata e indiscutibile, ecco che essa ha imposto una visione della storia, soprattutto ma non solo antica, centrata sul Medio Oriente, ossia la terra dove i libri della bibbia sono stati scritti, a tutto discapito dell’Europa. Non è che gli storici non abbiano prodotto nuove ricerche e conoscenze, ma hanno mantenuto sempre questa deformazione prospettica di base, altrimenti non si spiegherebbe come mai gongolino di entusiasmo annunciando la scoperta di una nuova civiltà tutte le volte che in Medio Oriente scoprono quattro cocci di vaso e i resti di due paraventi di canniccio, mentre i grandi complessi megalitici europei, da Malta a Stonehenge passando per Externsteine, restino ignorati.
C’è di più, nel sito di Turda in Romania sono state ritrovate nel 1962 le cosiddette “tavolette di Tartaria”, contenenti esemplari di scrittura di un millennio più antichi dei più antichi pittogrammi sumerici. In obbedienza allo strabismo mediorientale che affligge la ricerca storica in conseguenza del paradigma biblico, la notizia è stata censurata impedendo che arrivasse al grosso pubblico, è rimasta avvolta da un muro di gomma per mezzo secolo.
Da quando poi nel 1945 l’Europa (l’Europa intera, anche le nazioni schierate in campo antifascista) è uscita sconfitta e schiacciata dalla seconda guerra mondiale, da quando è stata trasformata prima in un condominio americano-sovietico poi in una colonia americana, è diventato sempre più improbabile che si lascino circolare idee capaci di ridestare negli Europei l’orgoglio di essere tali.
La falsificazione democratica è certamente connessa a quella cristiana: essa consiste nell’affermazione dogmatica che gli uomini sono tutti uguali o che, se c’è differenza fra l’uno e l’altro, essa è dovuta unicamente a fattori ambientali, maggiori o minori opportunità. Così come non c’è, o meglio non ci deve essere differenza fra gli individui se non quella imputabile all’ambiente, così non c’è e non ci deve essere differenza fra i gruppi umani e le razze (anche perché sui grandi numeri le differenze ambientali finiscono per compensarsi). Per mantenere in vita questa falsificazione occorre una pesante opera censoria. Noi sappiamo ad esempio che un qualsiasi ricercatore che volesse condurre ricerche sulle differenze di Q. I. fra le razze, e peggio ancora pubblicare i risultati, si vedrebbe immediatamente bruciata la carriera, e l’accusa di razzismo ha assunto una tale carica emotiva da schiacciare chiunque contro cui venga lanciata.
La falsificazione opera a più di un livello, ad esempio il concetto di continuità genetica che porta a favorire la propria discendenza, a prendersi cura dei propri figli più che di perfetti estranei, a sentirci vicini a coloro con cui condividiamo legami di sangue, ha una base nella biologia darwiniana, e urta frontalmente contro l’idea “moderna” di cittadinanza democratica puramente formale, estranea alla “natio”, al “genos”, cambiabile a volontà, che porta dritto alla dissoluzione di tutti i popoli in una pappa multietnica.
Su tutto ciò non credo sia necessario diffondersi oltre, perché tutti questi argomenti li abbiamo ampiamente sviscerati: non si tratta di dare una dimostrazione di perspicacia o di sapienza, ma da ristabilire la verità forse ovvia, ma calpestata dal doppio dogmatismo cristiano e democratico.
A questo punto forse conviene osare ancora un po’ di più, alzare ancora un po’ il tiro e affrontare un’ulteriore tematica, quella dell’etica.
Fino a tempi probabilmente molto più vicini a noi di quel che ci piacerebbe pensare, gli eretici, i dissidenti, i non conformisti in campo religioso, subivano le persecuzioni non solo delle autorità ecclesiastiche ma anche del potere civile, che fin troppo facilmente si prestava a fungere da “braccio secolare” delle prime. Per quale motivo? Dobbiamo credere che chi aveva il compito di reggere una comunità fosse così tanto interessato a questioni astratte e spesso difficilmente comprensibili? No, la ragione era verosimilmente un’altra: si supponeva che solo una persona religiosa e aderente a quella che era la religione dominante potesse essere una persona morale e un buon cittadino.
E’ un’idea che ritroviamo tanto spesso da essere data per scontata: la religione (intesa abramiticamente) è la base dell’etica, della morale; un’idea, un cliché talmente scontato che ben di rado ci soffermiamo a chiederci cosa significhi in realtà; eppure il suo significato è piuttosto semplice: noi sappiamo che c’è molta, moltissima gente che sarebbe capace di fare del male al prossimo per interesse o magari per divertimento: di ferire, uccidere, derubare, mentire, calunniare se le leggi non l’impedissero e non ci fossero autorità preposte a far rispettare la legge e punire chi la viola, ma sappiamo anche che la legge e i suoi esecutori non possono arrivare dappertutto e che ci sono molti delitti che rimangono impuniti.
Ecco quindi l’idea geniale che qualcuno ha avuto: persuadere la gente che esiste qualcuno di invisibile che noi non possiamo vedere, che vede tutto quello che facciamo e ci premierà per i nostri meriti o ci punirà per le nostre colpe, se non in questa vita, dopo la morte.

Il fondamento dell’etica (abramitica) è esattamente questo, ed è ben chiaro in quale senso l’etica (questo tipo di etica) si fondi sulla religione, ma ciascuno vede bene quale è il suo limite: non esisterebbero comportamenti o atteggiamenti più o meno morali, ma solo un calcolo opportunistico, tra vantaggi e svantaggi limitati e concreti, e altri rimandati a un indefinito e incerto futuro, ma eterni; nulla di più nobile della speranza di un premio e del timore di una punizione, il bastone e la carota.
Io oserei avanzare l’eretico sospetto che questo tipo di etica si basa su sentimenti bassi, spregevoli, opportunisti, precisamente perché il tipo umano dominante in quella parte del mondo dove sono nate le religioni abramitiche è per l’appunto basso, spregevole opportunista.
Questa concezione dell’etica a base religiosa-abramitica presenta un ulteriore svantaggio la cui pericolosità siamo spesso portati a sottovalutare essa ci impone di non fidarci del nostro senso spontaneo del bene e del male, e di ricavare invece la nostra concezione di essi da vecchi libri pieni di contraddizioni nei quali si suppone sia contenuta una rivelazione divina, e può benissimo accadere che questi ultimi prescrivano come morali azioni che fanno inorridire qualsiasi persona dotata di una normale sensibilità etica; ad esempio lo sterminio degli infedeli e la messa a morte (magari fra atroci torture) dei dissidenti.
Sappiamo che tutte queste cose sono spesso avvenute ad opera di uomini che ritenevano di agire in maniera altamente morale secondo i dettami della loro religione. Siamo sinceri, le religioni abramitiche hanno grandemente aumentato nel mondo il fanatismo, la violenza, il considerare la sofferenza altrui con indifferenza o magari con compiacimento.
Qualcuno ha detto che si ha l’impressione che se il cristiano (o l’ebreo o il mussulmano) pensasse che Dio sta guardando da un’altra parte, potrebbe macchiarsi delle peggiori nefandezze. Poiché i cristiani ma anche gli altri abramitici si sono macchiati delle peggiori nefandezze nel corso dei secoli, verrebbe da dire che devono aver pensato che Dio stesse guardando da un’altra parte piuttosto spesso.
A livello filosofico, quello che per certi versi è stato il più paradossale esponente di questo modo di intendere il rapporto fra religione e morale, è stato Immanuel Kant. Dopo aver elaborato (ma in realtà ripreso da David Hume) la dimostrazione dell’impossibilità di fondare scientificamente la metafisica nella “Critica della ragion pura”, nella successiva “Critica della ragion pratica” ne postula comunque la validità per dare un fondamento alla morale. Le tematiche della metafisica coincidono con quelle della religione (esistenza di Dio, immortalità dell’anima, ecc…), con la differenza che se ne dovrebbe dare una fondazione razionale invece che basata sulla fede.

La cosa singolare è che l’etica kantiana è di un formalismo estremo: non si è veramente morali se si fa il bene perché questo soddisfa il nostro senso di empatia, di benevolenza verso il prossimo, perché ciò non sarebbe l’attuazione del puro senso del dovere ma l’appagamento di una soddisfazione personale. Ne consegue che solo i cattivi possono essere buoni.

Mah! Sarà per questo che tra i fascisti che notoriamente sono “il male assoluto” ho conosciuto e conosco tante ottime persone. Sarà per questo che i “buoni democratici” per dimostrarci la loro bontà, sono settant’anni che ci ghettizzano, ci perseguitano, cercano di tapparci la bocca in tutti i modi, che quegli altri eccellenti democratici che sono “i compagni” hanno proclamato che “uccidere i fascisti non è reato” e l’hanno spesso messo in pratica.
E’ davvero questo il solo modo di concepire le cose, la sola base che possiamo dare all’etica? Io credo proprio di no. Mentre ci pensavo, mi è venuto in mente Virgilio e le bellissime parole che riporta nell’Eneide, dove individua come compito dei Romani quello di dare leggi al mondo, perdonare i vinti, debellare i superbi.
Ai Romani, mi è venuto da chiedermi, spetta assumersi questi compiti per guadagnarsi il paradiso o una ricompensa ultramondana di qualsiasi specie, o rischiare l’inferno qualora vi contravvengano? No, assolutamente no. I compiti che il romano si trova davanti gli spettano in ragione della sua natura, appunto perché è un romano. “Et facere et pati fortiter romanum est”. “E’ da Romani agire con forza e sopportare con fermezza”. Il romano è un essere intrinsecamente nobile, laddove il levantino capisce solo la logica del bastone e della carota. Morale dei signori e morale degli schiavi, appunto, e sono convinto che al riguardo Nietzsche avesse ragione in pieno.
Questa riflessione mi ha riportato alla mente un episodio della mia adolescenza avvenuto al liceo, quando avevo sedici o diciassette anni. Credo di poter dire che all’epoca ero già un tipo che prometteva bene, con la stessa cocciutaggine di oggi. Per i miei, che avevano cercato di darmi un’educazione cattolica alquanto tradizionale, sarebbe stato impensabile chiedere per me l’esonero dall’insegnamento della religione cattolica e, quando ho avuto l’età per poter decidere, sono stato io a non volerlo richiedere perché a quel punto la cosa mi sarebbe sembrata una fuga.
Le lezioni di religione cattolica finivano spesso per somigliare a degli incontri di pugilato verbale fra il docente e me, e sospetto che i miei compagni si divertissero un sacco e che il “tifo” fosse abbastanza equamente ripartito. A ripensarci ora, sono veramente grato di questa situazione, mi ha permesso di farmi le ossa.
Quella volta il don prof. aveva deciso di esporre la dottrina cristiana del perdono. Dopo averlo ascoltato un po’, gli replicai citando proprio il passo virgiliano di cui vi ho detto “Parcere subiectis”, “perdonare ai vinti”. Perdonare a chi ti ha fatto dei torti e ora è in tuo potere è davvero un gesto magnanimo che richiede grande nobiltà d’animo, ma “perdonare” a qualcuno cui comunque non saresti in grado di nuocere, è un bel gesto che non costa nulla, soprattutto se si “perdona” con la riserva mentale di “lasciare a Dio la cura della vendetta” come prescrive l’Antico Testamento, allora è pura e semplice ipocrisia.
Conclusi con una citazione di Nietzsche:
“Detesto colui che si dice buono perché non ha le unghie abbastanza forti”.
A questo punto don Libero (così si chiamava) mi rispose osservando che quel che avevo detto andava del tutto al di fuori del cristianesimo.
Gli replicai a mia volta che non mi importava niente se quel che avevo detto fosse cristiano o no, mi interessava solo se era giusto o no.
Ne ebbi come ulteriore risposta l’espressione più stupita che avessi mai visto in vita mia, e anche dopo di allora mi è capitato di vedere assai raramente segni di maggior stupore.
La “virtù” è per l’uomo antico l’estrinsecazione e il perfezionamento della natura di ciascuno, “virtus” viene da “vir” e significa prima di tutto essere e sapersi comportare da uomini in qualsiasi circostanza. Si tratta di una concezione opposta a quella cristiana che identifica la virtù nell’andare contro una natura che si suppone corrotta dal peccato originale, anche se curiosamente ne rimane traccia negli erbari, nei lapidari, nei bestiari medievali, dove si parla delle “virtù” di piante pietre e animali, intendendo le proprietà di essi, più o meno nascoste.
Le vere motivazioni di un comportamento morale che sia davvero tale dovrebbero essere non la paura di una punizione o il desiderio di un premio, da parte degli uomini o soprannaturali, ma il senso della dignità personale, del rispetto di se stessi, il senso del dovere e l’empatia verso gli altri esseri umani, soprattutto quelli che ci sono più vicini.
Recentemente mi è capitata sotto gli occhi questa frase del biologo inglese del XIX secolo Thomas Henry Huxley:

“Avere una fede agnostica significa per me che, se ci si mantiene integri e onesti, non si avrà mai paura di guardare l’universo in faccia, qualunque cosa il futuro abbia in serbo”.

“Agnosticismo” viene dal greco “a-gnosis” che significa “non sapere”, e significa che sulle questioni soprannaturali non possiamo sapere quel che oltrepassa i limiti dell’esperienza e della ragione, e dovremmo evitare di pronunciarci. E’ una posizione molto ragionevole, perché possiamo credere una cosa o l’altra, ma chi può dire di conoscere?
Per quanto mi riguarda, penso che si possa fare affidamento ben maggiore su di un agnostico di elevata moralità come Huxley piuttosto che su di un abramitico fanatico, cristiano, ebreo o mussulmano che sia.
Questa frase mi ha ricordato da vicino Socrate: l’uomo saggio e virtuoso non ha nulla da temere né in vita né in morte perché se c’è un destino ultramondano raccoglierà i frutti del suo ben operare, se non c’è, condividerà semplicemente l’oblio con tutti. Si vedano le parole che concludono l’ “Apologia di Socrate” dove egli, rivolto a coloro che l’hanno appena condannato, dice:
“Io vado a morire, o giudici. Voi a continuare a vivere, solo gli dei sanno chi va incontro a sorte migliore”.
Noi conosciamo il pensiero di Socrate, che non ci ha lasciato nessuno scritto, tramite il resoconto di Platone, ma poiché quest’ultimo ha spesso mescolato dottrine proprie alla descrizione di quelle del maestro, distinguere l’uno dall’altro è ben difficile. Questo è uno dei rari squarci in cui ciò è possibile, e Socrate appare perlomeno in dubbio sul destino ultimo post mortem, dubbio che Platone da parte sua non sembrava avere, ed è stato lui a elaborare il concetto di immortalità dell’anima di cui poi i cristiani si sono impadroniti, ma non trova riscontro né nel Vecchio né nel Nuovo Testamento, e credo eccedesse di gran lunga le capacità speculative degli antichi ebrei, che dovevano essere pressoché nulle.
Tuttavia noi vediamo che ciò dal punto di vista etico e pratico non fa differenza.
Per Socrate l’uomo saggio è necessariamente virtuoso.  Chi fa il male, infatti, ignora di fare del male prima di tutto a se stesso, abbassandosi e corrompendosi.
Gli storici della filosofia hanno chiamato questa concezione “intellettualismo etico” cosa che nel loro gergo implicherebbe una sorta di disprezzo di volta in volta ironico o livoroso, perché essa si fonda sul concetto della dignità dell’uomo, e urta in maniera frontale contro la concezione cristiana che vuole l’uomo miserabile, peccatore, e in conseguenza di ciò strettamente dipendente dal supposto potere di remissione dei peccati della Chiesa.

In tempi più vicini a noi, si è occupato di etica un altro biologo, il francese Jacques Monod nel libro (“saggio di filosofia naturale”) “Il caso e la necessità” del 1972.

Dalle conoscenze scientifiche, egli conclude, non è possibile ricavare un’etica, perché la scienza si occupa di questioni di fatto (“è così”) e non di valore (“deve o dovrebbe essere così”), tuttavia è possibile postulare un’etica della conoscenza come pre-condizione della ricerca scientifica stessa, occorre cioè che la conoscenza sia ritenuta un valore importante, e siano ritenuti giusti e positivi quei comportamenti dei singoli e quelle istituzioni sociali che la favoriscono, e ingiusto e negativo ciò che la ostacola.Monod verosimilmente non se ne rendeva conto, ma se assumiamo per valida questa concezione, ciò a cui si arriva, è la condanna senza appello della democrazia. La democrazia si fonda precisamente sul divieto di conoscere o addirittura di pensare. Se ti dai pena per la sorte della tua gente destinata a essere spazzata via dall’ondata multietnica, allora sei un razzista, se hai conservato ancora abbastanza umanità da inorridire davanti alle immagini dei corpi dei bambini palestinesi straziati dai missili sionisti, allora sei un antisemita. Se vuoi vederci chiaro su tutto ciò che ci hanno raccontato i vincitori della seconda guerra mondiale a cominciare dall’olocausto, se sospetti che le diverse razze umane abbiano differenti livelli intellettivi e magari vuoi condurre delle ricerche in merito, allora meriti la perdita del posto di lavoro, la galera, la morte civile. La democrazia, possiamo dire, si fonda sull’etica dell’ignoranza.
Il problema etico si risolve facilmente nella pratica: occorre solo tenere fermo sul rispetto di noi stessi, della nostra dignità di uomini e, nelle disgraziate circostanze nelle quali dobbiamo vivere sotto la tirannide democratica, rimanere al nostro posto di combattimento e non mollare per quanto le circostanze possano essere avverse.
Fabio Calabrese

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