25 Giugno 2024
Intervista Musica

EreticaMente intervista Renato degli IANVA – a cura di Stefano Eugenio Bona

 

– Ti abbiamo potuto ascoltare al Convegno del maggio 2019 su D’Annunzio e Fiume, come giudichi tale evento?

 

Intanto saluto voi, che questo evento lo avete condiviso. E anche il resto della truppa: una bella varietà di profili intellettuali tra i quali il sottoscritto costituiva senz’altro l’anomalia più vistosa non essendo né un pubblicista riconosciuto né uno studioso referenziato.

Non fosse che, sotto l’aspetto della precocità se non addirittura la primazia dell’approdo al tema fiumano, quanto fatto con IANVA già nei primissimi anni 2000 credo parli da sé. In sinergia, va detto, con un piccolo ambiente di dissidenza intellettuale che a quel tempo ci corrispondeva e che ho parzialmente ritrovato al convegno.

Personalmente considero assolutamente promettente l’impostazione che è infine emersa, tutta giocata sul contrasto tra certi interventi dai più marcati accenti accademici ed altri più orientati ad umori Pop, caratterizzati da toni più lievi e talora persino scanzonati.

Non resta che augurarci che l’esperimento sia al più presto replicabile. Il successo di un’iniziativa è sì misurabile dalla risposta immediata del pubblico, che pure c’è stata, ma anche e soprattutto dall’estensione e dalla qualità del dibattito che riesce a disseminare sulla propria scia. Fatto salvo questo parametro, possiamo allora ragionevolmente congratularci l’un l’altro e poi, magari, prometterci una seria riflessione a proposito dell’opportunità di perfezionare questa formula.

A tal proposito vorrei ricordare come l’assunzione di parte delle caratteristiche che avrebbero poi contraddistinto l’evento avvenne a seguito d’un ripensamento in corso d’opera. Non avendo infatti sulle prime ottenuto il riconoscimento dell’ufficialità nel novero delle manifestazioni istituite per celebrare il centenario dell’Impresa di Fiume, si era reso necessario ripensare il tutto sotto una prospettiva un filo meno paludata, ma ravvivata da qualche scintilla movimentista in più.

La risonanza ottenuta, non solo grazie all’indiscutibile qualità del materiale originale ristampato per l’occasione, ma anche a quella degli atti del convegno poi pubblicati, deve aver infine persuaso l’inizialmente tiepido direttorio ufficiale a ritornare sui propri passi apponendo l’agognato sigillo di garanzia sull’iniziativa tutta.

Aggiungo una notazione a margine, di carattere strettamente percettivo.

Stiamo parlando di poco più d’un anno fa, ma sembrano passati decenni. Ricordo un fine maggio già inverosimilmente caldo, il convegno all’insegna d’una spensierata calca e un post-evento, innaffiato da copiose libagioni, ancor più contrassegnato da “prossimità sociale” e da uno spirito affatto prudenziale, secondo l’ottica vigente oggi e che qualcuno si sta attrezzando per eternare.

Conto su tutti coloro che erano presenti e sul ricordo dell’atmosfera di libertà che abbiamo respirato affinché nessuno faccia mancare il proprio modesto e personale contributo alla causa del fallimento di questo immondo progetto.

 

 

– Cosa è ancora attualizzabile del messaggio dannunziano, secondo te, e in che modo nacque il tuo interesse a riguardo?

 

Per rispondere adeguatamente a questa domanda servirebbe un trattato esteso, magari anche questo in forma di atti d’un convegno a tema. Anzi, questa è l’occasione per lanciare la nuova sfida per la quale auspicherei una compagine ancor più varia e nutrita della scorsa volta.

Questo è il tema: dimostrare una volta per tutte che, nell’eclisse miserevole di certune ideologie già principali forze propulsive della storia del ‘900, l’assoluta freschezza e originalità della visione politica di D’annunzio potrebbe essere a tutt’oggi una credibilissima stella polare per noi italiani.

È tempo di certificare come l’aurea semplicità delle sue linee guida, sintesi mirabile di afflato poetico e pensiero politico, idealismo utopico e agilità operativa, la sintesi delle varie anime del Genius italico così come si distillò nel corso della vicenda fiumana, potrebbe essere davvero destinata e meritevole di “trionfare nel tempo”, così come lo stesso Comandante credette di divinare.

In questa fase in cui imperversa il bigottismo censorio del politicamente corretto, potentemente foraggiato dai soliti Arconti, cosa può esserci di più detossinante e liberatorio della “Carta del Carnaro”?

Quale migliore sintesi dialettica per convincere gli incerti e gli scettici che Sovranismo e Patriottismo non sono sinonimi di chiusura, reazione retriva, segregazione e autoritarismo come gabellano i pennivendoli di regime alla sprovveduta gioventù nostrana?

Quale linguaggio più elegante e penetrante per dimostrare che, al contrario, questi stessi concetti possono essere la dimensione elettiva per l’estensione dei diritti, dell’inclusione, di una socialità sana e costruttiva a prescindere dalle origini?

Che tutte queste cose sono possibili solo dove vi sia la vera libertà e la vera gestione delle proprie risorse, non solo economiche, ma anche culturali e spirituali.

E dove, soprattutto, vi sia una visione consapevole e condivisa sia di un divenire comune che di un’ideale sorgente.

L’ispirazione immanente, la radice del dannunzianesimo politico era quella dello Spirito perenne di Roma: la chiamata amichevole a genti diverse a fare “qualcosa di grande insieme”. Ma ad esso era stato felicemente coniugato l’afflato del miglior socialismo, quello radicale ma anche duramente pragmatico di Sorel e Corridoni, e non ultima l’attenzione alla singolarità e alla realizzazione individuale ereditate dall’umanesimo di matrice anarchica e libertaria.

Il che potrebbe servire tra l’altro a far prendere atto a certuni validi soggetti che ancora si professano “liberali” che il mercatismo finanziario del quale debbono contentarsi oggi è un mostruoso automatismo senza legami etici ed affettivi di alcun tipo e, dunque, inevitabilmente amorale.

Una volgare perversione dello spirito liberale originario. Del resto, questa riduzione dell’umano a semplice incrocio e conflitto di pulsioni e interessi individuali, questa visione così ottusamente meccanicistica e materialista delle relazioni tra individui e società si apparenta assai più con la griglia antropologica marxista-leninista che non con il liberalismo originario. Il quale invece, sia pur laicamente, riconosceva la necessità di riconoscersi in un ordine di valori superiore e condiviso.

Vorrei inoltre far notare che per un popolo come quello italiano, aduso per secoli a far scaturire le proprie soluzioni esistenziali anche dalla sfera estetica e che nella propria matrice storico-filosofica, e persino nella cultura popolare, si riallaccia più all’ermetismo e all’ecclettismo rutilante del Rinascimento che non all’asse idealistico kantiano-hegeliano di marca tedesca, l’attuale congiuntura che ci vede subalterni in un’integrazione burocratico-totalitaria ad egemonia germanica equivale ad una sentenza di morte.

Chi più di D’annunzio può essere considerato l’Avatar perenne d’una secolare resilienza latina e italica alla mai scongiurata esondazione del bacino teutone? Quale padre nobile sarebbe non solo più alto e inimitabile, ma anche più ben augurante per l’imminente e durissima battaglia che il Sovranismo italiano dovrà decidersi a combattere?

E poi, infine, la bellezza, lo stile, la misura esatta ma anche l’arabesco estetizzante e la trovata fulminante sono, in questo tempo di abbrutimento collettivo, un conforto e un antidoto.

Ed era esattamente sotto questo profilo di fruizione che iniziai ad aggirarmi, decenni or sono, all’epoca del liceo, nell’immaginario dannunziano. Anche allora, seppure non con la volgare protervia del tempo presente, il conformismo culturale poteva essere soffocante. Ma c’era ancora, quantomeno, il riconoscimento dell’importanza dell’istruzione e l’accortezza di mantenere dei parametri atti a valutarne lo stato. Ma, soprattutto, allora nessuno si sognava d’indulgere nella pratica barbarica della cancellazione della Storia come stanno arrivando a fare oggi.

Certo: fin quasi agli albori degli anni ’80 per una preferenza letteraria, estetica o musicale “sbagliata” rischiavi una scarica di sprangate sul cranio mentre rincasavi perché, in quel tempo, già il solo dichiarare determinate preferenze in luogo di altre assumeva delle marcate connotazioni identificative.

Gli stessi programmi scolastici di allora, risentivano dell’onda lunga della temperie sessantottina, quindi anche l’atto di rivendicare il diritto di approfondire capitoli della cultura nazionale mantenuti in sordina poteva assumere connotazioni quasi eversive all’occhio di coloro che si ritenevano “custodi della democrazia”.

Ricordo, oggi quasi con piacere, un serrato scambio di battute, via via più caustiche da parte di entrambi, con l’esaminatrice di Italiano nel corso della prova orale del mio esame di Maturità dove, come argomento a scelta, avevo portato, per l’appunto, D’annunzio.

La Signora che mi toccò in sorte in quell’occasione, figura storica del femminismo e già firma de “Il Manifesto”, non mancò di mettermi a parte, con tutto il sarcasmo che riusciva ad infondere al suo eloquio, della sua personale opinione in merito.

Non solo, mi disse, non poteva credere che “in vista del 2000” ci fossero ancora dei poveri fessi che subivano il fascino di “quel mentecatto, criminale e maniaco sessuale di D’annunzio”, ma, “per sua solita fortuna”, doveva essersi imbattuta in uno dei peggiori in circolazione. Visto che non mi limitavo “come tutti” a portare il D’annunzio giovane, quello “facile”, quello decadente ed “oppiaceo”, quello mondano e spettegolante, quello elegante e “scopatore”, dopotutto divertente e, sia pur con riserva, ancora passabile. Ma proprio quello “odioso” e “guerrafondaio” che lei stessa, quand’era stata consulente al Ministero, aveva contribuito a far scomparire dai programmi.

Ricordo che in quel momento la messa a puntiglio fu tale che mi scordai completamente del frangente che stavo affrontando e mi lanciai in una requisitoria feroce a proposito della politica di “de-nazionalizzazione” e “svirilizzazione” perseguita dal progressismo nel mondo della cultura e delle arti, mentre la signora esaminatrice assentiva con plateale condiscendenza, riservandomi persino un ironico applauso finale.

Lascio giudicare a voi chi, grazie alla frequentazione letteraria dell’”Orbo Veggente”, avesse scorto più chiaramente il futuro tra il ragazzo “fanatizzato” e la “seria e competente” intellettuale organica.

Ma devo pure ammettere che di mio, con la tipica tracotanza giovanile, avevo scelto tra tutti i D’annunzio possibili, quello in assoluto più urticante per Lorsignori.  E che non era neppure quello in grigio-verde, il tribuno interventista e, di seguito, il Comandante per antonomasia di tutti i combattenti. L’uomo della riscossa nazionale i cui toni, sebbene sempre staffilanti e stentorei, flettevano spesso in una dolente consapevolezza della tragedia e facevano trapelare corde di umanissima pietà. Ma bensì il D’annunzio ferocemente vitalistico, quello fulminato sulla via nietzschiana de “Le Vergini Delle Rocce” e de “Il Fuoco”. Il più arrogantemente superomistico e più sgradevolmente ebbro di sé.

Quello che, voluttuosamente, intinge il proprio pennino nel sangue con una sorta di trasporto dionisiaco.

Ma anche quello che produce la prosa di gran lunga più ipnotica, venefica e sublimemente intossicante.

Quello che, una volta che ti ha tratto nel suo abisso infuocato, non sarà mai più possibile lasciare. Ed infatti così è stato.

 

 

 

– Ci puoi indicare alcuni punti di riferimento per chi non conoscesse ancora Ianva o per chi, magari, non riuscisse ancora ad orientarsi nella vostra ben strutturata proposta?

 

IANVA entra in scena nel 2005 con l’EP ‘La Ballata Dell’Ardito’.

Questo secondo la cronologia ufficiale. Ma in concreto il progetto operava da quasi un paio d’anni, sebbene privo di una denominazione definitiva e di una formazione vera e propria. Tutto ruotava attorno a un seminale terzetto che, con denominazioni e collaborazioni variabili, aveva licenziato pochi brani, destinati per lo più a compilation di area industrial/apocalittica.

Il gruppo inizia ad acquisire la sua fisionomia definitiva solo con l’arruolamento di ulteriori elementi, ossia i musicisti a tutt’oggi coinvolti. Oltre, naturalmente, l’ingresso di Stefania, sia nella formazione che nella gestione comunicativa dell’intero progetto.

Gli uni e l’altra resero a quel punto tecnicamente possibile la realizzazione di composizioni fino ad allora solo virtuali. In controtendenza, dunque, rispetto a quell’attitudine a “minimizzare”, gli organici non meno degli arrangiamenti, peculiare dell’area stilistica entro la quale, almeno in un primo tempo, risultavamo compresi.

È stata poi la volta di ‘Disobbedisco!” il nostro debut interamente votato all’Impresa Fiumana e a D’Annunzio, l’EP ‘L’Occidente’, e poi via via ‘Italia: Ultimo Atto’, “La Mano Di Gloria” (progetto che comprendeva un CD e una trilogia libraria omonima), ‘Canone Europeo’ e l’ultimo divertissement-celebrazione, in vinile dal titolo ‘1919’, collegato all’evento pubblico di cui si parlava in apertura e che è storia recente.

Vorrei però aggiungere, a beneficio di chi non ci conosce, qualche buona ragione che fa di noi un progetto che potrebbe valer la pena seguire.

La prima: siamo stati tra i pochi – per non dire gli unici – a tradurre in materia viva, lirica e suono, ciò che prima era stata quasi solo unicamente teoria.

Il neofolk, il martial, il military pop cosa si riproponevano, in fondo, se non di “sonorizzare” la Storia? Peccato però che solo pochi riuscissero, a brevi tratti, davvero nell’intento.

Che suono ha la Storia? Non è una domanda assurda come può sembrare, visto che, dopotutto, è pur sempre il suono la materia da modellare. Intanto per cominciare, avevamo una certezza riguardo il suono che la Storia NON HA. E cioè un suono povero, piccolo e tapino. Un suono smozzicato, fatto al risparmio.

La Storia non è minimal, maledizione! È un fenomeno grandioso e massivo. Contiene in sé tutti gli attributi, le ideazioni e le specificità umane, dalla più supreme alle più abbiette. Talvolta si acquieta in larghe fasi di dorata attesa ove germogliano le Arti e il pensiero per poi riscatenarsi in spaventevoli tempeste. Come diavolo è possibile pensare a tutto ciò in termini minimali?

Per questo abbiamo fatto l’impossibile per carpire i segreti dei maestri della soundtrack degli anni d’oro del cinema nazionale. Un’arte di cui noi italiani detenevamo l’indiscusso primato. E, tra i tanti che oggi fanno giustamente a gara per rivisitare quella tradizione, noi siamo stati semplicemente i primi. Nonché, a tutt’oggi, tra i migliori. Questo è un fatto.

La seconda: si fa un gran parlare di spirito identitario nella musica e nelle arti, ma spesso scopriamo che l’operazione consiste semplicemente nell’innestare un testo identitario su una formula musicale consueta. Noi, invece, abbiamo da subito scorto il problema che è lo stesso concetto di “folk” a porre.

Se ci pensi le grandi sinfonie, gli inni, le marce militari, le melodie celebri e le arie d’opera equivalgono, nel mondo dei suoni, a quella che, nel mondo dei monumenti, è l’edilizia pubblica: palazzi di rappresentanza, regge, castelli, cimiteri monumentali…

Il folk, invece, attiene alla sfera privata, alla storia minuta dei singoli. È il suono dei piccoli borghi rimasti intatti, degli oggetti e dei ricordi che emergono dai bauli nei solai. Ancora una volta, come vedi, è il suono della Storia. Quando la narrazione si sposta dalla dimensione massiva dell’evento epocale al vissuto della singola persona, nessun linguaggio è più efficace di quello garantito da secoli di tradizione popolare. E anche questo, chi ci vorrà seguire, lo troverà nei nostri solchi.

Infine, chi dalla musica si aspetta di ricevere energia, può aspettarsi che tutto ciò che abbiamo ascoltato e suonato in precedenza rientri in qualche misura al nostro suono. New wave, glam rock, progressive, varie forme di metal, dal black al doom…

E se poi facciamo mente locale constateremo che quasi tutte queste forme musicali sono state presto o tardi visitate dallo spettro del vecchio Cabaret europeo. Deve trattarsi di una larva psichica molto tenace visto che, invariabilmente, produce sentimenti molto profondi e contrastanti negli ascoltatori, generazione dopo generazione. Ricorderai di certo come il primissimo punk inglese pescasse a piene mani da questo immaginario, certo per via dell’influenza della triade Bowie-Roxy-Velvet e per la filtrazione di un certo Kraut rock. L’immaginario dei primissimi Ultravox e dell’originario new romantic, Marc Almond e il sommo Scott Walker…Cose fantastiche e, idealmente, le teniamo tutte accanto.

 

 

 

– Quanto è cambiato il vostro approccio musicalmente e concettualmente, nel corso degli anni, dalla fondazione di Ianva ad oggi?

 

La più rilevante differenza rispetto agli esordi è la serena accettazione della nostra solitudine.

È risaputo che ogni progetto artistico rivendica, non sempre fondatamente, la propria “unicità”. E se solo di questa si parlasse, credo che nessuno, ad eccezione di qualche fenomeno da baraccone, abbia mai potuto contestarcela. Ma è ovvio che anche numerose altre sigle possono dirsi uniche mentre la “solitudine” di cui parlo è altro.

All’inizio, ogni progetto si percepisce, più o meno entusiasticamente, parte d’un qualcosa di ulteriore e di più grande. Partecipe di un’Idea o di una suggestione ritenute, a torto o a ragione, sul punto di lasciare una traccia nello spirito del proprio tempo. È questa la logica sottesa ai “movimenti”. Ed è questo il tipo di vissuto interiore che, una volta condiviso tra coloro che vi prendono parte, consente di iniziare, per l’appunto, a “muoversi”.

In quella fase è letteralmente vitale sentirsi circondati da amici e da sodali. Sapere che tutto attorno a te c’è una “comunità di destino” che sta manovrando in sincrono e che è pronta al mutuo sostegno.

Ora: non credo serva ricordarti come sono andate le cose in determinati ambienti inizialmente a noi contigui.

Ciò che non hanno capito certi animatori di quella “scena” è che il principio secondo il quale un giocattolo rotto non potrà mai più tornare quello di prima, in genere veridico, lo è vieppiù quando si azionano dinamiche così schiettamente umane: sentimenti, speranze e aspettative.

E soprattutto quando queste ultime iniziano a curvare nuovamente verso il basso, sul piano delle ordinarie meschinità, facendo automaticamente venir meno le ideazioni sulle quali si basava l’ispirazione iniziale.

Considera infatti che la peculiarità, anzi, il mito fondante di quel preciso ambiente prevedeva la riaffermazione di valori tradizionali, spirituali e cavallereschi. E che, addirittura, un adeguato riorientamento delle proprie condotte in ordine a questa riscoperta valoriale avrebbe dovuto essere la condizione sine qua non atta a fissare lo spartiacque tra una seria sovversione culturale e una risibile pagliacciata. Altrimenti per cosa li avremmo letti a fare Mishima e Junger?

Considera tutto ciò e avrai la misura dell’irreversibilità della rovina che certi ambienti si sono fabbricata.

Ciò che a suo tempo ci ha ferito e deluso non sono stati tanto gli immotivati voltafaccia e le molteplici pugnalate alle spalle – risvolti deludenti, ma in fondo prevedibili di ogni vicenda umana – ma la docilità e la passività ovina con cui un intero ambiente che era, lo rimarco, fondato sulle premesse di cui sopra, ha accettato di farsi bullizzare, mettere in riga e quindi, implicitamente, sconfessare e squalificare da certuni elementi che, nei fatti, non erano che dei letterali rottami.

Che poi questo consegnarsi a corpo morto nelle mani dei peggiori leader possibili avesse come collaterale, tra i tanti, l’obbiettivo di far fuori IANVA è secondario.

Se pure questo stupido tentativo di epurazione non avesse riguardato noi, avrei trovato comunque svilente irregimentarmi come un soldatino di fronte ai diktat di personaggi così incredibilmente squallidi.

Siccome certuni che al tempo si dicevano nostri amici o estimatori sono invece scattati all’istante sull’attenti a fronte dei primi scalzacani che hanno fatto irruzione semplicemente alzando la voce, ciò ha provveduto a chiarirci, in soluzione unica e definitiva, con quale genere di materiale artistico ed umano avessimo a che fare.

Preso atto di tale realtà, l’evoluzione che abbiamo imboccato è stata sempre più all’insegna dell’autosufficienza. Non solo sotto il profilo pratico, economico ed organizzativo, ma anche e soprattutto sotto quello ideale e morale.

In primis l’autonomia produttiva. Se all’inizio era un’opzione preferibile, ma passibile di essere rivista e ridiscussa ad ogni nuovo giro, oggi è poco meno d’un dogma. Le interferenze di soggetti altri, fossero pure ai più onesti fini, ci siamo letteralmente dimenticati di cosa siano.

In secondo luogo poniamo la libertà di scelta rispetto ai contenuti e agli eventuali interlocutori con i quali discuterne. E se è vero che un certo mondo campa bene senza di noi, è forse anche più vero il contrario.

Infine, la libertà totale, prendendosi pure qualche rischio, rispetto alla materia musicale. Quando sei parte di un filone o di un movimento avverti il preciso dovere di non deludere “la tua gente”. Sicché ti ritrovi talvolta ad autocensurarti o, addirittura, a costringerti a scrivere qualcosa di canonico, che parli alla pancia d’un presunto “zoccolo duro” di ascoltatori di genere.

Oggi ci preoccupiamo di una sola tipologia di pubblico: quello di IANVA.

Un pubblico che, con il tempo, è cambiato e si è evoluto con noi. E che è ormai abituato alle nostre tempistiche, alle nostre prolungate assenze e, suppongo, ai nostri azzardi stilistici e al nostro vagabondare tra i temi e i soggetti ispiratori. E che non ci chiede che la fedeltà ad un modulo che ormai non è più di tanto stilistico, quanto piuttosto etico. Il modulo IANVA. Chi ci segue sa di che parlo.

 

 

– Nel pre-Ianva sei stato leader sia dei Malombra sia del Segno del Comando, band con radici musicali e concettuali molto diverse rispetto a Ianva. Cosa si può mantenere di tali esperienze e cosa consideri ormai superato?

 

Come ogni progetto artistico che tiene idealmente a portata di mano una qualche forma di “classicismo”, un Canone, chiamalo come preferisci, anche i dischi che tu citi non saranno mai “superati” proprio perché, a loro tempo, non si erano mi curati di suonare “attuali”.

L’immediata conseguenza di questo atteggiamento fu quella di essere avversati per partito preso da una certa critica sempre incline a sovrapporre il progressismo ideologico a un “nuovismo” sonoro spesso solo presunto.

Inoltre, non percependomi tecnicamente un musicista, puntavo a qualcosa di differente da una normale band. A riprova di ciò basti ricordare la copiosa parte testuale e teorica che spesso compariva all’interno delle stampe: quasi un tentativo di enunciato filosofico dal quale, ancor oggi, mi pare trapeli più d’un indizio di ciò che molti anni dopo mi sarebbe riuscito di precisare.

Ciò che perseguivo era un’entità assolutamente contro-culturale nei contenuti, ma che a differenza delle voghe di quei giorni, falsamente e ipocritamente adagiate sulla posa del vittimismo, del barbonismo tossico, della passività e dell’indolenza, non rinnegasse l’essenza contraddittoria e ambigua dei mitemi più lussureggianti del rock. Mitemi romantici e, in qualche caso persino, “eroici”. E che erano, a mio modo di vedere, ormai in odore di “canonizzazione” e di “classicismo”.

Non so se mi spiego: stavamo assistendo ad un fenomeno raro, ossia l’assimilazione nel Canone Occidentale di tutto ciò che fino a poco prima era stata considerata arte dubbia e quasi sempre sovversiva, eppure sembrava che nessuno fosse consapevole della significanza del fenomeno.

Ricordo che nella mia primissima intervista affermai che la band che immaginavo era una fusione Di Black Sabbath, Magma e Rosemary’s Baby. Nota: c’era già tutto. Graniticità rock e avanguardia “colta”. Carne palpitante e sangue pulsante, ma anche Spirito e Infinito e Mistero.

C’era l’idea che non si potesse prescindere dalla peculiarità di un suono, da un immaginario mitico e da un impianto filosofico coerente ed unico.

Da qui l’ipotesi che dal “Comando”, l’imperativo in senso magico che scaturisce dal suono “preparato” e dal linguaggio “iniziatico” combinati assieme, si potessero evocare delle forze superiori. Di natura si psichica, certamente. Ma sempre primordiali, anzi perenni.

E, infine, l’intuizione che occorressero spregiudicatezza e astuzia nel rapporto con i Media. Un ben calcolato utilizzo dell’elemento scandalo e del senso di minaccia immanente che certe operazioni ben condotte possono evocare.

Ma al di là di questa impostazione teorica, restava il fatto che, a differenza di come mi hai presentato, non ero affatto il leader di quei progetti.

Un leader si prende si cura dei bisogni della comunità, ma, in definitiva, dispone ed esige mentre gli altri, più o meno volentieri, eseguono. Invece, al fatto di disporre d’una sostanziale carta bianca sotto il profilo filosofico e poetico e di essere conseguentemente il portavoce, non faceva affatto seguito una leadership effettiva da parte mia.

L’ovvia conseguenza era che ognuno faceva né più né meno che ciò che gli aggradava.

Personalmente puntavo a vivere un’eccitante avventura intellettuale, ma non mi sfiorava affatto l’idea che per perseguire un simile scopo fossero indispensabili dotazioni molto pratiche: una buona preparazione tecnica individuale, un’esatta conoscenza di tutti i meccanismi del lavoro discografico, la consapevolezza che non esiste un “buon” dilettantismo ma, al limite, solo un professionismo che il mondo esterno non è ancora pronto a retribuire come tale.

E infine: soldi. Allora più di oggi. Forse non così tanti quanti ne sperperava al tempo l’industria musicale. Compresa quella sedicente “indipendente”: una mostruosa, autorigenerante macchina di vanità che, specie in Italia, ha volatilizzato bilanci colossali. Anche perché in parte ostinata e in parte obbligata, dalle consuete dinamiche politiche ça va sans dire, a produrre valanghe di gruppi letteralmente atroci che, all’atto pratico, nessuno era così fesso da comprarsi.

Noi non si pretendeva nulla di simile. Anzi: eravamo tutti più o meno oscuramente consapevoli che per quei lidi imperversava il morbo piuttosto che la cura. Ma neppure si poteva campare spendendo per un disco, magari doppio, quanto una band indie senza suono, senza scrittura, senza palle e infatti senza storia, spendeva per un demo di tre pezzi da spedire alle label di grido.

Ciò, inevitabilmente, finì per ingenerare un’aura di sciatteria e di pressapochismo che davvero non facevano onore all’originalità e alla profondità delle idee di cui ci facevamo interpreti.

Per cui, con un’insipienza che oggi mi appare incredibile, pensammo bene fare di necessità virtù ficcandoci in una nicchia di cocciuta retroguardia. Rispettabilissima in sé, ma che non ci apparteneva affatto e che, infatti, non ci ha mai completamente accettati. Col senno di poi e almeno per quanto mi riguarda mi dico: meno male! Ma intanto, però, ci siamo ritrovati a viverci un’intera stagione del rock italiano che ancor oggi molti non riescono a rievocare senza farsi spuntare la classica lacrimuccia, in veste di sgangherati outsider scagliati in un visionario non-tempo.

Ma il risultato, paradossale, è che se riascolti ciò che facevamo, e che all’epoca veniva ficcato senza ripensamenti nel filone “nostalgia”, non avendo ancora avuto la lucidità di coniare il concetto ossimorico di retro-avanguardia, scoprirai che suona “rustico”, ma per nulla superato.

Mentre invece se vai a riesumare certe sigle che in quei giorni erano incensate su taluni organi di stampa votati all’idea corrente di Hic Et Nunc, non crederai alle tue orecchie da quanto suonano muffite. Roba così loffia e artificiosa che ti vergogni per chi l’ha fatta. Cose d’un cattivo gusto stordente. Suoni che, una volta sgonfiati dal vento in poppa dell’up to date, tradiscono tutta la dozzinalità e tutta la fuffa di cui erano infarciti. E che solo il pregiudizio positivo alimentato da un’industria mediatica già allora sulla via dell’onnipotenza poteva gabellare per Arte.

Purtroppo, però, in un’epoca in cui persino certe mezze tacche di cui sopra, non solo davano l’impressione di poter campare di musica, ma persino ostentavano pose da grandi protagonisti, certi miei colleghi di band mordevano il freno. Era ovvio che d’una coerenza intellettuale dei cui contorni, devo ammettere, io stesso non avevo che un’idea assai vaga, dopo un po’ non sapevano più chiaramente che farsene. Si sarebbero forse aspettati un colpo di coda, un miracolo da parte mia che li trasportasse, finalmente, nei contesti che ritenevano di meritare e che, forse, magari davvero meritavano. Ma tutti indistintamente, loro ed io, non possedevamo il bene supremo della visione lucida della realtà che, non di meno, presto si sarebbe fatta capire con la consueta efficacia.

Considero tutto ciò come un vero percorso di formazione. Sia sotto il profilo tecnico che sotto quello umano. Una sorta di lungo tirocinio per pervenire finalmente, passando anche attraverso qualche ulteriore episodio intermedio, all’incarnazione artistica che oggi mi rappresenta compiutamente, ossia IANVA.

In effetti quanto di concettualmente più vicino a ciò che vagheggiavo fin dai primordi, seppure con il debito riorientamento sonoro anche in base all’evoluzione del gusto e dell’età.

Ciò, però, non significa, come qualcuno ha insinuato, che queste siano solo scuse perché nel frattempo avrei smarrito la capacità di affrontare certi generi. Avrei interi dischi, un intero repertorio nuovo da sviluppare se volessi. E, rispetto ad allora, potrei anche mettere in campo qualche risorsa e qualche competenza in più. Ma il tempo e le forze sono quelle che sono per cui per ora lascio le cose come stanno.

 

 

 

– Come si può evolvere ancora il progetto Ianva, quali linee di ricerca possiamo aspettarci per il futuro?

 

Di questi tempi e data l’attuale situazione in cui versano la musica e le arti in genere, il prossimo e decisivo step evolutivo potrebbe presumibilmente essere quello della semplice sopravvivenza.

Non sottovaluterei questo aspetto, fossi nei panni di certi colleghi: è in atto una ridefinizione del mondo secondo i desideri e le esigenze della Cerchia che sta inducendo questa mutazione a tappe forzate. E non è affatto detto che nel domani in cui ci ritroveremo, sarà consentito a tutti di continuare ad essere ciò che sono e a fare ciò che fanno.

Neppure gran parte di coloro che oggi fanno gran sfoggio di lealismo nei confronti di queste autorità dovrebbero sentirsi così rassicurati che un posto per loro si troverà.

Anzi: sarà uno spettacolo sommamente istruttivo assistere a quanto succederà quando molti scopriranno di essere, malgrado la rigida osservanza dei temi e dei linguaggi raccomandati, tra i dismessi e i rottamati.

Noi, non essendo mai stati, ieri come oggi, dei cantori accreditati presso potentati e intellighenzie, godiamo dell’indubbio vantaggio di non avere da perdere nulla più di quanto non ci abbiano già a negato a prescindere. E perciò sono certo che, a meno che non ci chiudano la bocca con la forza, il nostro posto, quello consueto sullo scranno della più intransigente dissidenza, è assicurato anche in questo bruttissimo domani.

A quel punto, suppongo, dovremo trovare la formula per essere più “contro” di quanto siamo mai stati. Il che non significa necessariamente diventare più frontali o più facinorosi. Ma potrebbe invece significare il contrario: esplorare le proprie radici fino a profondità finora impensate, per esempio.

Confrontarci una buona volta con il più vasto, profondo e immanente dei temi. Iniziare a somigliare davvero, sul piano sonoro, a quel monumento funebre che è diventata la civiltà alla quale ci ostiniamo a guardare.

C’è sempre stato nell’opera di IANVA un risvolto che è autenticamente, anzi, letteralmente “spettrale”. Noi, in fondo, abbiamo dato voce a mondi perduti, a vite obliate, a generazioni sepolte, a momenti salienti che, come fotogrammi, fluttuano alla deriva sul fiume del tempo e della Storia.

È vero che l’essenza di IANVA è cinematica, ma il nostro è uno spettacolo di ombre dell’Ade.

Credo sia principalmente questo aspetto, in fondo inquietante e onnipresente dentro ogni risvolto del nostro repertorio, inconsciamente percepibile anche da parte dei più distratti e sprovveduti, che ci ha impedito di diventare un autentico gruppo pop.

Ciò malgrado la nostra vocazione melodica e il sicuro mestiere sul quale, inutile nascondersi, sappiamo di poter contare. Ma è ormai evidente che questi strumenti esistono per servire altro. Per testimoniare di altre presenze.

Ecco: credo che la nostra prossima incarnazione potrebbe originarsi da questa acquisita consapevolezza.

 

 

– Gli artisti devono essere “le antenne della specie”, come diceva Ezra Pound, tu di questo periodo cosa capti chiaramente e cosa puoi suggerire ai nostri lettori, nella teoresi e nella prassi?

 

Mi pare che siamo sul punto di comprendere finalmente, con tutte le implicazioni traumatiche che questa comprensione comporterà, ciò che significa davvero l’irruzione nella realtà di determinati fenomeni che in questi anni abbiamo sempre paventato e che, nel nostro piccolo, abbiamo sempre fatto del nostro meglio per scongiurare, ricevendo in cambio solo beffe sguaiate, accuse di complottismo e consigli di rivolgerci a qualche psichiatra particolarmente bravo.

Siamo al punto che già nell’antichità veniva contemplato come possibilità nefasta, quello che già in passato avevo definito, più modestamente, “fronte della realtà”. Una sorta di ultima trincea sulla quale, semplicemente, rischia di consumarsi la fine della Civiltà per come l’abbiamo conosciuta noi e i nostri antenati.

A venire meno è il principio classicamente definito adaequatio rei et intellectus, corrispondenza tra realtà e intelletto nella definizione della verità.

Tra breve avremo delle leggi che impediranno di definire maschi i maschi e femmine le femmine. Altre che puniranno con pene draconiane chiunque osi fare cenno a dati oggettivi come le differenze morfologiche tra una razza e l’altra o tra due individui di differente corporatura.

Avremo comitati governativi che sanciranno cosa della memoria storica, dell’arte, della letteratura, dei monumenti, nella musica e nel cinema meriterà di essere tramandato e cosa cancellato.

Il tutto sulla base di uno “standard della comunità” mutuato dalla policy dei Social e da una non ben definita “sensibilità contemporanea” ricalcata sui sensi di colpa e sulle pulsioni autodistruttive di una generazione di bambocci privilegiati, dall’animo delicato fino al masochismo. È ovvio che dietro a tutto ciò c’è un progetto per ridisegnare il mondo fortemente alimentato da certuni, facoltosissimi “illuministi tenebrosi”.

Mi sono sempre divertito con gli ossimori perché, più spesso di quanto s’immagini, possono donare lampi d’intuizione, questi si davvero illuminanti. Sono la condensazione verbale di possibilità potenziali che attendono solo d’inverarsi. Per poi imporre al linguaggio corrente l’obbligo di definirle. Ma sempre e solo, lo ripeto, attraverso la loro sopravvenuta esistenza. Il che, se ci rifletti, è un discreto atto di sovversione in un tempo in cui è il linguaggio corrente a determinare i fenomeni e non il contrario.

Nella saga de “La Mano Di Gloria”, Pietro Jorio, che è l’ideologo del gruppo, fa un largo uso di ossimori perché, a dispetto della sua eloquenza, ha sovente accessi di illuminazione visionaria che vanno a rischiarare per un breve istante luoghi dove risiedono, inespresse, possibilità inaudite. A quel punto, la chiosa verbale, lo slogan fulmineo e quasi enigmistico diventano per lui il solo media linguistico per comunicare quell’idea.

Solo che ormai l’esigenza di trovare delle definizioni a quanto sta accadendo pare non sia più così impellente. Il che non è affatto un buon segno perché ci conferma che nel frattempo è accaduto qualcosa che ci ha trascinati a vivere il classico “salto di paradigma”.

Tutto ciò accade quando l’irruzione degli eventi traumatici, quell’“impossibile eppure reale” che caratterizza gli scarti epocali, riesce ad erigere nella psiche umana una sorta di paratia stagna che non solo ci fa percepire il corso degli eventi idealmente divisi tra un prima e un dopo, ma ha il potere di sprofondare il “prima” in una sorta di rarefazione onirica. E vorrei ricordare come nulla più della “materia del sogno” sia facilmente abrogabile.

Siccome i padroni unici del discorso scorgono l’opportunità di conseguire a tappe serrate il mondo che hanno sempre vagheggiato e, grazie alla paura profusa, ci stanno pure riuscendo, invito tutti a forzare le maglie di questa ipnosi che, come tutti gli stati psichici alterati, è tecnicamente reversibile.

E a riprendersi, con la propria vita, anche l’attitudine alla vigilanza.

Eventi come il nostro convegno, realtà come il vostro sito, dov’è ancora possibile fare informazione non asservita, servono esattamente a questo: ad affinare questo tipo di strumenti psichici. Per questo dobbiamo tornare quanto prima ad agitare le acque. In questa fase la calma piatta è letale.

Ma esiste pure il tangibile rischio che per assicurarsi questo diritto ad esistere ci si debba risolvere presto o tardi a combattere sul serio. E non posso fare a meno di chiedermi, con timore, quanti oggi saprebbero o verrebbero farlo davvero.

 

 

Nota Redazione: le immagini sono tratte dal canale Facebook ufficiale degli IANVA

 

 

1 Comment

  • Giulio Leoni 18 Luglio 2020

    Grande intervista a un grande gruppo.

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