Come leggere gli scritti ermetici? Si tratta di scritti greci? egizi? o si tratta di un eclettico miscuglio di insegnamenti fors’anche ebraici, babilonesi oppure persiani? Quesiti apparentemente assurdi. Prendiamo, tra i tanti, un testo esemplare, l’Asclepio.
Asclepio è un libro scritto in latino che risale al quarto secolo dopo Cristo. È una libera traduzione di un testo greco intitolato Teleios logos «Discorso finale», del quale restano solo più frammenti. Una versione copta, cioè tardo-egizia, di una parte di essi si ritrovò nel 1945 in uno dei tredici codici gnostici affiorati dalle sabbie di Nag-Hammadi nell’Alto Egitto. È fuor di dubbio che i frammenti copti dipendano da un originale greco, e non viceversa. Inoltre questi scritti sembrano tradurre una versione del Teleios logos talmente genuina, da superare in completezza l’Asclepio latino.
Ma la faccenda è complicata. Il Teleios logos si ritiene composto nell’Alessandria d’Egitto dei primi secoli dopo Cristo. In quella metropoli, la seconda città dell’Impero Romano, fondata da Alessandro Magno nel 332 a.C., la cittadinanza vantava origini greche, esistevano però delle vaste comunità ebraiche e persiane, mentre il resto della popolazione era autoctona, cioè egiziana, erede della grande civiltà faraonica. La lingua parlata era il greco.
L’ellenismo era il tratto che univa una grande civiltà: in Egitto, gli ultimi “diadochi” Tolomei cercavano di far rivivere in ogni modo i fasti dell’antica, gloriosa, religione, dando un volto greco alle vetuste divinità egizie (Iside e Osiride) o creandone addirittura, sincreticamente, di nuove (Serapide, Arpocrate, etc.). Lo stoicismo insegnato da Posidonio di Apamea, maestro di Cicerone nell’isola di Rodi del primo secolo d.C., era la filosofia dominante la cultura alessandrina. Il suo pensiero può essere riassunto in due parole: “Cosmo” e “Simpatia”. Quando Posidonio viaggiò a Cadice, nei pressi di Gibilterra, per studiare i flussi e i riflussi delle maree oceaniche (Strabone III, 5, 7-8 = Vimercati, pp. 142-147), comprese che questi fenomeni erano legati alle fasi e agli aspetti della Luna. Dall’osservazione di questo e di altri fatti analoghi egli dedusse che esisteva una simpatia, una sincronicità che lega gli uomini al tutto, una sympatheia tōn holōn. Una filosofia ben accolta nelle cerchie alessandrine, poiché serviva da paravento per chi voleva addentrarsi nei segreti delle scienze occulte quali l’alchimia e l’astrologia, molto popolari al tempo. L’Asclepio non fa eccezione a questi dettami. Nel primo capitolo l’autore enuncia il fondamento dell’intera opera: omnia unius esse aut unum esse omnia “Tutte le cose appartengono all’Uno e quest’Uno è tutte le cose” (Ramelli, pp. 514-515). Il tutto è unità e molteplicità, poiché parte di una simpatia cosmica che permea l’intero universo. Un asserto che accomuna Ermete Trismegisto a Posidonio.
Nel cap. 12 dell’Asclepio si parla della metempsicosi: l’uomo ha un’anima per glorificare Dio e un corpo per salvare sé stessa e il cosmo. L’anima proviene dai firmamenti interiori, la salvezza è il ritorno verso questa identità celeste. La trasmigrazione è la condanna per l’anima quando, racchiusa nei corpi, ha violato un ordine spirituale e morale. Il capitolo seguente, il tredicesimo, parla dell’apocatastasis astrorum (Ramelli, pp. 536-537), il ritorno degli astri alla loro posizione iniziale. In questo la dottrina ermetica auspica la contrazione del tempo: il cosmo deve ritornare al punto della mundi genitura,che è una regenitura, il tempo deve cioè ritornare nel luogo astrale in cui non esiste tempo, nel “paradiso” al grado zero dell’Ariete. Sulla stessa strada deve incamminarsi l’anima per ritornare nella condizione di purità iniziale.
Questa lunga premessa per parlare di un romanzo recentemente edito: Marcello Giglietta, Il dio ingannatore, Alcheringa Edizioni, Anagni (Frosinone) 2014, pp. 367, Euro 12, 60. Gli intenti della narrazione sono notevoli: una traccia ermetica che segue la falsariga della psicoterapia. Il tema dominante è quello della metempsicosi. Il protagonista, Alvin, muove la sua anamnesi dall’ascolto di un brano musicale. Da lì è tutto un susseguirsi di vicende che lo porteranno a riscoprire aspetti incogniti della sua e di altri esistenza.
L’esperienza del reale è un fatto mentale, un cangiamento della nostra percezione: il susseguirsi degli eventi non obbedisce a una logica determinata, assoluta: i fatti accadono secondo una sincronia e un intreccio di nessi acausali che coinvolgono il soggetto dell’esperienza e ne modificano in certa misura il destino, un’idea già presente nella speculazione indiana e ripresa in Occidente da Schopenhauer. Un libro certamente di non facile sviluppo.
C’è poi un discorso che coinvolge tutto questo genere di letteratura, genericamente definito “New Age”, cioè il recupero di autentici e genuini insegnamenti tradizionali piegati in una mitopoiesi soggettiva. Certo, “si chiama creatività”, direbbero molti, ma nel caso del nostro romanzo la creatività si è spinta in una ricodificazione del dato ermetico, collocato in una contemporaneità straniante. I presupposti metempsichici e i vagheggiamenti gnostici del titolo, sicuramente affascinanti, non trovano a mio parere un degno compimento nel finale. A voi però, ermetici lettori, il giudizio definitivo.
Ezio Albrile
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