Precisò Platone nel Cratilo che herōs deriva da érōs perché gli eroi «sono nati o da un dio innamorato di una mortale o da un mortale innamorato di una dea». Ne consegue che l’eroe dell’antichità classica era un ibrido la cui nascita si collocava idealmente nel tempo lontano in cui vi fu un’attrazione reciproca fra la stirpe divina e quella umana.
Proprio la natura meticciata diede a questo individuo due facce, una scura e l’altra luminosa. Da un lato c’era un guerriero fuori del comune che sembrava percepire nel suo cuore la tradizione solare di matrice indoeuropea come un’eredità della quale farsi cosciente portatore, dall’altro un soggetto immaturo mostrava di non saperla gestire, o comunque di non conoscerla fino in fondo.
Sempre, comunque, l’eroe della Tarda Età del Bronzo rimaneva fedele a sé stesso. Persino quando era vinto dal Fato, finiva sconfitto in battaglia o stava per perdere la vita egli mostrava una fede incrollabile nel proprio progetto. Andava avanti imperterrito, ligio a una specie di autarchia morale e spirituale basata sulla determinazione di chi non conosce condizionamenti, neppure quando a prevalere era il dolore.
Se c’era da piangere l’eroe piangeva, se c’era da ridere l’eroe rideva. Atteggiamenti che sarebbero inconcepibili nel mondo di oggi, dove la sostanza non conta più nulla perché tutto si fonda sull’apparenza. Ma a quei tempi non era ancora nata la mistificazione pubblica, l’etichetta, la facciata di cartapesta innalzata per nascondere le macerie.
Le ambiguità non impedivano all’eroe di essere un mito, un portento, un divo adorato dal popolo come oggi si può adorare una rockstar. Un’icona permanente di gioventù e bellezza. Se il guerriero solare Indra poté comprendere la verità invecchiando, una volta messo da parte il suo ingombrante Ego, il guerriero bronzeo Achille non ne ebbe il tempo poiché una morte prematura lo colse prima di qualsiasi trasformazione.
Rispetto all’eroe solare, quello bronzeo appariva più sbilanciato dalla parte dell’umanità. Non erano le spade o le frecce ad agitare i suoi sonni, anzi, proprio nel ferro stava tutta la sua fortuna. Né la morte che salutava in battaglia come se fosse la benvenuta, un’amica da celebrare sempre. Se però la forza fisica in lui calava, o una ferita gli causava una menomazione permanente, allora sbandava come un bambino che sta imparando ad andare in bicicletta.
Ma il popolo non pretendeva che i suoi idoli fossero anche dei campioni di stabilità. O che s’interessassero di questioni troppo alte, come quelle che riguardavano lo Spirito, un Ente immateriale ritenuto nell’Età del Bronzo ampiamente superato dalla ricerca della potenza fisica, massima espressione della virilità e fonte di eterna gloria.
Una grandezza che non riguardava solo chi la incarnava ma la comunità intera. Proprio l’«effetto trascinante» esercitato da questi giovani pronti a tutto consentì al genere umano di proiettarsi in una dimensione «superiore», in una vita più grande, in un racconto di fondazione senza il quale nessun popolo avrebbe mai potuto nascere, crescere e svilupparsi.
La narrazione greca attribuì alla dea geniale, Atena, l’idea di porre fine dell’età degli eroi con un’uscita di scena in grande stile. Dopo la sepoltura di Ulisse sull’isola di Eea la dea fece in modo che Penelope si unisse a Telegono e Circe sposasse Telemaco. La Storia bronzea spostava ufficialmente il baricentro della Grecia all’Italia entrando in una dimensione di familismo privatistico anziché collettivo: da Circe e Telemaco nacque Latino, da Penelope e Telegono nacque Italo. La società umana cambiava registro, incamminandosi sulla strada dell’individualismo.
Oggi, infatti, la parola «eroe» ha un sapore antico. Per combattere le guerre meccaniche di cui è costellato il quotidiano non serve spaccare l’avversario dalla testa alla spina, sperando di non ricevere lo stesso trattamento qualora l’altro si dimostri più forte, basta imparare a gestire la macchina avuta in dotazione, seguire le istruzioni per l’uso e schiacciare i tasti consigliati.
A causa dell’egualitarismo massificante che ha svuotato di senso il concetto di «collettività», la società attuale è alle prese con una generazione di strani individui figli di una madre nevrotica, o frustrata, e di un padre inesistente, o poco virile, ai quali tutto è dovuto. Nipote biologico del Sessantotto il nuovo modello di uomo, eccessivamente ansioso e potenzialmente aggressivo, reclama tutto e subito ritenendo intollerabile qualunque proibizione. È stato bocciato? Colpa dei professori. La sua ragazza lo ha lasciato? Non era alla sua altezza. Lo hanno licenziato per scarso rendimento? Sfruttatori ignoranti che non hanno compreso il suo talento. Ha investito una vecchietta sulle strisce pedonali? A quell’età non si va in giro da soli.
L’individualista di massa è un incolpevole nato ben cosciente dei suoi diritti e sempre pronto a querelare il prossimo, a denunciare chiunque si azzardi ad avanzare il benché minimo sospetto sulla correttezza del suo operato, sulle sue azioni, o sulle sue meravigliose doti di uomo/donna e di cittadino. E se scoppia una pandemia mondiale che miete vittime soprattutto nella fascia di età più alta, tanto peggio per chi muore; lui e i suoi coetanei non possono sacrificare cose imprescindibili come l’aperitivo e la pizza in compagnia (dello smartphone, in realtà) in nome dei nonni.
Postando tutti i giorni la sua faccia su un social il Signor Nessuno si crede speciale, ma è solo un edonista patologico che vuole vedere riconosciuti meriti inesistenti e ambizioni velleitarie. Sul come sia stato possibile sfornare un’umanità convinta di essere sempre in credito con il mondo sono stati scritti libri su libri. Tutto torna, comunque, all’angoscia esistenziale legata al timore della morte e alla smania correlata dell’essere umano di realizzarsi nel «qui ed ora».
Finché la morte è stata vista come il «passaggio naturale» a un livello di esistenza puramente spirituale anziché «la fine» di tutto, le ansie sono rimaste sotto controllo. Le anime dei trapassati entravano nel regno dello Spirito, nella realtà non ordinaria, un luogo di trasformazione e di rapida evoluzione, per continuare altrove il loro percorso. Ma il rafforzamento dell’Io ha pericolosamente allontanato l’uomo dalla sua parte spirituale trasformando la morte, una inevitabile esperienza della vita, in un «problema» da risolvere. Come se ciò fosse possibile.
Poco meno di un secolo fa il pensatore Julius Evola aveva predetto la nascita di una nuova «Età Eroica» che, irrompendo nella parabola discendente dell’umanità, avrebbe prodotto uno squarcio nella Storia capace di riscoprire la «luminostità dell’Origine» e riaprire la strada a un Ciclo inedito. Per il momento non si vedono grandi eroi all’orizzonte, tuttavia tanti piccoli eroi agiscono nell’anonimato calati in un mondo in costante mobilitazione.
Un enorme e sanguinoso dissodamento della Terra è in atto, virus sconosciuti attentano alla vita delle persone ricordando all’uomo la sua fragilità, i paesaggi sono in perenne trasformazione e dissesto, dilagano le provvisorietà informi e deformi della modernità, le procedure scientifiche e gli apparati tecno-burocratici agiscono in una sconcertante freddezza d’insieme. Ci vuole una buona dose di eroismo, diciamocelo, a vivere in un tempo disastrato come questo. E difatti ognuno nel suo piccolo è un «vero» eroe, un «eroe della resistenza».
Di sicuro i posteri che studieranno la nostra storia tra migliaia di anni non troveranno alcun Eracle o Lúg Lámfada da ricordare, e degli influencer che oggi vanno per la maggiore si sarà persa ogni traccia. L’uomo vale per le impronte che lascia e noi non avremo lasciato granché. Il grosso della Storia sta ormai alle nostre spalle, ci troviamo alla fine di un Ciclo e la mole di avvenimenti è troppo consistente perché chiunque possa realizzare qualcosa di significativo.
La nostra immensa disperazione fa tuttavia di noi una potenza, nel senso che formiamo una massa d’urto senza precedenti. Siamo disperatamente forti e proprio servendosi di questa energia le prossime generazioni re-impareranno a vivere come esseri umani, attenendosi a nuovi ideali e rifiutando le richieste meccanicistiche imposte da una Tecnologia sempre più invadente. Il mondo futuro sarà qualcosa di completamente diverso rispetto alle epoche precedenti, qualcosa che attualmente non riusciamo ad immaginare, qualcosa che si può fare ma che ancora non è stato fatto.
Rita Remagnino