Dopo la recensione del volume Viaggio tra i mistici del Giappone di Paul Arnold, che aveva una puntuale introduzione di Riccardo Rosati, torno a parlare su “EreticaMente” del Sol Levante. Il nome di Rosati riappare, accanto a quello di Carlomanno Adinolfi, autori e curatori del saggio illustrato Samurai d’inchiostro: sole e acciaio nei manga e anime giapponesi, pubblicato dalla libreria e casa editrice romana Profondo Rosso nel 2023. Adinolfi e Rosati, insieme ad Alessandro Bottero, anche lui presente nel tomo giapponese che andremo a sviscerare (no, non mi riferisco al seppuku!), sono tra le firme di Vintageverse, l’antologia di racconti con protagonisti supereroi italiani della quale ho già parlato su queste “colonne”. Non siamo sicuramente di fronte a casualità perché si tratta sempre – anime, manga e narrativa del superuomo – di immaginazione esaltante e di eroiche fantasticherie. Ma forse c’è qualcos’altro, qualcosa di più profondo, che rimanda a un’affinità più solida, lucente come il sole e forgiata nell’acciaio…
L’orientalista ed esperto di fumetti e cartoni animati giapponesi Gianluca di Fratta inizia infatti la sua puntuale prefazione con un discorso sul “gruppo”:
Nel saggio “La dynamique des groupes” (1973) Jean Maisonneuve, ricercatore francese sulle dinamiche di gruppo e sulle relazioni interpersonali, definisce i gruppi come insiemi sociali di dimensioni e di strutture molto diverse il cui carattere comune è dato dalla pluralità degli individui e dalla loro più o meno forte implicita solidarietà. Esistono altre definizioni di gruppo, ma questa di Maisonneuve ci sembra la più convincente poiché propone l’idea di “insieme come pluralità”, sostenuta da sentimenti di solidarietà che la unificano. Le motivazioni che sono alla base dell’appartenenza a un gruppo possono essere molteplici: la vicinanza, ad esempio, la somiglianza e l’identificazione. (…) Il variegato manipolo di autori che partecipano alla stesura di questo libro, coordinato da Carlomanno Adinolfi e Riccardo Rosati, sembra rispondere esattamente a quei criteri di somiglianza e identificazione, cioè a quel moto viscerale che, al di là della vicinanza fisica o del circolo di appartenenza, spinge a sentirsi inseriti in un gruppo attraverso una compartecipazione di valori e soprattutto di linguaggi.
E subito dopo arriva un chiaro riferimento a Mishima, prima lasciato sottotraccia:
Ancor più che nella dichiarazione di intenti del titolo, che parrebbe alludere a una mera partizione di un più ampio bagaglio estetico del fumetto e del cinema di animazione giapponese, è nel sottotitolo che si rivela in tutta onestà lo spirito del libro. Quel “Sole e acciaio” di mishimiana memoria che pervade in maniera omogenea le differenti declinazioni del dibattito, così negli accenti marziali della interpretazione del mondo dei samurai come nella concezione animista dello spirito religioso del Giappone, così nelle forme estetiche che in vario modo compongono la Via del Guerriero come nell’impianto valoriale che maggiormente contribuisce alla fascinazione (o al rifiuto) per l’immaginario giapponese. Il Sole del linguaggio e l’acciaio del corpo.
Nell’introduzione Adinolfi (che si firma doverosamente insieme a Rosati) parla in toni brillanti e attraverso aneddoti della singolare genesi del libro, evoluzione cartacea degli atti di una conferenza su manga e anime che doveva tenersi a Roma, nei locali di CasaPound, il 6 marzo 2020, ma che fu annullata a causa delle restrizioni “pandementi” di Conte e Speranza; l’annuncio della conferenza aveva però già scatenato il solito vespaio di becere polemiche politiche, con giornalisti sinistri sulle barricate e partecipanti pentiti, come ben spiegava lo stesso Adinolfi su “Il primato nazionale” il 5 marzo di quell’anno, nel pezzo Samurai d’inchiostro: i manga a CasaPound mandano in tilt i censori politicamente corretti, sapido articolo al quale senz’altro vi rimando, essendo ancora presente e ben rintracciabile in Rete. Polemiche senza senso furono quelle compagnesche, perché, come si legge nell’introduzione…
Invero, l’iniziativa non aveva nulla a che fare con la politica! L’obiettivo era semplicemente quello di parlare di manga e anime, ma senza scadere nel classico nostalgismo degli “adulti” che ricordano il passato fanciullesco di quando guardavano i cartoni in TV e soprattutto senza lasciarsi andare a un nerdismo che si riduce in collezionismo e citazionismo sterile. Anzi l’intento era di rilanciare e rivendicare la valenza altamente culturale di tutto quel mondo fumettistico e animato che non esprimeva, e non esprime tuttora, solamente svago e intrattenimento, ma rappresenta attraverso immagini e storie l’anima più profonda e millenaria di un Popolo e di una Nazione. L’idea era quella di dimostrare che, in qualche modo, il ruolo della sterminata produzione nipponica è lo stesso che a suo tempo avevano avuto i miti prima e le favole dopo, e non si volevano affatto, come purtroppo si è pensato, fornire insegnamenti morali, quanto piuttosto rappresentare archetipi eterni attraverso le figure e i tòpoi narrativi adatti all’epoca in cui viviamo. D’altronde il Giappone è noto come il Paese ove antico e moderno, tradizione e progresso trovano una sintesi non riscontrabile in tutto il resto del mondo.
Nel cuore del saggio troviamo per primo l’intervento di Riccardo Rosati: La visione del mondo dei samurai nei manga e negli anime. Lo scopo è quello di presentare al lettore, attraverso attente analisi e rimandi storici e filosofici, le più pregnanti opere del cartooning nipponico dedicate a quelle mitologiche figure combattenti: il samurai e la sua spada (la katana, il suo alter-ego), che, nel percorrere il bushido (la “via del guerriero”), sono indissolubilmente legati al buddismo e allo zen (quello che Evola vedeva come un ritorno alle origini, una riscoperta, una rinascita del vero buddismo). È il cosiddetto filone narrativo Chanbara, importantissimo per l’immaginario nipponico: nella finzione cinematografica e fumettistica il samurai rappresentò per il Giappone (fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale) Giappone quello che il cowboy rappresenta nelle saghe western per l’America. La figura del samurai torna in auge nei fumetti nipponici con gli anni ‘60, quando il Paese comincia a riscattarsi dalla sconfitta e dal giogo statunitense grazie a una ferrea etica del lavoro: è il caso del manga La leggenda di Kamui, opera di Sanpei Shirato. Rosati non si limita al Giappone, perché la narrativa nazionale nipponica incentrata sul samurai, nei decenni successivi aveva travalicato i confini del paese del Sol Levante, influenzando registi, sceneggiatori e disegnatori occidentali; impossibile infatti dimenticare uno dei capolavori di Frank Miller – l’autore americano inviso al progressismo che abbiamo già chiamato in causa su “EreticaMente” quando abbiamo analizzato 300, la storia delle Termopili. Miller, a metà degli anni Ottanta scrive Ronin:
Il “seme” gettato da Miller ha non solo permesso di attualizzare la figura del samurai, ma anche di spingere il lettore occidentale ad avvicinarsi al mondo dei manga. La presenza di un guerriero giapponese in una opera di un importante autore americano ha in buona sostanza legittimato il fumetto nipponico come un prodotto anche di qualità. Infatti, in Occidente prima della pubblicazione di Ronin, specialmente nei lettori adulti, tutto quello che veniva dal Giappone era giudicato di scarso interesse e adatto solo ai ragazzini. Il successo del capolavoro di Miller è un chiaro esempio di quanto il samurai sia ormai da decenni riconosciuto come una icona della cultura dell’Arcipelago e che non può essere scissa – almeno per quanto concerne una prospettiva di tipo tradizionale – dal suo portato filosofico-religioso.
Molto interessante anche la trattazione che fa Rosati della figura di Mishima in relazione all’immagine del samurai, alla nuova estetica giapponese, all’importanza dell’azione e alla dottrina del corpo; secondo Rosati il pensiero mishimiano ha cristallizzato l’immagine del samurai nella cultura popolare giapponese e non. Avvicinandosi alla conclusione, dopo aver sintetizzato l’essenza di capolavori come Lone Wolf and Cub, Kabuto, Ninja Scroll, Kurogane, Death Note, Gintama e altri, Rosati evoca ancora una volta Evola, inizialmente citato riguardo ai rapporti fra buddismo e zen:
Evola associa i concetti base della dottrina buddhista originaria sia alle regole morali della cavalleria medievale occidentale che al mondo romano. Questa “tendenza comparatistica” dell’intellettuale italiano è presente in varie sue opere, segnatamente negli articoli dove ritorna spesso questa sua idea di una visione abbastanza simile della esistenza tra una Tradizione occidentale ormai perduta da tempo e l’antica sapienza orientale. Inoltre, nello studio dello Zen, egli ama riproporre uno dei concetti filosofici a lui più cari, ovvero, la indispensabile autodeterminazione dell’Io: “Trovare in sé il proprio signore”, accomunando quindi la pratica Zen dei samurai a quella degli stoici. Questo concetto è sorprendentemente simile alla idea che è alla radice dello (…) Hagakure, in cui si predica l’“uccisione dell’Io” quale unica possibilità per ottenere una autentica libertà. Nel continuo paragonare la tradizione giapponese a quella occidentale, Evola ammette una qualche connessione tra il bushi e il cavaliere medievale, malgrado riconosca come la nostra cultura tenda a confondere la figura del guerriero, con quella meno nobile del militare, cosa che chiaramente non avviene nella tradizione nipponica. Egli identifica poi nella sacralizzazione della natura guerriera da parte del popolo del Sol Levante, in voga fino alla sconfitta della II Guerra Mondiale, una tensione metafisica proveniente dall’alto, dunque da una sorgente divina, più precisamente dal Tennō (天皇 , “l’Imperatore”).
Il finale dell’intervento di Rosati si tinge di amaro:
Si è mostrato come ninja e samurai, insieme alla loro destrezza marziale, abbiano fortemente influenzato i fumetti e il cinema di animazione a livello planetario. Dopo decenni di successi questo filone di storie si è però parzialmente indebolito quantitativamente e, specialmente, qualitativamente; sebbene non manchino oggi opere di tutto rispetto. A nostro avviso il motivo di tale regressione del genere Chanbara è il medesimo che ha toccato il cosiddetto “cappa e spada” occidentale, sia nella sua forma più classica, quella degli spadaccini, che nella sua “declinazione” americana: il Western. Del resto, alla stessa stregua delle imprese dei pistoleri, che un tempo facevano letteralmente impazzire le platee di mezzo mondo, anche le vicende che narrano le gesta di ninja e samurai hanno smarrito parte del loro smalto, e un appeal sul pubblico, in modo particolare su quello nazionale. Molto è a causa, come si è sottolineato in più occasioni, della ripetitività delle trame e dei contesti. Eppure, il minor interesse verso il Chanbara in Giappone è principalmente dovuto al suo imprescindibile collegamento con la storia, con quel glorioso ed eroico passato che ha visto scorrazzare per secoli attraverso il Paese degli spietati guerrieri dalle capacità formidabili. In tal senso, un importante studioso delle religioni francese come Henri-Charles Puech inquadra bene l’indebolirsi del legame che unisce il Popolo Giapponese alla dottrina e, aggiungiamo noi, alla sua tradizione: “Nel Giappone attuale, il Buddhismo occupa un posto che non è paragonabile a quello occupato nei secoli scorsi […]”. Se, come si è visto, la figura del guerriero è stata per secoli associata a questa religione, quasi sempre nella sua corrente Zen, il passo è breve per capire come la progressiva laicizzazione della Nazione abbia immancabilmente influenzato anche il Chanbara. Riteniamo, perciò, che il sistematico distacco dei giapponesi dalla propria identità, avvenuto negli ultimi sessanta e passa anni, abbia reso meno appetibili le avventure di personaggi “mitici” come Miyamoto Musashi; ammirati nell’epoca odierna quasi esclusivamente per le abilità marziali, e sempre meno apprezzati per il loro portato filosofico.
Lo Spirito del Giappone non si è mai eclissato: la tradizione Shintō nella Principessa Mononoke di Miyazaki è l’articolo scritto da Cristina Frattale Mascioli. Se Rosati parlava di azione, combattimenti, corpo, guerra, armi e infine morte, l’intervento della Mascioli ci riporta a momenti più “tranquilli” dell’esistenza. Spiega l’autrice:
Il luogo simbolo per i giapponesi è la foresta, che ha il potere di conservare una preziosa parte del loro spirito di esseri umani. La foresta origina e fortifica in essi il desiderio di proteggere l’ambiente, cosicché la Vita possa prosperare. Nel profondo della foresta abita il Sacro, che esiste di per sé senza bisogno di alcuna giustificazione utilitaristica. La Natura andrebbe vissuta secondo i giapponesi in chiave olistica: non alberi, non animali, fiumi o rocce, ma una dimensione che include ogni cosa e assume una valenza superiore alla somma delle singole componenti. Questa entità è al contempo forte e fragile: colpirne anche solo una parte metterebbe a rischio l’intero insieme.
La Principessa Mononoke di Miyazaki si inserisce dunque nell’ottica di una riscoperta, per via narrativa, del Sacro ancestrale giapponese, da individuarsi nella Natura come massima espressione della divinità: è lo Shinto (la “via degli Dei”). Ogni intervento umano nella Natura (per esempio la costruzione di un’abitazione o la coltivazione di un campo) deve essere sempre in sintonia con la Natura e in rispetto della Natura, dominata dagli spiriti benigni detti Kami. Il capolavoro di Miyazaki è pervaso di scintoismo:
Si pensi, ad esempio, al giovane protagonista (Ashitaka), il quale, colpito dalla maledizione di una Divinità maligna, è costretto ad abbandonare il suo villaggio e cercare la causa di quel male. Si troverà nel mezzo di una guerra fra gli uomini (con a capo Lady Eboshi) da una parte, e i Kami e gli animali della foresta dall’altra. Il viaggio di Ashitaka alla ricerca di se stesso è, in sostanza, un percorso di formazione che porta alla elevazione tutti i personaggi del film, in cui viene reiterata quella che è una costante in Miyazaki, e che qui diviene “regola”; ossia, il non strutturare la tensione interna alla narrazione in un banale scontro tra Bene e Male. Di conseguenza, la proposta di un’armonia da raggiungere e l’idea di una vita in sintonia con la Natura si implicano vicendevolmente, e pervadono gran parte delle opere del regista nipponico.
L’animismo è un altro elemento importante nell’opera di Miyazaki:
I film asiatici, africani o latino-americani hanno a che fare con un tema che è invece assente nelle produzioni dei cosiddetti Paesi sviluppati. Ossia l’Animismo, che appare, per converso, in quanto eccezione nelle pellicole occidentali, laddove è quasi sempre presente nelle altre. Qui e là nei suoi lungometraggi, Miyazaki tratta aspetti dell’Animismo, ma è con Principessa Mononoke che ne offre finalmente una silloge. Secondo lui, anche se l’Animismo viene considerato impropriamente una religione, non una di quelle con un dogma comunque, in esso pulsa un sentimento religioso semplice e primitivo. Miyazaki crede molto in questa forma di spiritualità, e condivide l’idea di attribuire un’essenza alle rocce e al vento, malgrado non ritenga affatto che vada definita una vera religione. A parer suo, esiste un sentimento mistico che permane ancora oggi in molti giapponesi, ed è la credenza che, nel profondo della loro Patria, si trovi un luogo davvero incontaminato a cui le persone non possono accedere: “In quel posto l’acqua pura scorre, alimentando foreste impenetrabili”. Una tale forma di sensibilità trascendente non viene però riconosciuta come una religione allo stesso livello di quelle “canoniche” (non vi è nessun testo sacro, né esistono santi), ma per i giapponesi è in definitiva, per usare le stesse parole di Miyazaki: “un sentimento religioso”. La foresta in cui è ambientata Principessa Mononoke non è stata disegnata sul modello di una reale (da quella di Yakushima, una isola a sud del Kyūshū, si è solo presa l’ispirazione). Piuttosto, è una raffigurazione di un “luogo magico” che continua a esistere all’interno dei cuori dei nipponici sin dai tempi più antichi.
Adinolfi è l’autore del terzo “movimento” del libro: La Via del Bushidō si anima. Qui si dimostra che, mentre in Occidente in generale e in Italia in particolare il fumetto e l’animazione (e sopratutto la produzione nipponica) sono ancora visti come “cose da bambini”, in Giappone le professioni del disegnatore di fumetti e dell’animatore sono considerate dalla società posizioni di grande pregio:
Il fumetto diviene quasi una forma di realizzazione di sé attraverso l’arte e in tal modo assume una sublimazione che lo fa essere un elemento inscindibile e connaturato del Giappone stesso, diventando uno dei tanti nodi che lega l’uomo alla sua terra, alle sue radici e cultura ancestrale.
Fumetto e animazione sono visti in Giappone come metafora della lotta, e i personaggi come Capitan Harlock, che non si dà mai per vinto, sono trasposizioni in un futuro fantastico della figura storica del samurai:
Quando Leiji Matsumoto, il celebre creatore di Capitan Harlock, venne ospite al Lucca Comics and Games nell’autunno del 2018, parlò della sua infanzia, del dramma della guerra, di come sia stato quasi un sopravvissuto al bombardamento nucleare di Nagasaki, ma soprattutto ha raccontato le difficoltà del periodo postbellico che il Giappone ebbe ad affrontare prima di rilanciarsi come una delle più grandi potenze economiche e industriali del mondo. E come su come questo rilancio fosse avvenuto per l’appunto grazie allo spirito che muove tutto il Popolo Giapponese, così spiegato dalla sua stessa voce: “Il non arrendersi e credere sempre è qualcosa che porto fin da bambino, proprio da quegli anni di grande povertà. Nonostante le difficoltà non ho mai voluto cedere. Ho sempre pensato a lavorare molto, a non tradire mai i miei amici, a sostenerli in modo che loro sostenessero me. Ma questo è stato lo spirito che ha mosso tutta la società giapponese, nessuno ha mollato e tutti si sono sostenuti rimanendo fedeli gli uni agli altri. In questo modo il Giappone ha potuto rialzarsi e vivere la crescita.” Abnegazione, cercare di dare costantemente il meglio, lealtà assoluta, senso di comunione. Tutte qualità che da noi si stanno perdendo irrimediabilmente mentre in Giappone sono la maniera naturale di vivere, genuina e connaturata, e ciò si riversa automaticamente nelle storie ideate da chi quel modo di essere lo attua ogni giorno.
Onore, gloria, valore, giustizia, lealtà, dovere, rispetto, riscatto, nobiltà, cavalleria: tutto questo è presente nei cartoni di azione e combattimento futuristico/distopici, come Capitan Harlock, La corazzata spaziale Yamato, Ken il Guerriero, Le bizzarre avventure di JoJo, I cavalieri dello zodiaco, etc., ma pure in saghe sportive come L’Uomo Tigre:
Per noi occidentali elementi che sino a poco tempo fa apparivano come un vetusto retaggio di un tempo passato, e che oggi finiscono addirittura alla berlina quale simbolo di una tradizione da cancellare, in Giappone restano invece tuttora un fattore cardine della cultura, dell’etica e dell’anima nipponica. D’altronde, la “persistenza” dello spirito samuraico nei manga e negli anime è un aspetto assodato almeno a livello iconografico.
Si arriva infine a Drifters (2009) di Hirano, e qui siamo quasi nell’incredibile, per la nostra moderna società italiana “nata dalla”:
Un mondo Fantasy simile a quello tolkieniano diventa il luogo del confronto tra due misteriose entità dell’Oltretomba che vi inviano i propri campioni per sfidarsi. Da una parte abbiamo gli “scarti”, personaggi brutalmente ammazzati e ricoperti di odio da parte dei loro assassini tanto da renderli demoni assetati di vendetta – spiccano tra essi Rasputin, Anastasia Romanova e Giovanna d’Arco. Dall’altra i “naufraghi” (in inglese appunto drifters), provenienti da secoli diversi, morti eroicamente in guerra e avendo vissuto una vita piena di onore. Tra costoro, assieme a esponenti della storia occidentale come Scipione l’Africano, Annibale e persino Adolf Hitler, ci sono samurai del calibro di Nasu no Yoichi, Oda Nobunaga e Shimazu Toyohisa, ma anche eroi più recenti come il pilota Naoshi Kanno e l’Ammiraglio Tamon Yamaguchi. Nel corso della narrazione viene spiegato che questi personaggi non sono stati scelti solo per l’abilità in battaglia o per la indiscussa capacità di comando e talento strategico, bensì per la loro “visione del mondo”. Vengono pertanto visti con timore e a volte con orrore dalle “persone normali” per il fatto di amare la guerra, il sangue, l’onore, per il non temere la morte, per l’avere un’etica marziale totalmente incompatibile con la morale comune e soprattutto per la loro naturale propensione a cercare la vittoria. Una prospettiva esistenziale che li contrappone in maniera drastica al resto degli uomini, malgrado sia pur sempre necessaria per far uscire il Popolo dalla schiavitù. Il messaggio che si intende comunicare nell’opera è perciò chiaro: sino a quando ci saranno ancora in giro dei veri samurai e finché il codice marziale che essi incarnano sopravviverà, vi è comunque la speranza di non essere definitivamente soggiogati dalle tenebre.
Il saggio prosegue con Enrico Petrucci, che firma Fascinazione e rifiuto per anime e manga nell’immaginario italiano. Una straordinaria panoramica attraverso un secolo e mezzo di “sentire giapponese” nel Belpaese. Da Emilio Salgari a Pascoli a Marinetti, facciamo un salto fino agli anni Settanta, quando cominciano ad apparire in televisione i primi cartoni animati nipponici. Secondo Petrucci una certa visione culturale che dimentica, o vuole superare, l’idea di Patria e di tradizione non poteva che porsi in netta opposizione. E infatti sul foglio “l’Unità” del PCI appare nel 1978 un articolo a firma Fabris che sbertuccia Goldrake e Heidi in quanto opere miranti a esaltare “valori arcaici”. L’anno successivo tocca a quell’altro giornale, “la Repubblica”, prendere di mira con Corvisieri
l’orgia della violenza annientatrice, il culto della delega al grande combattente, la religione delle macchine elettroniche, il rifiuto viscerale del “diverso” (chi viene da altri pianeti è sempre un nemico odioso…).
Lo stesso linguaggio usato nel 2024, verrebbe da dire, quando la stampa progressiva parla di gender e di migranti… Anche Dario Fo, il sopravvalutatissimo premio Nobel, volle dire la sua in quello scorcio dei Settanta, e giunse a paragonare le trame di “Goldrake” che lotta contro nemici mostruosi alla… mistica del Fascismo! Un’altra polemica che coinvolse l’animazione giapponese fu quella del “Tecno-Orientalismo”: le tecnologie, i robot giganti, le astronavi, etc., erano viste come elementi disumanizzanti che avrebbero potuto disumanizzare il giovane telespettatore. Si preferiva dunque al cartone animato nipponico (che una leggenda urbana voleva “fatto al computer”) il cartone americano o europeo, nel nome di una maggiore supposta “artigianalità” di quest’ultimi. Secondo Petrucci l’ostracismo nei confronti dell’animazione giapponese non è venuto solo da sinistra, ma pure dalla destra, conservatrice (su “Il Giornale” di Montanelli si scrisse, per esempio, di una “invasione giapponese”) e non:
Sono gli anni in cui la psicologa Vera Slepoj, futura candidata alle europee del 1997 con Alleanza Nazionale, e nel 1999 al Senato con l’UDC, lancia una intemerata contro le maghette che vestono “alla marinara” di Sailor Moon, in buona compagnia con la collega Maria Rita Parsi che se la prende con dei supposti elementi fallici, spade in primis, i quali, a parer suo, connoterebbero le avventure di altre maghette, per la precisione quelle di Rayearth. D’altronde, in quel periodo si faceva un gran parlare dei presunti attacchi di epilessia causati dai Pokémon, mentre Ken il guerriero veniva incolpato per il gesto efferato di dei giovani annoiati che avevano lanciato dei sassi da un cavalcavia, uccidendo una povera automobilista. In breve, vent’anni perduti in Italia per la comprensione di un fenomeno che si rivelerà in seguito di una importanza culturale capitale e di estensione globale. Non manca tuttavia qualche microscopico accenno di mea culpa, circoscritto però solo all’aver considerato, come sinistra, gli anime quale “robetta per ragazzi”, quando, come abbiamo dimostrato, l’ondata di opposizione e ostracismo fu ben altra, ampiamente strutturata su un piano ideologico e, ancor di più, di natura marcatamente pedantesca.
Tocca ad Alessandro Bottero chiudere il volume con il pezzo intitolato Samurai all’occidentale. Bottero affronta il delicato tema delle differenze e delle convergenze fra Oriente e Occidente nelle opere narrative – o meglio il delicato tema di come in Occidente siano stati recepiti a livello narrativo il mondo, l’arte, l’estetica, la filosofia e l’eroismo orientali. E lo fa con un excursus storico estremamente affascinante ed evocativo. Ecco dunque, attraverso i decenni a partire dagli anni Trenta, la Dragon Lady delle strisce di Terry e i Pirati di Caniff, i Racconti del Sud-Pacifico di Michener, il Movimento Tiki di ispirazione pseudo-hawaiiana, il film Rashomon di Kurosawa che vinse a Venezia nel 1951 il Leone d’Oro, Astro Boy sulla NBC americana, le Olimpiadi di Tokyo del 1964, la “kung-fu-mania” degli anni Settanta attizzata dai film di Bruce Lee, la serie Kung Fu con Carradine sulla ABC, il Silver Samurai e gli Shogun Warriors della Marvel, i “robottoni” della Mattel, il Ronin di Frank Miller, fino al personaggio Katana della DC e al Wolverine “giapponese” di Claremont & Miller nei primi anni Ottanta. E poi?
Da qui in poi nulla è cambiato nella concezione del samurai nei fumetti USA. Al massimo abbiamo avuto varie declinazioni di uno schema univoco. Il bushi a “Stelle e Strisce” è una figura solenne (a volte fin troppo seriosa), con un vissuto tragico alle spalle. Raramente ha famiglia, essendo la sua missione di portare giustizia e aiutare i deboli troppo impegnativa per permettergli il lusso di legami affettivi stabili, e non è mai a capo di un gruppo o di una organizzazione. In breve, costui è solitario e introverso, è restio a parlare, e se lo fa è per aforismi, a consolidare l’idea che abbiamo degli asiatici come Popoli enigmatici e talora, per noi sia chiaro, oscuri. (…) Si è visto che esistono samurai anche nei fumetti pubblicati negli USA, seppur in versione fortemente occidentalizzata, attraverso una rilettura satura di cliché e stereotipi. Per di più, la figura del nobile guerriero nipponico nell’immaginario americano nasce da una influenza generata dai cartoni animati e dai film provenienti dal Giappone, segnatamente, come si è accennato, a partire dal 1950 con Akira Kurosawa, e prosegue per tutti gli anni ’60 e ’70 con i film di Bruce Lee. Va infine ribadito che il personaggio sintesi di questa occidentalizzazione del samurai è Wolverine, e le opere in cui si definisce il modello base di tale processo vengono pubblicate negli anni ’80, senza sostanziali modifiche concettuali nei decenni successivi.
Un volume che, in definitiva, stimola alla lettura (o alla rilettura) e alla visione (o a una nuova visione) dei fumetti e dei cartoni animati giapponesi, però sotto un’ottica diversa, che non sia quella del semplice intrattenimento o passatempo. Uno strumento, al contempo, che permette di individuare le opera cardine di questa grande tradizione dell’immaginario. Un saggio, seppur profondo e autorevole, di facile e lieta lettura, anche per il neofita dell’universo manga e anime.
Carlomanno Adinolfi e Riccardo Rosati
SAMURAI D’INCHIOSTRO: SOLE E ACCIAIO NEI MANGA E ANIME GIAPPONESI
Prefazione di Gianluca di Fratta
pagg. 114 – € 23,00
Profondo Rosso, 2023
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