“Tanti anni fa, quando sono diventato l’uomo che sono,
scoprii che gli eroi esistono anche fuori dai libri
e dalle targhe che indicano una strada.
Una terra, l’Italia, di eroi e di storie incredibili.
Da cantare.” – E. A. Mario
Qui Italia, ’15 -’18. In quegli anni, con quella guerra, si fa davvero l’Italia. L’Italia, dopo quella guerra, finalmente è, esiste veramente, non solo nell’idea, ben precisa, che ne avevano gli italiani da un capo all’altro dello Stivale – dal Piave al Simeto – e perfino fuori da esso: la vittoria del 4 Novembre dà forma e realizzazione all’idea Italia. Dopo il 4 Novembre 1918 gli italiani – tutti – sanno cosa è la patria. Non sono poi così lontani nel tempo, quegli anni: cosa sono cent’anni nella storia dell’umanità? Eppure sembra un’epoca remota, così diversa, così… eroica. I personaggi e le vicende narrate sembrano perdersi nel mito, hanno il sapore dell’epopea omerica e cavalleresca, dei romanzi d’avventura e dei kolossal hollywoodiani. E invece no: è tutto vero, ed è successo appena cento anni fa.
Per onorare il centenario della Vittoria, Emanuele Merlino, Emanuele Mastrangelo ed Enrico Petrucci arruolano una ventina di “amici”, e sotto l’egida di Idrovolante Edizioni, l’ottobre scorso danno alle stampe questo bel lavoro: “Eroi. Ventidue storie dalla Grande Guerra”. Loro stessi ammettono che il sottotitolo avrebbe potuto aggiungere quel “vere” tra parentesi, per fugare ogni dubbio sulla veridicità di ciò che viene raccontato, avvertito talmente distante, eccezionale, eroico alle orecchie dei contemporanei – il problema verrà poi risolto aggiungendo i riferimenti biografici essenziali ad ogni capitolo. In un riuscitissimo sposalizio tra cronaca e prosa, armonioso connubio tra storia e romanzo, ciascun autore sceglie di raccontare una vicenda che ruoti attorno a un personaggio realmente esistito, restituendone in forma romanzata, ma molto fedele, la biografia ufficiale. Ogni protagonista proviene da una diversa regione d’Italia, ed ecco le “ventidue storie”: le venti canoniche, più una – doveroso tributo – per le terre irredente, e una ancora in omaggio ai connazionali immigrati all’estero.
Ed è così che “Eroi” racconta, sì, la Grande Guerra e (solo alcuni de)i suoi protagonisti, ma racconta anche l’Italia, ben rappresentata nelle sue declinazioni regionali, che si incontrano e qualche volta si scontrano, riflettendo le storiche difficoltà etno-geografiche che ancora oggi scontiamo, spesso colpevoli, dimentichi dello sforzo sovraumano – l’eroe proprio questo è: un oltreuomo – compiuto a suo tempo per convogliare sotto un unico scopo e un unico vessillo – la patria – gli innumerevoli campanili che altrimenti resterebbero ciascuno provincia della propria, infeconda, isoletta.
C’è dunque la patria italiana – vivissima, palpabile – nella storia di Gino Buccella, trentino, che diserta la leva austroungarica, e per arruolarsi sotto il tricolore rischia la vita oltrepassando il confine, «un confine nato per una questione d’opportunismo politico, quasi di campanili, non per lingua, non per religione, non per costrizioni geografiche […] Il destino lo portò sul fronte orientale. Per Trieste e non per Trento, come se queste questioni di campanile importassero a chi era fuggito, disertore, dalla Terra natale per la Patria che considerava tale. Si vestiva il grigioverde e si combatteva per il tricolore»; e quel tricolore chiede di omaggiare un’ultima volta, poco prima di morire, a ventun anni.
«Signor Tenente, i’ steng a murì, ma steng cuntient ‘e muri p’la Patria, c’la so tant amat»: pur pronunciate in molisano, sono dedicate alla patria intera le ultime parole di Angelo Scatolone, falegname, emigrato negli Stati Uniti dove ha pure ottenuto una discreta posizione; allo scoppio della guerra lascia tutto per combattere in Italia. Lo sforzo bellico gravò su chiunque, non ci si poteva accontentare di una milizia professionale, così le trincee si riempirono di lavoratori-soldati:
«La nostra, infatti, è una guerra non solo di soldati, di baionette e di proiettili, ma soprattutto di lavoro. Non esiste più differenza fra il soldato e il lavoratore, e in questo ci stiamo ricongiungendo all’etica della Legione romana, dove ogni soldato era anche zappatore, muratore, falegname, e con le calighe dei legionari marciavano avanzando anche le strade, gli acquedotti e i segni della civiltà che oggi torna a indicarci la via. Non credo d’essere un allucinato o un profeta folle quando penso che alla fine di questo massacro, quando la vittoria immancabile ci avrà arriso, qualcosa di grandioso accadrà, per la sintesi magnifica fra le antiche radici di Roma e il nuovo verbo del lavoro forgiato nella durezza delle trincee. Il Socialismo, che oggi unisce le sue sacrosante battaglie in difesa di operai e contadini immiseriti a un empio odio per la Patria che è anche e soprattutto la Patria di quelle masse volenterose, verrà rivoltato da dentro. Saranno uomini come Scatolone, se ne sopravvivranno abbastanza, a unire le rivendicazioni del lavoro a quelle della Patria, aprendo un’era di vera giustizia e di pace feconda».
Lo stesso sentimento italiano e la volontà di ricongiungersi alla patria, li manifesta Pio Riego Gambini, istriano, volontario irredento:
«I nostri documenti dicevano che eravamo sudditi dell’Impero austro-ungarico, ma la nostra lingua, i nostri sogni ed il nostro cuore erano italiani». Gambini fu tra quelli che andarono a prestare soccorso nelle località abruzzesi sconvolte dal terremoto: «Conoscemmo così altri italiani con cui non sempre era facile comunicare, ma loro scoprirono che esistevano altri italiani come loro che vivevano in terre italiane sottoposte a dominazione straniera. Fratellanza, patriottismo e solidarietà sono idee che si incarnano in queste azioni o sul campo di battaglia».
E ancora Annunziato ‘Tito’ Naso, decimo figlio di una numerosa famiglia calabrese, ridotta alla povertà a causa della sofferta decisione del padre di lavorare senza compenso, per salvare il proprio onore e quello della famiglia intera – «Eccellenza, io servo la vostra famiglia con dedizione e onestà da vent’anni. Ho dieci figli da mantenere, e per costoro sono disposto a tollerare la fame, il dolore e qualunque sacrificio; ma se assecondassi una calunnia, se tollerassi un’offesa, se mi piegassi al disonore, non farei di loro degli uomini, ma dei servi. Per questa ragione da oggi io lavorerò per voi senza compenso, cosicché abbiate a vedere chi è davvero Pasquale Naso» – si arruola senza esitazione: «D’altronde ce lo avete insegnato voi: amare la Patria è un dovere, perché essa è la più grande famiglia degli uomini liberi. Con la divisa serviremo le due famiglie che per voi amiamo». Finito in Libia e poi sul Carso, a Gorizia, Tito incontra una giovane del luogo, a cui ricorda tanto il fratello morto: «Vivemo de fadiga, gavemo el banco de fruta e verdura in piazza grande. Ma savemo de esser italiani, quel sempre. Emilio no xe vignù combater con voi per no lassar el banco de verdura. Ma el me diseva sempre: ‘Mi son nato italian, son cresudo italian, morirò italian’».
L’altro filo conduttore, che lega le ventidue vicende in una trama appassionata e commovente, è quello dell’esempio, fondamentale nella creazione e nella reiterazione di qualunque mito: l’eroe, per esser tale, deve suscitare a sua volta l’eroismo nel prossimo: Tito il calabrese «sa bene che i soldati sono esausti, terrorizzati e non hanno più bisogno di ordini, ma di esempi»; di Alessandro Tandura, veneto, decorato insieme alla sorella e alla fidanzata per una pericolosa missione di spionaggio, un superiore riferisce: «Non ho mai visto un uomo più coraggioso di questo piccolo soldato italiano, il più valoroso soldato del mondo», ma alle lodi egli risponde modestamente: «Eccellenza, non ho compiuto che il mio dovere»; nel racconto sui fratelli Pellas, perugini, una medaglia per ciascuno, si legge: «gli eroi, quelli che devono darci l’esempio, devono essere i migliori, perché nel buio la loro stella brilli più forte di tutte».
Merito degli autori aver ridato lustro ad una manciata di uomini straordinari (come questi, quanti altri ce ne sarebbero da riscoprire?!), soffiando via la polvere dalle loro tombe, dagli archivi e dalle medaglie, anche plurime, giustamente conferite a ciascuno di essi. Ma il grande miracolo letterario di questi scrittori – in qualche caso romanzieri improvvisati – è di aver catturato lo spirito di quella trincea per offrirlo ai contemporanei, soprattutto i giovani, coetanei degli eroi descritti. Dunque attraverso i loro racconti, carichi di realismo ma mai pedanti, oggi partecipiamo alle varie operazioni militari, ora a terra, ora in mare, ora in cielo; capiamo cos’è davvero la guerra: violenza e dolore, tremenda sofferenza, sacrificio necessario e dono per le future generazioni. Dietro a ognuna di queste gesta c’è una persona normale, che proietta in esse il proprio carattere, le proprie esperienze e il proprio retroterra culturale.
Raimondo Scintu, contadino sardo, «piccolo, scuro, imbruttito dalla vita di trincea e ancor prima da quella nei campi della Trexenta sarda, con le sue ciglia foltissime, i baffetti triangolari sotto il naso schiacciato, la mascella di chi sembra aver masticato carne cruda anziché poppare il latte della madre», aduso alla durezza della vita nei campi, alla “caccia alla giovenca” tipica delle sue zone e all’uso della lama come fosse un prolungamento naturale della sua mano, sembra non avvertire le due pallottole che ha in corpo quando torna dalla trincea nemica con quarantacinque prigionieri: sarà ribattezzato “die rote Teufel”, il diavolo rosso.
Giuseppe M.M. Castruccio, chimico genovese e docente universitario, partecipa alla guerra come ufficiale del Genio nel Battaglione Dirigibilisti. Il “pallone” è la sua cifra stilistica. Ex calciatore, la metafora sportiva lo accompagna nelle sue riflessioni: «Il gioco di squadra mi è sempre piaciuto, le azioni di uomini accomunati da un’idea, una volontà, un destino, che lavorano insieme, con intensità, con generosità, con gioia, senza pensare a encomi e riconoscimenti, ma con una propensione verso l’alto, verso il cielo, nel nostro caso non solo metaforica […] In guerra, si gioca sempre così. Gioco duro!». Ma è il pallone aerostatico, insieme con le sue conoscenze scientifiche, a valergli la medaglia d’oro: essendo stata l’aeronave colpita a poppa e dunque inclinatasi pericolosamente, Castruccio rimane chiuso per un’ora nella pancia del dirigibile, nel tentativo di far da contrappeso a prua col suo corpo, riuscendo ad evitarne lo schianto.
Nel racconto su Francesco Baracca, romagnolo, asso dell’aviazione e commilitone di Guido Keller, è evidenziato il carattere elitario, nobile e aristocratico della milizia aeronautica, dei veri e propri “cavalieri alati”: «Il colpo di fulmine che mi fece innamorare del volo fu un incontro di morte […] Ma che importa essere destinato a morire quando il tuo destino è anche quello di essere un nobile eroe della guerra dei cieli?». Per questi “ultimi cavalieri” la singolar tenzone con l’avversario è un valore di importanza almeno pari alla causa in sé. Così come è un valore il rispetto per quell’avversario, il nemico giurato che pure va onorato se combatte altrettanto valorosamente. Al bambino stupito del gesto degli austroungarici che fecero saper di aver sepolto il perugino Leopoldo Pellas con l’onore delle armi, la madre saggiamente suggerisce: «durante le guerre tutti sono cattivi, per qualcun altro. Ma è proprio nelle guerre che avvengono i gesti di cavalleria più belli. Non ricordi l’Iliade? Achille, il feroce Achille che piange abbracciato al padre di Ettore, che lui ha appena ucciso. Non bisogna mai disprezzare il nemico, perché se la tua vittoria è grande, è tale perché hai combattuto un grande nemico. Non c’è gloria a battere un nemico da poco. C’è gloria a battere un nemico valoroso».
Alla Grande Guerra ciascuno fece la sua parte, diede il proprio sangue, portò le proprie istanze e la propria motivazione. C’è il giovane che cerca la gloria a tutti i costi, come Flavio Torello Baracchini, che stanco di telegrafare, al sicuro dai bombardamenti, si arruola volontario nell’aviazione. C’è poi chi sente forte la necessità di crescere, di emanciparsi da una tranquilla esistenza borghese, di diventare uomo; così fu per Francesco Caggiani, rampollo di notabili lucani, partito in guerra volontario: «Qui al fronte si soffre e si marcia, si scava e si seppellisce, si spara e si corre, ma l’ho scelto io, nessun altro e non voglio che a casa ne soffrano. La vita da notaio non era per me». C’è persino chi, da principio fermamente antimilitarista, all’ingresso dell’Italia in guerra dà comunque il suo appassionato contributo: «non capiscono questa guerra, parlano dei campi rimasti a casa da lavorare. Non capiscono poi che questa guerra cambierà l’uomo, il lavoro, la società e unirà definitivamente l’Italia» – sono le parole di Filippo Corridoni, rappresentante della regione Marche, unico “vip” tra i protagonisti di questa piccola grande epopea.
Unico, invece, a non aver solcato la trincea, è Giovanni Ermete Gaeta, passato alla storia come E. A. Mario, compositore napoletano, autore della “Leggenda del Piave”, l’inno che tanti avrebbero preferito al Mameli. E.A. Mario non ebbe appuntate al petto medaglie al valore per aver combattuto sul campo, ma per averci regalato suggestive “Note d’Italia” ne ricevette innumerevoli, e cento di queste, insieme alle fedi nunziali, le donò alla patria, per contribuire allo sforzo bellico: era il 1941, il secondo conflitto mondiale. Paradossalmente, negli anni del boom economico, si respira già un sentimento di distacco – quando non disprezzo – nei confronti di tutto quello che abbiamo letto in queste pagine, che sono pagine di sacrificio, di sangue, di vittoria. Pagine d’Italia. «Esiste ancora l’Italia? O è solo il ricordo romantico di un tempo lontano?»: al tempo di E.A. Mario, nel dopoguerra, è già iniziata la rimozione, portata oggi quasi a compimento.
L’Italia, però, ancora (r)esiste. Nelle storie come queste e come tutte le altre che aspettano di essere raccontate. Perché noi abbiamo uno spirito tutto particolare ad animarci, ed è impossibile credere che sia sopito per sempre. «Solo in Italia può capitare che la dichiarazione di guerra venga fatta da un poeta. Solo in Italia la poesia si fa arma, il verso si fa gesto, la storia chiama alla Vittoria».
Alessandra Iacono
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