Come il postino del libro di James Cain e del film con Jack Nicholson che suona sempre due volte, la statistica ha suonato un nuovo allarme a distanza di pochi giorni. Dopo che l’Istat ha segnalato la diminuzione della popolazione di cittadinanza italiana dopo oltre un secolo e mezzo (147 mila connazionali in meno in un anno), il secondo rintocco della campana proviene dall’Eurostat: gli italiani sono il popolo meno fertile dell’Unione Europea, dunque del mondo. Triste record, a certificare che la nostra nazione è una grande malata. La diminuzione delle nascite, e conseguentemente della popolazione, si verifica nella storia in tre/quattro circostanze: guerre, carestie, grandi emigrazioni, fasi finali delle civiltà.
Non c’è dubbio che la fase che viviamo appartenga all’ultima categoria citata; ci si aspetterebbe un dibattito politico, una presa di coscienza degli intellettuali, un impegno di tutte le classi dirigenti e, naturalmente, una seria preoccupazione popolare. Nulla, o quasi. Nella bulimia da notizie, facciamo indigestione di cronaca, ma ci sfugge la storia, e non distinguiamo più ciò che è importante davvero da tutto il resto. Le quadrate legioni dell’informazione, all’unisono, ci hanno intrattenuto sul mancato arrivo dell’allenatore della Lazio, sulle interessanti opinioni dell’oligarca Juncker in materia di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, sul fatto che (è luglio…) le temperature sono molto alte, oltre all’immancabile chiacchiericcio politicamente corretto, incentrato adesso su una rissa di paese nella quale (orrore degli orrori!) ha avuto la peggio un nero.
Della nostra stessa fine sembra non importare nulla a nessuno di coloro che contano, e, di riflesso, all’immensa maggioranza del popolo italiano, sudato per la stagione, triste per l’eliminazione dell’amata nazionale di calcio, massimo collante del patriottismo italiota, e incerto sulla meta delle vacanze, per chi può permettersele. Mia madre mi raccontava dei bombardamenti della nostra città in guerra, e dei calcoli precisissimi che la gente aveva imparato a fare sui pochi minuti entro cui, dal suono della sirena, si doveva raggiungere il rifugio, con il cuore in gola nella speranza di ritrovare, oltre la vita, la propria casa intatta.
La sirena suona, a tempi sempre più ravvicinati, ricorda questioni decisive, ma il nostro sonno è molto pesante. Sia catalessi, ipnosi collettiva, rassegnazione o indifferenza, ma della vita o della morte del popolo italiano sembra non importare a nessuno, se non a qualche reazionario o a qualche razzista cattivissimo dalla testa pelata e semianalfabeta, così rappresentato dal clero imbroglione della comunicazione.
Una prova? Sulle prime pagine dei giornali del giorno in cui scrivo queste note, si parla dell’oscuro episodio di Fermo, la rissa trasformata in terribile guerra razzista, con parole di autentico odio per il fermato (ed il perdono, di cui tanto spesso cianciano i preti, o il garantismo delle anime belle?) e di esaltazione “a prescindere” per la povera vittima nigeriana. Poi apprendiamo che nei programmi scolastici del Bel Paese i bambini dovranno obbligatoriamente imparare che omosessuale è bello, i sessi sono una costruzione sociale da combattere con “libere” scelte, e gli orientamenti sessuali un indiscutibile tabù, come affermano i trattati dell’Unione Europea. A Torino, il nuovo sindaco a 5 Stelle, che pure destava simpatia, ha istituito un assessorato “alle famiglie”, al plurale, per non escludere trans, omosex, transex e forse neppure chi semplicemente possiede un gatto, e ne ha affidato la direzione al presidente dell’Arcigay. Persino dal PD sono arrivate rimostranze.
Altrove, a comprova della bellezza della società multietnica, leggiamo delle violenze e degli assassinii negli Stati Uniti. In un angolino, sui giornali della Liguria, si parla della drammatica realtà della città di Ventimiglia, frontiera con la Francia, dove oltre mille africani reduci dai gommoni hanno ormai occupato ogni angolo libero e la cittadina è al collasso. In Toscana, spadroneggiano i cinesi, mentre cardinali e vescovi fanno a gara per pronunciare commossi elogi alla fine del Ramadan. Hanno ragione: la loro è invidia, perché vedere tanta gente riunita per pregare Dio è una grande novità, e magari un esamino di coscienza potrebbe aiutarli a capire i perché non esiste più il popolo cattolico italiano. Del resto, lo stesso loro capo, il vescovo romano argentino Bergoglio, parlando di nascite, ha deprecato coloro che fanno figli “come conigli” ed ha strologato del sangue nuovo che apporterebbe all’Europa l’immigrazione. Una prova in più della natura sostitutiva delle nostra gente del fenomeno migratorio, ma, poiché in gran parte i nuovi arrivati sono tutt’altro che cattolici, le parole che orientano i comportamenti dei preti o sono frutto di pazzia collettiva o di callido interesse economico travestito da buonismo evangelico: Caritas, Sant’Egidio ed affini in prima linea per sussidi e contributi statali. Il denaro non puzza mai.
Insomma, dappertutto, su versanti diversi, tutto congiura ad affrettare la fine del popolo italiano. Un grande politico di profonda ispirazione intellettuale, poco amato nel suo stesso ambiente di pigri adoratori del passato, Beppe NIccolai, esortava i giovani a non ragionare con le ristrette categorie della sociologia o della cronaca, ma di ascoltare e studiare il respiro della storia. La sociologia fotografa ciò che vede, in genere allo scopo di fornire munizioni all’arsenale del potere vigente. La storia osserva, studia, ricostruisce, istituisce paragoni, esprime giudizi: non è mai neutrale, o, come prescriveva Weber per le scienze umane moderne, “avalutativa”.
La sociologia, insieme con l’antropologia culturale e la psicologia, conosce bene le cause della denatalità e del coma profondo in cui è caduta l’anima europea. Inutile è attardarci a ricostruire il percorso che ci ha portati a questo momento: l’individualismo, l’edonismo dei consumi, l’orrore per la responsabilità e per le scelte definitive, perché i figli sono per sempre, la rivoluzione sessuale, l’esaltazione dell’omosessualità, il mito dell’essere umano “unico” e sradicato, la decadenza dei padri, la paura del futuro, l’anteporre a tutto il denaro, i redditi sempre più bassi voluti dal capitalismo di rapina che, dopo le donne, ha ora uno sterminato ulteriore esercito di riserva negli immigrati.
E’ tutto vero, ma sfugge la domanda essenziale, quella senza la quale nulla potrà cambiare. E’ un bene o un male, o è indifferente che scompaia il popolo italiano, e dopo di esso, o insieme, la razza bianca europea?
Senza una risposta, che deve provenire dai tre ambiti del nostro essere, il corpo/materia, lo spirito e l’anima, le chiacchiere staranno sempre a zero, e si spegneranno in due generazioni per fine biologica degli interessati. Prima di dare una risposta, un’osservazione: gli europei, e gli occidentali in genere, si stracciano le vesti perché la modernità tecnologica provoca ogni anno la sparizione di centinaia di specie animali e vegetali. Hanno persino istituito un trattato, la Convenzione di Washington, per la tutela delle specie in pericolo di estinzione. Non pochi piangono per un orso abbattuto, ma nessuno esige la difesa della biodiversità umana. Protesi verso l’Unico e l’Identico, nemici delle differenze in quanto portatrici di ingiustizie, non trasferiamo agli uomini l’attenzione culturale che riserviamo ad altri esseri, salvo non muovere un dito affinché cambi e sia sconfitta la società che ha generato ciò che vediamo.
Ben addestrati dalla pubblicità, condizionati da insegnamenti folli, iniziati a verità ideologiche obbligatorie ed indiscutibili, siamo solo plebi desideranti di partecipare all’orgia del consumo. Perché a me no, se il mio vicino sì? Margaret Thatcher urlò, con la franchezza di cui pochi liberisti sono capaci, che per lei esistevano “solo individui”, e non gruppi sociali, o popoli. Paradossalmente, le hanno creduto soprattutto i progressisti, portatori insani di un morbo detto “spirito dei tempi”.
In uno dei suoi torrenziali articoli domenicali, che costituiscono altrettanti rotoli della Torà dei ceti borghesi “liberal” italiani, Eugenio Scalfari anni fa si interrogò sull’immigrazione ed i suoi effetti, concludendo, pur tra verbose circonlocuzioni e prudenti velature di linguaggio, che sì, l’Italia era degna di sopravvivere, o almeno lo era la sua cultura. Dimenticato anche lui, come certi articoli della costituzione sgraditi all’oligarchia transnazionale. Noi, attenendoci alla lezione di Niccolai sulla storia, o semplicemente invocando l’istinto di conservazione, che estendiamo al nostro popolo ed alla nostra razza, affermiamo che la scomparsa degli italiani sarà una perdita incommensurabile per l’umanità, e vogliamo, dobbiamo continuare a vivere, ad “esserci”, come direbbe Heidegger, anche se fossimo il popolo più mediocre o malvagio del pianeta. Noi siamo noi, esistiamo, e tanto basti.
“Primum vivere, deinde philosophari”. Da morti, tutt’al più lasceremo un’eredità, che altri potranno a loro scelta o gusto, distruggere, sperperare, utilizzare, migliorare. I sepolcri parlano soltanto a chi vuole o sa ascoltare, come intuì Ugo Foscolo. Poiché, almeno apertamente, nessuno propugna la fine degli italiani, e la verità del progetto neo malthusiano di certe élite gnostiche non potrà mai essere spiegata alle masse con speranza di successo, il nemico da abbattere è dunque l’indifferenza verso la sorte degli italiani.
Un’ulteriore rintocco della campana lo ha prodotto il rapporto di un altro istituto di indagine statistica e sociologica, il Censis, che, osservando con lo strumento della matematica statistica l’istituto del matrimonio – parliamo ovviamente di quello vigente da millenni tra uomo e donna – formula una prognosi terribile: tra quindici anni non ci saranno praticamente più matrimoni. Infatti ci si sposa sempre meno, e la china pare inarrestabile, e lo è, se non cambia, come dicevamo prima, il paradigma, ovvero se non si rovesciano i valori, o disvalori vigenti, uno dei quali è la prevalenza dell’io sul noi, con il relativo predominio del provvisorio, dell’utile a me, del momentaneo su qualunque scelta che impegni. Una modalità di vita come lo yogurt: a scadenza ravvicinata.
Se gli italiani dunque devono sopravvivere, devono gettare alle ortiche tutto ciò che ha prodotto l’ultimo mezzo secolo, senza cadere nell’errore fatale di considerarsi una nazione etnica. Non lo siamo, pur se tutti condividevamo la medesima fede religiosa, l’appartenenza alla razza bianca, con le differenze di aspetto che ancora sussistono tra mediterranei e alpini o mitteleuropei, l’uso della stessa lingua veicolare e lo stanziamento storico su territori ben delimitati dalla natura, il mare per tre lati, le alpi per il quarto. Siamo essenzialmente una nazione culturale, per questo abbiamo il dovere di integrare chi comunque è qui e non se ne andrà. Diventare italiani non è, non può essere un tratto di penna, una legge che accordi a chiunque, per nascita o lunga permanenza, la cittadinanza, che è altro, ben altro, che nazionalità.
Italiano è chi ama questa terra e questa cultura. Deve quindi conoscere la lingua, la storia, il costume nostro, ed accettarlo come proprio. Riconoscersi con lealtà nelle norme scritte e negli usi concreti, non pretendere eccezioni per sé ed i propri. In Francia, l’assimilazione nella Repubblica è fallita con la gran parte dei maghrebini e dei neri, è riuscita con gli altri, ma si è sempre pretesa, in cambio della cittadinanza, la fedeltà alla nazione. Quanto agli Stati Uniti, modello, miraggio e guida di questo tempo assurdo, ciò che accade in termini di problemi razziali dovrebbe insegnarci che prevenire è meglio che raccontare la fiaba dell’uguaglianza, dell’antirazzismo e della felice convivenza tra diversi o opposti.
Il dramma è l’indifferenza: l’ultimo politico italiano a battere un colpo, pur se in negativo, fu Giuliano Amato circa quindici anni fa, quando sbottò, non senza qualche ragione, che gli era incomprensibile l’attitudine degli italiani, i quali non fanno figli, ma pretendono lo Stato sociale e non vogliono gli stranieri. Il dottor Sottile, peraltro, membro eminente di quelle oligarchie nemiche che ci hanno imposto i valori oggi correnti, avrebbe potuto farsi qualche domanda anche su stesso o sulle politiche che ha sostenuto. Oggi, vicino agli ottanta, ha una pensioncina da molte decine di migliaia di euro mensili, che integra con l’assegno da presidente dell’Enciclopedia Treccani. Il male fatto è ben ripagato.
Renzi tace, e del resto non si può chiedere troppo al cervello di quell’incrocio tra Calandrino e Buffalmacco, la signora Boldrini sarà deliziata dalle statistiche funerarie per gli italiani, i grillini cantano la canzone dell’onestà e non hanno progetti in materia, ma tace anche il resto della politica, a partire dai partigiani delle ruspe per continuare con i patrioti della domenica con mano sul cuore che difendono, meritoriamente, soldati e marò, ma non pensano che il tricolore durerà ben poco in mano agli “italiani” di domani. Liberali e collettivisti se ne fregano, agli uni interessa il denaro e lo sfruttamento di chiunque, senza distinzione alcuna (i veri egualitari sono loro!), gli altri hanno barattato i diritti sociali con i capricci individuali. Quanto ai cattolici della politica, non hanno mai saputo o voluto imporre la loro idea, giusta, di una tassazione tarata sulle famiglie e non sugli individui, e non si sono mai azzardati a chiedere politiche demografiche d’attacco.
Dobbiamo quindi realizzare un’inversione di 180 gradi. Chiunque, da qualsiasi posizione ideale provenga, abbia a cuore la persistenza ed il rilancio della comunità nazionale italiana prima che le leggi della demografia, della biologia e dell’aritmetica sommergano tutti, deve organizzare non una semplice resistenza, ma programmi e progetti concreti per ribaltare la situazione. Il cambio di visione generale della società è compito di una cultura alleata della politica, ma le misure da intraprendere possono venire solo da un dibattito a molte voci. La nostra è l’epoca del denaro, occorrerà quindi un approccio che privilegi la “convenienza”, quindi normative fiscali a favore delle famiglie e “contro” i singoli – bisogna accettare di avere anche degli avversari, e comunque privilegiare determinati interessi comporta colpirne altri – programmi di aiuti ed infrastrutture per le madri lavoratrici, periodi di assenza del lavoro più lunghi, organizzare, incentivare ogni forma di volontariato sociale a favore dei bambini e di chi li mette al mondo, privilegi (sì, privilegi) fiscali e sociali per madri, padri e membri di famiglie numerose, e qualsiasi altra iniziativa che ciascuno può rappresentare.
A chi ci chieda come si finanzia tutto questo, possiamo rispondere in molti modi: da un lato, la vita non ha prezzo, e quella del popolo cui apparteniamo vale qualche sacrificio, come una messa cattolica valse bene Parigi ad Enrico di Navarra. Dall’altro, occorre spostare la tassazione dalle persone fisiche a quelle giuridiche, dagli individui alle cose, e, soprattutto occorre farlo con un progetto che abbia come promotore e garante lo Stato nazionale. Il ripristino della sovranità consentirà di dare il benservito ai finti creditori che ci uccidono, come alle oligarchie che hanno interrotto ogni processo democratico. Non è importante disquisire sul concetto di sovranità nazionale, più caro ad alcuni, o di sovranità popolare, più vicino a sensibilità di ascendenza socialista. Ciò che conta è la sovranità, con o senza aggettivi, che è l’unica cornice entro cui potremo decidere – noi e solo noi – le politiche ed i metodi con cui fermare l’emorragia di italiani, causa prima e principale dei nostri guai. Una nazione forte, in cui le generazioni si riproducono e si danno il cambio fa rabbia ai suoi nemici, che non sono, da molti anni, altre nazioni, ma ben individuate cerchie, o cricche, di banchieri, oligarchi, mascalzoni planetari decisi a tenere il mondo in pugno attraverso la distruzione dei popoli ed il ricatto economico e finanziario.
A livello politico, sono persuaso che sia necessaria la nascita di movimenti sociali che si propongano con sincerità e senza infingimenti la sopravvivenza del popolo italiano attraverso la riconquista delle sovranità ed il lancio di vasti programmi di ripresa demografica.
Solo gli italiani possono prendere in mano il destino del loro popolo. Non può essere un unico partito, ma un fronte, o persino più fronti, convergenti su due obiettivi che significano, molto semplicemente, vita o morte: comandare su noi stessi, riportare gli italiani a diventare padri e madri. La campana ha suonato per noi, più volte. Chi non ascolta ha un unico destino, quello di non poter più ascoltare l’ultimo suono, quello delle campane a morto che accompagnano il funerale nostro.
Dunque, viva l’Italia, in senso letterale, ossia sia viva e resti sulla scena del mondo la nostra gente in questa terra bellissima, che tale è anche per il lavoro, il cuore, il cervello dei nostri padri!
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