11 Ottobre 2024
Etiopia Gian Franco SPOTTI Globalizzazione Identità

ETIOPIA: sviluppo che distrugge vite umane


10 agosto 2013
Tratto da: Counterpunch
A cura di: Graham PEEBLES
In molte parti del mondo lo sviluppo è diventato un invisibile pretesto in nome del quale poter perpetrare ogni tipo di atrocità e violazione dei diritti umani “sponsorizzati” dallo Stato. Vincolato alla crescita, lo sviluppo è stato (ampiamente) ridotto ad avanzamento economico, che significa massimizzare le cifre del  Prodotto Interno Lordo (PIL) mese dopo mese, anno dopo anno, distribuendo ricchi profitti ad insaziabili istituzioni monetarie globali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e investitori privati.

Un termine straripante di contraddizioni, lo “sviluppo” viene spesso usato per nobilitare le attività delle multinazionali, nient’altro che operazioni di sfruttamento e speculazione, come nel caso dell’appropriazione di terreni a livello mondiale, in genere per mano di irresponsabili dirigenti di fondi comuni e fondi azionari dediti al lucro che vantano dei ritorni di interesse sugli investimenti dal 20 al 40%. Enormi licenziamenti che, dice Anuradha Mittal dell’Oakland Institute, stanno attraendo «donazioni, incluse donazioni universitarie come l’Università di Harvard, l’Università Vanderbilt e altre. Istituzioni come la Friends of the Earth (Amici della Terra) affermano che stimolano l’arraffamento della terra che distrugge migliaia di comunità in tutto il mondo. Chiedono che il “settore finanziario” si prenda le responsabilità per le proprie attività e che i loro investimenti assicurino il rispetto dei diritti umani ed osservino le norme ambientali locali ».
Una più ampia e sostanziale definizione del termine sviluppo dovrebbe includere il rispetto del potenziale naturale, la continuità degli stili di vita tradizionali e lo sviluppo integrato degli individui. Idee che vanno oltre le crasse misure di PIL, le statistiche della globalizzazione e gli stereotipi di Power Point (programma informatico della Microsoft), che considerano tutti come una merce e chiunque come un consumatore. L’omogeneizzazione della vita, una conseguenza della globalizzazione e l’economia di mercato (con le sue insite disparità e mancanza di giustizia sociale), nega l’individualità, schiaccia e si appropria della cultura ed impone competitività in tutte le aree. Una ricetta di ingiustizia e divisione che alimenta rabbia e frustrazione, le quali, a lungo soppresse, sono emerse in rivolte popolari della Primavera Araba e movimenti di protesta visti di recente in tutto il mondo.
Oltre 70 diversi gruppi tribali contribuiscono al ricco mosaico culturale dell’Etiopia. Nella meravigliosa Valle del Basso Omo, nel sud-est del paese, vive un gruppo di otto antiche tribù,  nativi del posto che sono vissuti della propria terra per migliaia di anni conducendo vita semplice e in autosufficienza, in armonia con l’ambiente. Vivono a Est e a Ovest lungo i 760 chilometri del fiume Omo (la base della loro vita) che scorre dall’Etiopia al Kenya, dove confluisce nel Lago Turcana. Per poter sviluppare la ricca e fertile terra della regione e onorare accordi di locazione con ditte straniere, il governo sta sfrattando dalle loro case i nativi del luogo per sistemarli in campi profughi dove « il governo ci promette il paradiso, ma noi sappiamo che stiamo per finire in un inferno », afferma addolorato uno dei Bodis. «Fra tribù abbiamo sempre trovato una soluzione quando sorgeva un conflitto territoriale, ma col governo è impossibile »; questo è quanto riporta l’Oakland Institute nel suo rapporto inerente alle tribù locali del fiume Omo  minacciate. Lo loro case vengono distrutte e la loro terra rubata, la gente del posto (inclusi bambini e donne) raccontano di orribili abusi da parte del governo. Questi vecchi popoli affermano di essere stati sottoposti ad una serie di atrocità imputabili alla criminalità dello stato. L’elenco delle atrocità, scioccante e disgustoso, non è meno sconvolgente di quanto lo sia la sua famigliarità: uccisioni arbitrarie, stupri, finti arresti e torture sono i metodi usati dal
l’EPRDF (Fronte Democratico Rivoluzionario Popolare Etiope) nella regione mentre cacciano la gente dalla terra che è di loro legittima proprietà per poi ricollocarli con la forza in villaggi costruiti dallo Stato, spedirli a morire nelle foreste o semplicemente uccidendoli a sangue freddo.
I diritti terrieri sono complessi. Mentre la Costituzione etiope (scritta dal regime al potere ma usata a sua discrezione) afferma che tutta la terra alla fine appartiene allo Stato, i nativi locali sono tutelati da una serie di trattati internazionali, dei quali l’Etiopia è firmataria, e da articoli vincolanti nell’ambito della loro costituzione. Inoltre il governo ha affermato che la sola terra idonea ad essere data in affitto è terra definita come “marginale”, “non sfruttata” oppure “zona desertica”. La terra considerata come “marginale” dal governo è invece fonte di sostentamento per le popolazioni locali. «Poiché la terra è tradizionalmente di proprietà, in base al diritto internazionale i detentori tradizionali ne hanno il diritto come proprietà. Variazioni d’uso o espropri sono illegali senza il consulto e l’indennizzo dei tradizionali proprietari terrieri »: HRW, Human Rights Watch, cioè l’Osservatorio sui Diritti Umani, così afferma nel suo rapporto intitolato “Cosa succederà se arriverà la carestia”. Inoltre, a tutela dei popoli locali, la costituzione salvaguardia dell’agro-pastorizia (che occupa la maggioranza dei gruppi tribali coinvolti), sezione 40 (5): «Gli addetti etiopi alla pastorizia hanno il diritto all’usufrutto gratuito della terra per il pascolo e la coltivazione, nonché il diritto di non essere sfollati dalle loro terre ». Cacciando la popolazione locale dalla sua terra ancestrale che le fornisce  cibo e medicine, viola anche la Convenzione Internazionale sui Diritti Politici e Civili (ICCPR), la quale afferma: «in nessun caso una persona può essere privata dei propri mezzi di sussistenza». Aggiungiamo a ciò la violazione del Diritto alla cultura e alla religione e il Diritto alla salute, e verrà a formarsi un sostanziale scudo legale per proteggere i popoli tribali della Valle dell’Omo dai piani di sviluppo del governo. Sempre ammesso che questi obblighi legali vengano rispettati e applicati.
Remota e di varie culture, con la designazione di Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura), la Valle del Basso Omo ospita oltre 200.000 nativi locali, incluse le tribù Kwegu,  Bodi,  Mutsi,  Suri e Nyangatom. Il loro antico modo di vivere e il delicato ecosistema sono minacciati, afferma il rapporto di Human Rights Watch, «dalla costruzione di una enorme diga idroelettrica, conosciuta come Gibe III, sul Fiume Omo e da progetti collegati per l’irrigazione agricola su larga scala ». Il grande progetto della diga Gilgel Gibe III ebbe inizio nel 2006 e ci dicono sia al 62% del suo completamento. Il finanziamento per il progetto da 2 miliardi di dollari proveniva da una serie di fonti, inclusa la ICBC (Banca Commerciale e Industriale di Cina). Gli europei guardarono il progetto ma, preoccupati dalla mancanza di studi sull’impatto ambientale, dalla mancanza di consultazioni progettuali idonee (richieste dalla costituzione) e sotto la pressione di Organizzazioni non governative, decisero saggiamente di non farne parte, come fece la Banca Mondiale.
Organizzazioni umanitarie regionali e internazionali, fra le quali SI (Survival International), ritengono che «la diga Gibe III avrà conseguenze catastrofiche per le tribù del fiume Omo le quali già vivono ai limiti della sopravvivenza in questa area arida e difficile». Gibe III, indubbiamente con delizia e malriposto orgoglio da parte del governo, sarà la più grande diga del suo genere in Africa (243 metri di altezza), che provocherà, potenzialmente, alcuni dei peggiori disastri ambientali e umanitari, intaccando seriamente le vite delle popolazioni tribali dell’area del Basso Omo, nonché delle 300.000 persone che vivono attorno al Lago Turcana in Kenya il quale riceve la maggior parte della sua acqua dal fiume Omo.
L’acqua proveniente dalla diga, che raddoppierà la capacità elettrica dell’Etiopia, verrà immagazzinata in un serbatoio gigante che alimenterà le piantagioni (445.000 ettari sono già stati individuati dal governo) tramite centinaia di chilometri di tubazioni. 200 chilometri (circa 125 miglia) di questi canali d’irrigazione sono già stati costruiti, assieme ad una “diga di terra” per irrigare le piantagioni, la quale, ci dice l’Oakland Institute, «ha fermato il flusso annuale dal quale dipende per l’agricoltura tutta la gente lungo il fiume, provocando altresì l’inondazione di campi coltivati a monte dalle tribù Kwegu e Bodi ». Survival International chiarisce inoltre che gli effetti combinati dei progetti provocheranno l’inaridimento di molte zone rivierasche ed elimineranno la foresta rivierasca. Nativi locali come i Kwegu, la cui sussistenza si basa quasi esclusivamente sulla pesca e sulla caccia, ne verranno privati. Non è certo un reato ritenere che questo governo stia lavorando per decimare intenzionalmente le vite dei popoli nativi e distruggere il delicato ecosistema della regione.
La costruzione della diga Gibe III  e l’attinente progetto di sviluppo di dare in affitto terre ancestrali per l’agricoltura (inclusi i bio-carburanti) vengono perseguiti dal governo in un modo tale da violare tutta una serie di diritti umani, nonché accordi legali internazionalmente vincolanti. Entrambi questi schemi sono stati condannati da gruppi per i diritti umani e da agenzie non governative preoccupate; persino USAID, il maggiore singolo contribuente dell’Etiopia, ha rimproverato il regime circa il maltrattamento delle popolazioni locali. Ideologicamente guidato da ristrette e distorte idee di sviluppo e ossessionato dalla crescita economica, il Fronte Democratico Rivoluzionario Popolare dell’Etiopia sta perseguendo una politica di vendita dei terreni che sta causando enormi sofferenze alle vite di centinaia di migliaia di nativi locali in tutto il paese. L’Osservatorio per i Diritti Umani ci
dice che con i progetti inerenti alla Valle del Basso Omo c’è il rischio reale «che l’esistenza di 500.000 persone sia in pericolo, decine di migliaia saranno espropriati con la forza e la regione conoscerà un aumento del conflitto inter-etnico mentre le comunità si faranno concorrenza per le scarse risorse».
Secondo il rapporto dell’Oakland Institute dal titolo “Ignorati gli Abusi in Etiopia”, oltre 375.000 ettari di terra fertile nella Vallata del Basso Omo stanno per essere trasformati in «piantagioni su scala industriale per zucchero e altre monoculture», cioè la controversa pratica agricola, pur con un’alta resa, di seminare un singolo raccolto anno dopo anno sulla stessa terra. Questi metodi danneggiano l’ecologia del suolo, creando dipendenza da pesticidi e fertilizzanti (a tutto vantaggio per i giganti dell’agro-chimica) e dall’uso di molta acqua. Spinti solo dal profitto, gli investitori sono interessati solamente ad alta qualità, buone fonti e irrigazioni acquifere. Non gliene importa molto dell’impatto ambientale sull’ecosistema e della devastazione causata alle popolazioni indigene e ai mezzi di sostentamento rurali; nemmeno al Fronte Democratico Rivoluzionario Popolare che è al governo. L’Osservatorio sui Diritti Umani stima che «circa 100.000 ettari sono già stati resi disponibili a investitori privati », multinazionali della Malaysia, India, Italia e Corea che piantano coltivazioni per bio-carburanti  e prodotti destinati alla vendita, cioè cotone e mais. Il tutto assieme alle piantagioni statali di cotone e canna da zucchero gestite dalla Ethiopian Sugar Corporation, un’organizzazione-paravento del governo centrale, (che si è presa 150.000 ettari per se stessa)  le cui attività, afferma l’Oakland Institute, «avranno un impatto negativo sulle popolazioni del Basso Omo, specialmente sui 170.000 che abitano lungo il fiume ».
Questi progetti sono seguiti da esodi di massa. L’Oakland Institute nel suo rapporto afferma: «260.000 nativi locali di 17 gruppi etnici nel Basso Omo e attorno al Lago Turcana (in Kenya), le cui acque verranno prelevate per l’irrigazione delle piantagioni, stanno per essere cacciati dalle loro terre, proibito loro l’uso di quelle risorse naturali sulle quali hanno sempre fatto affidamento per il loro sostentamento ». I militari sono coloro che fanno rispettare con la violenza le illegali politiche del regime su e giù per il paese, e così è anche nella Valle dell’Omo. L’Osservatorio per i Diritti Umani afferma che «sulla riva orientale del fiume Omo, dove vengono distrutte le attività agricole, le terre da pascolo sono andate perdute ed i mezzi di sostentamento vengono distrutti. Secondo mappe governative e fonti locali questo è solo l’inizio di una grande trasformazione dell’area del fiume Omo», ove si dice che più di 2.000 soldati sono stati  reclutati e mandati nell’area a valle della diga e «la maggior parte della Valle dell’Omo è vietata agli stranieri », così afferma il quotidiano The Guardian (7 febbraio 2013). Ivi compresi i media internazionali e le organizzazioni non governative, «praticamente nessuna organizzazione opera nella zona e i membri delle comunità indigene sono stati avvertiti di non parlare con gente esterna, specialmente stranieri ». Saltano subito alla mente le pratiche di zittire tutti ovunque, nelle regioni dell’Ogaden e Gambella e quella di Oromia, dove il terrorismo di Stato è diffuso.
Questo reinsediamento di persone indigene per permettere la commercializzazione della loro terra sta avvenendo senza il consenso (legalmente) «libero, consapevole e informato» richiesto per qualsiasi progetto di sviluppo, con nessun rimborso per la perdita di terra e di mezzi di sostentamento e senza alcun consulto, richiesto nell’ambito della Costituzione.  Anzi, lungi dal consultare le popolazioni locali e consentire loro il permesso di esprimersi liberamente (un’altra fantasia della Costituzione), unità militari piombano regolarmente nei villaggi, riporta Human Rights Watch, per «sopprimere il dissenso riguardante lo sviluppo della piantagione dello zucchero (e piani di reinsediamento collegati)». «Secondo la gente del posto, se non si dà un consenso pienamente concorde alla piantagione dello zucchero, si prendono botte, vessazioni o si viene arrestati ». Secondo The Guardian, omicidi e repressioni sono comuni e si è diffusa la storia di un abitante del villaggio che dice di «aver ricevuto un colpo d’arma da fuoco nel ginocchio (mentre camminava sulla sua terra). Quel giorno 11 persone furono uccise e i soldati gettarono i loro corpi giù dal ponte del villaggio Dima. Furono divorati dalle iene ». Lo stupro è un’arma a discrezione dei militari che viene usata per impaurire e minacciare. L’Oakland Institute racconta la storia particolarmente raccapricciante di uno «stupro di gruppo su un giovane pastore. Presero un ragazzino che stava pascolando il bestiame. Lo violentarono a lungo nella foresta. Lui urlava. Dopo il ragazzo non riusciva a camminare. Dovette essere raccolto e trasportato ».
Frustrati e arrabbiati, e non vedendo alternative, i membri della tribù Suri sulla riva occidentale del fiume Omo hanno imbracciato le armi contro l’esercito. Il governo ha decimato la loro terra, abbattendo alberi e erba per «permettere agli investitori malaysiani di seminare piantagioni, l’acqua del  letto del fiume Koka è stata deviata per irrigare queste piantagioni, lasciando i Suri, che vivevano di pastorizia, senza acqua per il loro bestiame », in base a quanto afferma l’Oakland Institute. Le forze governative stanno conducendo una brutale campagna contro i Suri. Friends of Lake Turkana (gli amici del Lago Turcana), un’organizzazione non governativa keniota, nel maggio 2012, affermò che « forze governative uccisero 54 Suri disarmati nella piazza del merca
to di Maji come rappresaglia
(per le azioni Suri contro l’esercito). Si stima che fra le 57 e le 65 persone morirono nel massacro e per le ferite riportate quel giorno. Da allora altri 5 Suri sono stati uccisi… e i Suri vengono arrestati a caso e condannati a 18, 20 e 25 anni di prigione per crimini non chiari». Non solo il governo sta distruggendo le vite di questi gruppi tribali, ma stanno creando insicurezza alimentare e dipendenza dagli aiuti umanitari.  Impossibilitata a «coltivare i propri campi e con l’esercito che distrugge i raccolti e i magazzini di cereali per provocare carestia, la gente viene convinta ad andare i luoghi di reinsediamento con aiuti alimentari di agenzie internazionali ».
Nel 2011 l’ex Primo Ministro Meles Zenawi asserì che gli insediamenti agricoli industriali «sarebbero stati di beneficio alla gente della zona nonché a centinaia di migliaia di etiopi grazie alla creazione di posti di lavoro». Ingannevole retorica politica, infatti i piani di sviluppo del governo per questa regione stanno distruggendo vite e mezzi di sostentamento delle popolazioni indigene che vivono di pastorizia, la cui sola scelta, ribadisce l’Oakland Institute, «sarà di lavorare nelle piantagioni per un basso salario». Zenawi citò l’esempio delle piantagioni di canna da zucchero nella valle Awash , ma non disse che i gruppi tribali della regione persero le loro case e il loro modo di vivere, e che ora sono dipendenti dagli aiuti umanitari per quanto riguarda la sussistenza alle loro famiglie. La stessa cosa sta succedendo nella valle del Basso Omo.
Oltre a perdere la loro terra, le loro case e la loro vita, con l’arrivo di lavoratori stranieri – oltre a 2.000 soldati – in questo, un tempo quieto e nascosto, angolo di Etiopia, la gente della Valle del Basso Omo è esposta a rischi di natura sanitaria. La prostituzione sta dilagando ed a causa dell’arrogante rifiuto da parte degli uomini di usare il preservativo, HIV e AIDS sono assai diffusi fra i membri delle tribù e l’Oakland Institute riferisce che nell’area sono stati riscontrati «numerosi casi di Epatite B, una malattia trasmessa tramite sangue e via sessuale». Precarietà alimentare, espropri violenti (inclusi omicidi e stupri), carneficina culturale, distruzione ambientale, prostituzione e HIV/AIDS: tutte cose portate nella meravigliosa Valle del Basso Omo dal governo e tutto in nome dello sviluppo.
Graham PEEBLES
Traduzione a cura di: Gian Franco SPOTTI

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