Procedure d’infrazione, richieste di spiegazioni, calcoli pignoli di ragionieri per verificare se gli Stati abbiano oltrepassato le colonne d’Ercole postmoderne, le regole finanziarie fissate a Maastricht, tavole delle legge la cui violazione fa scattare l’interdetto massimo, l’esclusione dal paradiso chiamato sobriamente Unione Europea. Hic sunt leones, era scritto nelle rudimentali carte geografiche dell’antichità per designare l’ignoto, al di là dell’attuale Gibilterra. Di qui la civiltà, di là i barbari. Da tempo ai barbari sono state aperte le porte, ma soprattutto non si crede più che di qua ci sia la civiltà. L’opera di decostruzione è antica e a noi pare che il primo scossone l’abbia dato un venerabile maestro francese del Settecento, il barone di Montesquieu. Terrorizzato dai conflitti, teorizzò il “dolce commercio”, convinto che le relazioni di mercato recassero con sé il miglioramento dell’animo.
Un secolo dopo, Frédéric Bastiat osservò, a proposito delle frontiere tanto odiate dai globalisti, che se i confini non sono attraversati dalle merci, lo saranno dagli eserciti. L’ UE, simbolo del cosmopolitismo più sciocco ed imbelle, risolve il problema alla radice: niente più confini, niente più eserciti, niente più popoli. Purtroppo, c’è chi la prende sul serio, come ministri e dignitari italiani che hanno trasformato la festa della Repubblica in un comico happening di giovani marmotte alla Walt Disney, con gli uomini in divisa nei panni di Qui, Quo, Qua. La storia tuttavia non si ferma, l’Europa arranca innanzitutto perché odia se stessa. Con tenace autolesionismo si apre a chi Europa non è – Turchia, Marocco (!!!), Israele, ma contemporaneamente allontana la Russia, metà del suo stesso territorio, una civiltà millenaria, 150 milioni di europei di stirpe “caucasica”. Le parole avranno pure un significato.
Al riguardo, il ministro degli esteri di una nazione europea di nobile storia ha detto di recente un tremendo sproposito. Lo spagnolo José Borrell afferma che la Russia è secolare nemica d’Europa. La colpa di Mosca deve essere di aver costituito una barriera contro i mongoli e, in tempi meno lontani, avere sconfitto il disegno napoleonico di sottomettere l’Europa alla Francia. Nel secolo XX ha fermato analoga pretesa tedesca e, nel passato più recente, è riuscita a paralizzare in Siria le forze di chi stava provocando assassinii di massa, terrorismo e flussi migratori massicci verso l’Europa, svelando che dietro di essi agiva l’alleanza tra Usa, Israele, Islam sunnita. La Russia ha combattuto contro gli Ottomani arbitri della politica europea e lascia al continente un tesoro di cultura.
I santi Cirillo e Metodio sono patroni dell’Europa con San Benedetto. Pio XI disse di loro che erano “figli dell’est, bizantini della patria, greci di origine, romani per la loro missione, slavi per il frutto apostolico”. La musica medievale europea affonda le radici nella musica orientale. Orientale è il canto gregoriano da cui scaturisce l’intera tradizione liturgica ortodossa, con la monodia vocale senza l’accompagnamento di strumenti. Il primo Akathistòs – l’inno composto per celebrare la salvezza di Costantinopoli da Avari e Persiani fu composto nel 626. L’Ave Maria in forme orientali risuona nel Codice di Las Huelgas, la raccolta musicale medievale scoperta in un monastero femminile di Burgos. Ma Borrell non lo sa, la sua è la voce di un ventriloquo degli interessi geopolitici stranieri ed oligarchici, la voce del padrone.
Risuona come una sentenza inappellabile il giudizio di un intellettuale testimone della finis Europae, Pierre Drieu La Rochelle. La mattanza delle trincee della prima guerra mondiale, macelleria della gioventù europea mandata a degradarsi e morire nel fango nella prima terribile guerra di materiali, la tempesta d’acciaio di Junger, fu l’ultima invocazione del continente ferito in conflitto con se stesso. Per Drieu, la pace avrebbe portato solo “scatolame e auto a buon mercato”. Sulle rovine hanno prevalso gli uomini della moneta, scacciando come nemici gli uomini della spada e quelli dei libri, per utilizzare l’efficace espressione della storica dell’economia Rita Di Leo.
Un’altra triste vittoria è quella del museo sulla realtà e la vitalità. Il nostro pezzetto di mondo, l’angolo del pianeta in cui si è più studiato, scritto, pensato, prodotta arte, cultura, in cui più si è agito, è uno sterile museo visitato come un lussuoso cimitero di reperti da milioni di contemporanei (come chiamarli altrimenti?) che poco capiscono e tutto ingoiano, contentandosi di immortalare l’attimo con lo smartphone, meglio se inseriscono se stessi nel fotogramma, un selfie con la storia, l’arte, la bellezza ridotti a fondale, anzi location. Chiese senza Dio, palazzi senza Re, gioielli adescatori sul vecchio seno d’ Europa, sospirò Drieu. Quel senso terribile di sterilità, la grandezza passata caduta nel vuoto e nell’oblio sono oggi la normalità. Nessuno vi fa caso, le chiese svuotate di fedeli diventano supermercati o sedi di concerti, i simboli del potere di ieri sono visitati da orde di vacanzieri in ciabatte e maglietta.
Il destino del continente è il presente di Venezia, la città prodigio di arte e sapienza descritta dal poeta Diego Valeri: “c’è una città di questo mondo, ma così bella, ma così strana, che pare un gioco di fata Morgana e una visione del cuore profondo.” E ancora: “cosa di sogno vaga e leggera; eppure porta mill’anni di storia, e si corona della gloria d’una grande vita guerriera. Cuor di leonessa, viso che ammalia, o tu, Venezia, due volte sovrana: pianta di forte virtù romana, fiore di tutta la grazia d’Italia.” Venezia è oggi uno scheletro, una città spopolata, museo a cielo aperto sfregiato da moltitudini ignare, rapacità di commercianti simili a grassatori di strada, una sequenza di opere d’arte, palazzi e musei devitalizzati, la violenza padronale del turismo mordi e fuggi che porta navi immense a schiantarsi contro le “fondamenta” per fame di profitto, migliaia di spettatori paganti pretendono di attraversare e sfiorare un corpo delicatissimo, preservato dalla scienza secolare degli avi.
Una sorta di stupro di massa che avviene per denaro ogni giorno in giro per l’Europa, scrigno addormentato del mondo. Scatolame, direbbe Drieu, che immaginiamo scandalizzato davanti all’edificio dello pseudo parlamento europeo di Strasburgo. La torre principale, palazzo Louise Weiss, ha un aspetto particolare: colpisce la sua incompiutezza. Costruttori e committenti spiegano che essa riflette la natura incompleta dell’Europa. La nostra estenuata civilizzazione non comprende più i simboli, neppure ne sospetta l’esistenza, al massimo ne ride come di un retaggio del passato oscuro. Il simbolismo dell’edificio esiste e non è difficile da svelare. Porta alla luce le credenze esoteriche delle élite mondialiste, le aspirazioni oscure che le animano, gli obiettivi concreti che perseguono. La citazione più chiara rimanda al famoso dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio del 1563 intitolato La Torre di Babele.
La storia, tra mito e leggenda, narra che la torre di Babele non fu mai completata. L’inutile parlamento di quel che resta dei popoli europei è la consapevole prosecuzione del lavoro interrotto di Nimrod, il tiranno babilonese che edificò la torre come sfida a Dio. Tutt’altro che un’istituzione democratica. Il regno di Nimrod si estendeva su Babilonia, Uruk, Akkad e Calneh e cercò di estirpare dal popolo ogni credo religioso. I documenti rivelano che il re spinse la sua gente a non attribuire la prosperità a Dio, ma a credere che fosse il loro coraggio a procurare la felicità. Mutò gradualmente il governo in tirannia, non vedendo altro mezzo per distogliere gli uomini dal timore di Dio se non quello di ridurli a una costante dipendenza dal suo potere.
Mette i brividi constatare le similitudini con un presente in cui la libertà viene ristretta giorno per giorno e la dipendenza dal potere – tecnologico, finanziario, mediatico- si fa sempre più soffocante. La torre doveva essere tanto imponente da giungere sino in cielo, per la gloria dell’uomo. La tradizione midrash (una delle grandi scuole esegetiche dei testi sacri ebraici) spiega l’azione di Nimrod in questi termini: “Dio non aveva alcun diritto di riservare a sé il mondo superiore, lasciando a noi quello inferiore; perciò ci costruiremo una torre, che avrà in cima un idolo che impugna una spada, così da dare l’impressione che vogliamo far guerra a Dio.” Il libro della Genesi colse l’ira di Dio che, compresa la natura blasfema della torre, confuse il linguaggio dei costruttori che finirono per disperdersi.
Non c’è dubbio che l’iconografia scelta dai patrigni dell’Europa restituisca dignità a quell’impresa antica e rivaluti la hybris di Nimrod, la sua arroganza visionaria. Lontani da paranoie complottiste, constatiamo nell’Europa e nell’Occidente la graduale instaurazione della tirannia, nella forma della dominazione tecnofinanziaria e della ri-costruzione psichica dell’uomo; l’eliminazione della trascendenza, di ogni riferimento al divino e allo spirito per indurre dipendenza dal potere; l’azione omologante che rinchiude ogni popolo in un’ unica lingua, un solo sistema sociale, un’ identica scala di valori/disvalori; il rifiuto di Dio, sostituito dal culto di se stessi, la creatura che si fa creatrice.
Che la nostra interpretazione abbia fondamento lo dimostra un manifesto promozionale di qualche anno fa, destinato a far conoscere il parlamento europeo a partire dalla sua sede. Il centro è la torre di Babele, disegnata con ogni cura, sino a riprodurre la parte crollata delle fondamenta. Lo slogan prescelto è illuminante: Europa, molte lingue, un’unica voce. Lampante il riferimento alla confusione voluta da Dio contro i costruttori della torre. Le stelle che rappresentano gli Stati dell’Unione sono capovolte, apparendo come pentagrammi invertiti; sono forse simboli dell’inversione del giudizio, di cui vediamo ampie prove nell’involuzione da cui siamo circondati? Babilonia secondo un etimo classico significa, in lingua accadica, porta di Dio, ma esiste una connessione con l’ebraico balal, confusione.
La confusione, sotto il cielo d’occidente, è talmente grande che anche l’incendio della cattedrale parigina di Notre Dame desta in qualcuno l’ansia non di restaurare, ma di rifare. Il presidente Macron ha evitato accuratamente di riferirsi alla fede cristiana e cattolica, sottolineando esclusivamente il valore culturale, storico ed artistico del tempio. Il poeta romantico tedesco Heinrich Heine, israelita, scrisse, dopo un viaggio a Parigi, che ci vollero ben altro che delle opinioni per costruire delle cattedrali.
L’Europa di oggi, fondata sulle opinioni liquide, edifica musei, innalza capannoni, monta e compone prefabbricati multiuso: centri commerciali simili o identici a palazzi di giustizia, grattacieli seriali sedi di istituzioni politiche o finanziarie, negli ultimi anni persino chiese indistinguibili da qualunque altro manufatto architettonico, spazi da cui è sparito ogni riferimento al sacro, ogni simbologia verticale o spirituale. Enorme è la responsabilità della chiesa cattolica, presa dalla stessa iconoclastia che animò certe sette protestanti nella temperie della Riforma. Il papa regnante è il capofila della desimbolizzazione avanzante. Non risiede in Vaticano, i cui palazzi restano senza re. E’ insofferente al gesto sacrale e profondamente simbolico della benedizione, detesta addirittura portare l’anello piscatorio, emblema del ministero petrino. Nei suoi discorsi, grande assente è l’Altissimo: chiesa senza più Dio.
L’uomo contemporaneo è ciò che mangia (Feuerbach) desidera e consuma (la moda). Nulla di più elevato della dimensione materiale, orizzontale, lo distoglie da un’esistenza da animale sapiente, azzimato, vanitoso e insieme disperato, un trascurabile fattore della produzione divenuto superfluo, antiquato ( Gunther Anders) e inadeguato alla potenza da egli stesso suscitata. Dalle trincee della guerra civile europea combattuta in due tempi, l’anima d’Europa è uscita annientata. I superstiti, ripuliti dal fango materiale, non hanno più riconosciuto se stessi e il mondo circostante. Aveva pensato la guerra ad abbattere chiese e palazzi. Ciò che è rimasto in piedi, ha smarrito il senso, è stato destituito di significato. Tutt’al più, si è pietrificato nel museo, scarnificato, privato del sangue che lo rendeva vivo. E’ rimasto il commercio, il potere degli uomini del denaro. Chiese senza Dio e palazzi senza re si convertono in location, showroom, i nuovi nomi di fiere ed esposizioni per vendere merci e desideri.
I nuovi simboli sono i “costumi vistosi” (Veblen), la cui faccia nascosta sono le immense discariche di rifiuti, le cloache dietro le luci del varietà. Tutto ciò che non appartiene all’oggi, è archeologia: abiti fuori moda, fabbriche dismesse, chiese abbandonate allo scetticismo, palazzi da cui sono fuggiti i re, occupati da famelici cortigiani senz’arte né parte. Le civiltà, come gli uomini, muoiono di vecchiaia, lo comprese un poeta, Paul Valéry.
La morte dell’Europa ha un nome seducente come una danza macabra: eutanasia. Molti abitanti del “civilissimo” nord Europa lasciano in bella vista una busta con i soldi del funerale; l’Europa investe gli ultimi spiccioli nella sua trasformazione in parco tematico. Un po’ Mirabilandia e un po’ Gardaland, gli addetti a ore vestiti con i costumi tradizionali, teatro e folklore al posto della vita, divertono il gentile pubblico pagante accorso da ogni dove: arte, civiltà, storia, cultura, su ordinazione anche religione. Che peccato avere sfrattato Dio, i re, cacciato gli uomini della spada e quelli dei libri. Che peccato essere morti.
Roberto Pecchioli