CAVALCARE L’ARTE COME PENSIERO
La cultura, la letteratura e l’arte, dal Novecento a oggi, hanno avuto e continuano a presentare occultamenti, ostracismi, dimenticanze: prevalentemente per preconcetti ideologici ma anche per motivazioni varie. Una delle più persistenti ombre di queste Storie di Danger Art riguarda Julius Evola e la sua “leggenda”, favorita anche dalla sua biografia e dal suo esistere “controcorrente”.
(…) Evola, artista e filosofo, fra i più segreti del ‘900, ha continuato a essere una voce destabilizzante nel secondo dopoguerra, rimanendo (per anni) un personaggio isolato, scomodo, controverso, difficilmente etichettabile. Lui stesso, nonostante i molteplici rapporti personali, si mostrava disinteressato alla propria pubblicizzazione, come anche nei confronti dell’ostracismo di cui era oggetto da parte della cosiddetta grande stampa e delle “cricche” che la controllavano.
(…) La presunta pericolosità di questo innominabile “cavaliere nero” è amplificata dalle sue erranze culturali, che diventano momenti e letture perturbanti per le canoniche catalogazioni sociali, ponendosi sempre fuori-schema. Molteplici sono le sue maschere di presenza: pittura e poesia; filosofia e politica; dottrine orientali e simbolismo occidentale; esoterismo e tecniche iniziatiche; ecc. La conoscenza (senza censure) di Evola è un viaggio intrigante ma “sconveniente” per le formule acquisite: le sue alchimie comprendono la spiritualità trascendente come il magnetismo della metafisica del sesso.
Questo pensatore (con all’attivo numerose pubblicazioni) e artista è anche “passaggio” di riflessione sul mondo tradizionale e su quello moderno. La sua complessa e prismatica figura viene, talvolta, “frammentata” con il risultato di smarrirne così un possibile filo conduttore. Un pensiero, un’arte possono richiedere esistenze e momenti differenti, nello loro svolgersi, per trovare la consapevole totalità del proprio procedimento. Evola rifiuta di distinguere e separare i momenti più significativi del suo percorso culturale. Ne rivendica il senso complessivo e la continuità fra l’espressione artistica e il percorso filosofico: “Nell’essenziale, sussiste una continuità attraverso tutte le varie fasi della mia attività”. In maniera similare “non delimita” i confini della stessa espressione artistica: “Schopenhauer e Nietzsche, nell’esaltare la superiorità della musica, hanno dimostrato di esser incapaci a comprendere le altre arti: perciò l’arte stessa, forse… Chi possiede un solo mezzo espressivo, non è artista…”.
(…) Evola, pur elaborando, in maniera personale, la propria espressione verso una proposizione di non-figurazione spiritualistica, partecipa dialetticamente alle acquisizioni sviluppatesi nel Futurismo. Il suo “idealismo sensoriale” sintetico si esprime nella seconda metà degli anni Dieci, a Roma (è incluso infatti nel futurismo romano), dove opera e in cui è inserito con i suoi rapporti artistici. Interessi di natura esoterica, anche se con sviluppi differenti, sono diffusi in questi ambienti culturali e artistici d’inizio secolo: idee gnostiche e mistiche pagane convivono con riferimenti orientali, occultistici e teosofici, divenendo l’antidoto al materialismo contemporaneo. Ciò è presente anche nel gruppo futurista, soprattutto in Balla e Ginna, con i quali intrattiene rapporti d’amicizia.
Evola si muove nella cultura del primo Novecento, sensibile agli interessi spirituali, che entrano nel percorso della sua astrazione pittorica. L’esperienza simbolista, antefatto e origine di diverse esperienze dell’avanguardia europea, risulta un terreno ricettivo a queste tematiche (i libri di teosofia della Besant e Blavatsky, poi le opere di antroposofia di Steiner). È importante, al riguardo, attribuire un’opportuna rilevanza, per la sua formazione artistico-culturale e per il suo passaggio futurista, alla frequentazione dello studio-atelier di Balla.
Una sintomatica, essenziale testimonianza di Arnaldo Ginna, nei primi anni Settanta, è la prova del coinvolgimento di Evola e di un certo Futurismo verso le “relazioni” esoteriche: “Evola dipingeva un astrattismo di stato d’animo molto vicino a quello che facevo io, con quel pizzico di sentimento profondo animico occulto. Ciò veniva dal fatto che Evola, come me, si interessava di occultismo traendone, s’intende secondo la propria inclinazione, un succo personale. Non so precisamente definire gli studi e le esperienze di Evola, so soltanto che ciascuno di noi aveva tra le mani i libri di teosofia della Besant e della Blavatsky, e poi le opere di antroposofia di Rudolf Steiner”. Nel lavoro artistico di Evola emerge, dunque, la condizione di chi incontra le forze occulte trascendentali e le allucinazioni visionarie.
(…) Ricorro al titolo del libro di Julius Evola Cavalcare la tigre (1961) per usarlo qui come metafora concettuale di lettura e azione: negli ambiti dell’arte, del pensiero e dell’esistenza (individuale e collettiva). Può indicare ancora il “come porsi” verso questi territori: con lo staccarsi aristocraticamente dalle apparenze “senza spessore” del mondo attuale (pur non entrando necessariamente nella passività o rinuncia) o, viceversa, con l’affrontarle in qualche modo, ricorrendo anche a interiori dispersioni d’arte. Questo “cavalcare” continua a riguardare l’essere che non sente appartenenza, né vincoli profondi, con il contesto circostante: può essere ancora “un manuale di autodifesa personale”. Cavalcare la tigre rappresenta la vita stessa e il suo svolgimento, anche in chiave artistica. Continua a essere un’eredità per chi, riconoscendosi internamente in certi percorsi dell’esistenza, ritiene di vivere in un’epoca di dissoluzione.
Evola, con questo libro, chiude un ciclo, tornando sulle posizioni della gioventù che lo avevano spinto verso la negazione radicale del mondo e dei valori esistenti: fino al punto-zero del Dadaismo, dopo aver transitato nel Futurismo. L’autore, nel percorso di questo cinquantennio, arriva agli anni Sessanta con le loro tensioni (politiche, artistiche) e le ipoteche ideologiche. Indica, però, l’esaurimento dei linguaggi delle avanguardie storiche con l’assoluta improbabilità di una loro rinnovabile presenza: “In realtà, i movimenti a cui mi interessai ebbero un valore non tanto in quanto arte, ma appunto come segno e manifestazione di uno stato d’animo del genere, quindi per la loro dimensione meta-artistica e perfino antiartistica”.
Ne Il cammino del cinabro termina lo scritto, dedicato al suo passaggio dadaista, con: “Non scrissi poesie né dipinsi più dopo la fine del 1921”. Nello stesso capitolo risultano significative le affermazioni di Tristan Tzara che egli stralcia: “Che ognuno gridi: vi è un gran lavoro distruttivo, negativo, da compiere. Spazzar via, ripulire. La purezza dell’individuo si afferma dopo uno stato di follia, di follia aggressiva e completa, di un mondo lasciato fra le mani di banditi che si lacerano e distruggono i secoli. Senza scopo né disegno, senza organizzazione, la follia indomabile, la decomposizione”.
Julius Evola non rinnega la parentesi artistica, successivamente alla sua conclusione, anche se considera impersonalmente il loro autore “scomparso”. Ci ritorna, sporadicamente a distanza di tempo, con articoli e considerazioni, ma anche, negli ultimi decenni dell’esistenza, attraverso “copie” di ciò che aveva già dipinto. Il “ricopiare” un proprio quadro, realizzato in passato, può risultare un sintomatico e ulteriore atto di “estraniamento” d’identità.
Evola esprimerà, negli anni 1960-1970, alcuni “nudi di donna”, che possono essere letti come una sorta di “manifesti” visivi delle peculiarità della donna nell’esperienza alchemica della Metafisica del Sesso, titolo del suo significativo libro uscito nel 1958. Questa produzione risulta un po’ a latere nel panorama complessivo del suo lavoro artistico. Contiene, però, elementi sintomatici d’interesse, al di là del loro valore estetico: intanto questi dipinti non sono “copie” di precedenti lavori e percorsi (come le altre opere espresse nello stesso periodo), quindi presentano una loro attualità di presenza. Inoltre questa volta “la figura” femminile emerge, dal precedente astrattismo, con evidenti allusioni cromatiche e simbologie erotico-sessuali. Eros come parola e alchimia sono presenti nel fluido-energia dello sguardo delle “donne evoliane” dipinte. Gli occhi de La genitrice dell’universo sono circondati da due globi cerulei (l’azzurro delle acque è trasceso in quello del cielo), all’interno di un grande sconfinato triangolo bianco, amplificatosi, via via, da quello partito dal triangolo ricavato dalle linee del pube femminile. Gli occhi della Figura femminile emergono, delineati di nero, dal volto per fissare l’altrui oltre. Lo sguardo del Nudo di donna (afroditico) è costituito dalla malia abissale di un occhio stilizzato: che guarda obliquamente l’altro.
Questi nudi dipinti possono esprimere archetipi e simbologie erotiche, costituenti il mondo segreto del femminile nella magia sexualis. Sintomatico anche il loro diverso colore dei capelli: la Figura femminile ha la chioma bionda; la Genitrice dell’Universo i capelli rossi; il Nudo di donna (afroditico) i capelli neri.
(da AA.VV., Julius Evola e la sua eredità culturale, Mediterranee Ed., Roma 2017)