7 Ottobre 2024
Religione

Ex Oriente lux, ma sarà poi vero? Diciassettesima parte ˗ Fabio Calabrese

Ciò che un essere umano, ciascuno di noi, è, è il risultato di una complessa interazione fra fattori biologici e genetici, e fattori ambientali che comprendono il rapporto con altri esseri umani e l’apprendimento che si verifica fin dai primi anni, anzi fin dai primissimi istanti di vita.

L’ideologia democratica e marxista oggi dominante ha teso a cancellare nella comprensione di ciò che un essere umano realmente è, proprio quei fattori genetici, ereditari, biologici che sono probabilmente quelli più rilevanti, allo scopo di far passare l’impossibile dogma dell’uguaglianza (se qualcuno è un parassita o un delinquente – poverino – non è mica colpa sua, è colpa della società; se qualcun altro dimostra talento o merito, non gli deve essere riconosciuto, in un modo o nell’altro si tratta di un privilegiato). Con l’altra grande fonte delle aberrazioni della nostra cultura, il cristianesimo, non ha neppure senso confrontarsi, qui si possono sempre scavalcare le interpretazioni razionali appellandosi “alla provvidenza”.

Io penso tuttavia che non sia saggio rispondere a queste aberrazioni cadendo nell’errore speculare e simmetrico di negare qualsiasi importanza ai fattori ambientali, all’apprendimento, all’educazione. E’ bene reagire all’errore (o alla mistificazione) non con un altro errore ma, per quel che le nostre conoscenze e facoltà ce lo consentono, con una visione giusta delle cose, con la verità.

Vi faccio subito un esempio che dimostra come nel determinare ciò che noi stessi siamo, bisogna tenere conto della costante interazione fra fattori genetici e ambientali. Prendiamo un carattere facilmente riconoscibile e misurabile: l’altezza. Che essa abbia un’importante componente genetica, non può essere sensatamente messo in dubbio: genitori alti tendono ad avere figli alti e genitori bassi tendono ad avere figli bassi.

Tuttavia, immagino sappiate che da quando fu costituito il regno d’Italia nel 1861, fu introdotta la leva militare in tutta la Penisola. Una delle cose che sono state introdotte da allora, è stata la misurazione dell’altezza dei ragazzi che si presentavano alla visita di leva, anno dopo anno, scaglione dopo scaglione. Bene, in un secolo, dal 1861 al 1960, si è constatato un incremento di dieci centimetri dell’altezza media di questi ragazzi. Quei dieci centimetri in più non sono attribuibili a fattori genetici; in questo periodo il patrimonio genetico degli Italiani non ha subito modifiche per l’apporto di geni diversi, l’Italia a quel tempo non era terra di immigrazione, ma come ben sappiamo, semmai di emigrazione. Quei dieci centimetri sono da ricondurre interamente al progressivo miglioramento delle condizioni di vita, di alimentazione, di igiene, alla diffusione delle pratiche sportive (a cui il fascismo diede un grosso contributo) e via dicendo, cioè a fattori ambientali.

Questo sfondo concettuale occorre sempre tenerlo presente ai fini della nostra disamina.

Ricapitoliamo brevemente: agli inizi del XX secolo, lo psicologo francese Alfred Binet, su indicazione del ministero della pubblica istruzione, elaborò una serie di test e una scala di valutazione per misurare la capacità mentale degli allievi delle scuole francesi e diagnosticare tempestivamente eventuali ritardi. Successivamente, i suoi test e la scala furono studiati negli Stati Uniti dagli psicologi dell’università di Stanford che ne generalizzarono il metodo, rendendolo applicabile anche agli adulti, creando una nuova serie di test e una scala di misurazione modificata rispetto a quella creata dal loro collega francese, che da allora è rimasta nell’uso ed è conosciuta come scala Stanford-Binet.

Negli Stati Uniti l’impiego dei test d’intelligenza, per uso scolastico, per le selezioni per l’accesso ai posti di lavoro, nelle forze armate, eccetera, divenne presto molto diffuso, e si scoprì che presentava un carattere marcatamente razziale: Fissata a 100 la media della popolazione bianca di  origine caucasica, gli afroamericani conseguivano mediamente un 85, mentre il quoziente medio degli estremo-orientali, di origine cinese e giapponese saliva a 105.

Naturalmente, i democratici, i progressisti, i liberal, i sostenitori del dogma dell’uguaglianza avevano subito la risposta pronta: questa differenza dipenderebbe dalla situazione di disagio sociale e culturale, dalle minori opportunità educative della minoranza nera.

Cosa che naturalmente si evita di far sapere in giro, tutti i dati raccolti successivamente hanno smentito tale assunto; gli immigrati di prima generazione messicani, portoricani, latinos per i quali si poteva legittimamente invocare lo svantaggio sociale e culturale, mediamente ottenevano risultati anche peggiori di quelli dei neri, ma questo gap veniva rapidamente colmato dalla seconda e terza generazione che finiva per assestarsi su livelli non diversi da quelli dei bianchi anglosassoni, mentre il distacco degli afroamericani risulta incomprimibile; inoltre, il fatto stesso che i punteggi ottenuti dagli asiatici siano mediamente migliori di quelli dei bianchi, costituisce già una risposta all’obiezione che questi test e questa scala siano tarati sugli standard culturali della popolazione anglosassone (in realtà, gli asiatici non sono i soli a dimostrarsi più intelligenti degli anglosassoni, gli italiani mediamente ottengono un punteggio di 102).

Cosa ancora più interessante, poiché certamente l’intelligenza dipende ANCHE da fattori culturali, ambientali, educativi, un confronto fra i dati raccolti ottant’anni fa e quelli che si riscontrano oggi, mostrano che l’intelligenza negli USA è regredita, e si attesta oggi a una media di 99 per la popolazione bianca e a 84 per gli afroamericani, ma si noti che il divario di 15 punti rispetto ai bianchi è rimasto lo stesso, e questo è un fortissimo indizio del fatto che esso non è legato a fattori sociali e ambientali, ma alla componente genetica dell’intelligenza.

Se tanto non bastasse, noi non dobbiamo dimenticare che gli afroamericani non sono dei neri puri, ma sono meticciati in vario grado con la popolazione bianca, sono sostanzialmente dei mulatti.

Non scordiamo in proposito le ricerche di Arthur Jensen, che sono andate a un pelo dal costargli la vita a seguito di diversi attentati seguiti alla loro pubblicazione (in democrazia è pericoloso esprimere idee controcorrente, e lo è ancora di più scoprire fatti che contraddicono i dogmi democratici), che dimostrano chiaramente che diversi gruppi di ragazzi afroamericani mostrano un’intelligenza tanto più elevata quanto più si avvicinano al bianco, e livelli tanto più scadenti quanto più sono vicini al nero puro.

Varie ricerche sulle popolazioni dell’Africa subsahariana sembrerebbero indicare un valore di Q. I. medio di 70. Vi è chiaro cosa significa ciò? 70 è precisamente il valore considerato soglia tra la normalità e il ritardo mentale. Se esso rappresenta il valore medio di queste popolazioni, metà di esse si situerà al disopra, metà al disotto di esso, cioè si tratta di popolazioni composte al 50% da soggetti che, almeno per i nostri standard, sono mentalmente ritardati, e non è che neppure dagli altri ci sia da aspettarsi molto. Penso che questo ci dia un’idea molto precisa del valore delle “risorse” che oggi l’immigrazione ci porta in casa.

Chiarito tutto ciò, concentriamoci sul cercare di capire il reale significato di quei cinque punti di Q. I. che separerebbero le popolazioni asiatiche da quelle bianche. Si tratta in ogni caso di UN TERZO della distanza di quella che separa gli afroamericani dagli anglosassoni. E’ anch’essa genetica o è riconducibile a fattori ambientali e culturali? Uno dei pochi che se n’è occupato (sono sempre argomenti molto spinosi in democrazia), è lo psicologo Daniel Goleman nel libro Intelligenza emotiva, e i dati, almeno per quanto riguarda la popolazione razzialmente mista degli Stati Uniti, sembrano indicare fattori ambientali e culturali piuttosto che genetici.

Goleman osserva che tra i bambini all’ingresso nella scuola elementare essa non esiste affatto, laddove la differenza dei bambini afroamericani rispetto a quelli appartenenti ad altre comunità etniche è già chiaramente visibile, e compare man mano negli anni. Goleman l’attribuisce al diverso stile educativo delle famiglie asiatiche rispetto a quelle anglosassoni. I genitori asiatici impongono disciplina ai loro figli, pretendono responsabilità e una puntuale esecuzione dei compiti scolastici e impegno nello studio, laddove i genitori anglosassoni sarebbero molto più lassisti. Tutto ciò non solo permetterebbe ai loro ragazzi di acquisire maggiore cultura e competenza, ma avrebbe effetti positivi sullo sviluppo dell’intelligenza stessa.

Una riflessione importante che ci fa capire il danno che arrechiamo ai nostri figli attraverso il lassismo dell’ “educazione democratica”.

Questi risultati che emergono da quel grande “laboratorio razziale” che sono gli Stati Uniti, fino a che punto sono generalizzabili all’intero pianeta e all’umanità che lo abita? Ovviamente, non è possibile sottoporre a test di Q. I. tutti i sette miliardi di esseri umani che popolano il nostro mondo.

E’ tuttavia possibile fare una verifica attraverso un metodo indiretto, analizzando gli apporti dati dalle varie popolazioni e culture alla civiltà umana. E’ ad esempio molto visibile che il basso livello intellettivo delle popolazioni nere trova una perfetta rispondenza nel fatto che l’Africa sotto il Sahara prima dell’arrivo dei colonizzatori bianchi nel XIX secolo era sostanzialmente ferma alla preistoria.

Un’analisi dello stesso genere, lo abbiamo visto nella quindicesima e sedicesima parte di questo scritto, ci permette di sfatare la leggenda della superiorità intellettuale degli ebrei e di ridimensionare l’apporto che l’ebraismo avrebbe dato alla nostra cultura.

Bene, si può tranquillamente dire che per quanto riguarda  gli asiatici estremo-orientali, le popolazioni di ceppo mongolico, i conti non tornano. L’ipotesi di una superiorità intellettiva rispetto ai bianchi caucasici non trova un reale riscontro. Manca per la maggior parte delle culture asiatiche, che comunque rimangono incomparabilmente superiori al nulla prodotto dall’Africa nera, quel senso della dignità della persona, del valore del singolo, e quella dinamicità che hanno sempre caratterizzato la cultura europea. Non troviamo nulla di raffrontabile a ciò che ha prodotto questo continente, il più modesto per estensione territoriale dopo l’Australia; nulla di raffrontabile alla filosofia greca o alla scienza moderna.

Per quanto riguarda la Cina, una realtà immensa che costituisce già di per sé un mondo, e una cultura che ha goduto di una grande stabilità nei secoli, praticamente tutto il pensiero filosofico si riduce a Lao Tze, Confucio, i loro discepoli e le scuole fondate da questi ultimi.

Si tratta di una cultura conservatrice in grado estremo; pensiamo al fatto che ancora oggi i Cinesi, compresi quelli che sono emigrati “in Occidente” si rifiutano di distaccarsi dalle pratiche di una medicina “tradizionale” che non è né più evoluta né più basata su una reale conoscenza scientifica di quella dei tempi di Ippocrate, e che tra l’altro, basandosi sulla leggenda – del tutto priva di riscontro nella realtà – del potere curativo delle ossa di tigre, sta dando un contributo decisivo a portare all’estinzione questo grande felino.

Anche l’ostinarsi a usare scritture sillabiche che richiedono centinaia di caratteri e rendono l’alfabetismo un’arte difficile per la maggior parte della popolazione, laddove sarebbe possibile adottare scritture alfabetiche molto più semplici, è un’altra testimonianza dell’estremo conservatorismo di queste culture.

Io so che questo è un discorso difficile da accettare per i patiti dell’Oriente, e certamente ce ne sono anche nei nostri ambienti, ma anche le invenzioni della Cina medioevale che testimonierebbero la superiorità di quest’ultima rispetto all’Europa, forse testimoniano addirittura il contrario, nel senso che si è regolarmente trattato di buone idee che, per motivi per noi di difficile comprensione, ma che possono forse ricondursi a un patologico TIMORE della novità, i Cinesi hanno evitato di sviluppare. Pensiamo alle bussole, le “bussole” dei Cinesi erano strumenti rozzi e del tutto inefficienti: un ago magnetico su di un sughero immerso in una bacinella d’acqua. L’idea di incernierare l’ago magnetico su di un perno, che rese la bussola uno strumento realmente utilizzabile, non venne ai Cinesi ma ai marinai italiani di Amalfi.

La stessa cosa si può dire per la polvere da sparo e per la stampa. I Cinesi non realizzarono che fuochi d’artificio e petardi. L’esplosivo da miniera e le armi da fuoco furono inventati in Europa. La VERA invenzione della stampa, col torchio per stampare e i caratteri mobili fu gloria del tedesco Johannes Gutenberg: i Cinesi non avevano inventato che l’uso di passare fogli su timbri inchiostrati.

Sembrerebbe che durante l’età medioevale i Cinesi abbiano esplorato il Pacifico e che alcune giunche siano approdate sulle coste occidentali del continente americano molto tempo prima dell’impresa di Colombo, tuttavia anche se la cosa non è certa, questo non modificherebbe sostanzialmente le cose; infatti, se tutto ciò è vero, significherebbe che a un certo punto i figli del Celeste Impero abbiano deciso di interrompere tali contatti rinchiudendosi nel loro mondo, una decisione e un atteggiamento che per noi (indo)europei risultano incomprensibili. La molla fondamentale alla base della psicologia dell’uomo indoeuropeo, infatti, è probabilmente quella di spingersi sempre “più oltre”; qualcosa che è probabilmente un retaggio della mentalità dei nostri antenati cavalieri e conquistatori delle steppe.

Anche in campo artistico si notano le differenze rispetto all’Europa. Certamente, l’arte estremo-orientale è ben lontana dalla rozzezza e dalla primitività, dall’infantilismo di quella africana (che piace tanto agli “artisti” contemporanei che sono dediti precisamente alla degenerazione e alla dissoluzione delle forme tradizionali); ha una sua bellezza, un suo gusto, una minuzia calligrafica, ma non può sfuggire il fatto che manca di quella evoluzione che ha avuto l’arte europea fino alle degenerazioni contemporanee, che ad esempio vi manca del tutto la prospettiva.

Certamente non si può stabilire nessun genere di paragone né con l’Africa dove la fine del colonialismo ha portato a una rapida regressione di tutto quanto i coloni bianchi hanno lasciato in eredità ai nativi, tranne il fatto che le guerre tribali sono oggi combattute con blindati e kalashnikov invece che con lance e zagaglie, e neppure con il Medio Oriente dove i tentativi di introdurre la democrazia con la soppressione violenta delle autocrazie locali (“primavere arabe” in realtà manovrate dagli apprendisti stregoni occidentali) hanno portato solo alla recrudescenza del fondamentalismo islamico, ma complessivamente si può dire che le culture  estremo-orientali, con l’eccezione del Giappone, siano riuscite ad approfittare abbastanza poco delle opportunità offerte dall’epoca moderna.

La Cina oggi, servendosi delle risorse di un Paese immenso e popolato da un miliardo di uomini, si è lanciata nell’imitazione dello sviluppo tecnologico occidentale, costruendo avveniristiche città fantasma che sono selve di grattacieli disabitati, perché la popolazione continua a preferire le abitazioni e gli insediamenti tradizionali, e ripetendo con scrupolosa meticolosità tutti gli errori che sono stati fatti da noi in termini di disastri ambientali, accumulando un conto che alle prossime generazioni si presenterà molto salato da pagare.

Non parliamo neppure dei tentativi, annunciati in toni trionfalistici, di replicare i programmi spaziali occidentali, e del clamoroso fallimento di quell’operazione “coniglio di giada” che avrebbe dovuto replicare l’impresa lunare del 1969.

Diciamo tuttavia che il mondo estremo-orientale merita una certa considerazione e un certo rispetto. Certamente, queste popolazioni hanno prodotto una loro cultura e sono ben lontane dal basso livello intellettivo che caratterizza l’Africa subsahariana, anche se mi sembra che alla prova dei fatti non dimostrino quella superiorità che ci dovremmo invece attendere se i cinque punti di Q. I. in più degli studenti americani di origine asiatica rispetto ai loro compagni anglosassoni fossero dovuti a fattori genetici piuttosto che culturali.

Rimane da spiegare l’eccezione rappresentata dal Giappone, e anche riguardo alla stessa Cina e alle altre culture orientali, tutti i dubbi sono ben lontani dall’essere risolti. Vi ho già parlato del fatto che il ritrovamento nella zona di Cherchen nel deserto del Takla Makan che fa parte della regione del Sinkiang oggi cinese, di mummie dai tratti chiaramente europidi riconducibili forse all’estinto popolo dei Tocari, e la presenza di popolazioni relitto non meno “bianche” nelle alte valli del Pakistan e dell’Afghanistan, i Kalash e gli Hunza, rimandano a un antico popolamento caucasico dell’Asia centrale, e la stessa cosa ci viene raccontata dai Kurgan, questi grandi tumuli funebri siberiani, dove vediamo che i resti inumati nelle sepolture più antiche presentano tratti caucasici e in quelle più recenti mongolici, mentre la facie culturale rimane pressoché invariata.

Bene, oltre a tutto ciò, vi è da dire che vi sono indizi che suggeriscono che la presenza di un elemento di tipo caucasico alla base della civiltà cinese, sia più importante e più estesa di quanto avevamo finora supposto.

Questo, oltre a un’analisi del caso del Giappone, questo Paese insulare dell’estremità dell’Asia che ha saputo portarsi alla testa della civiltà moderna, sarà l’oggetto della prossima parte della nostra disamina.

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