Un cattivo vezzo che io trovo assolutamente deprecabile, è quello dei nostri “media” di chiamare “kamikaze” i terroristi-suicidi islamici. Questa usanza, a mio parere, costituisce un vero e proprio insulto ai VERI kamikaze, ossia i piloti giapponesi della seconda guerra mondiale che hanno sacrificato la loro vita contro le portaerei americane nel tentativo di fermare l’invasione del loro Paese.
Gli uni e gli altri si sono dimostrati/si dimostrano pronti a morire senza lasciarsi alcuna possibilità di salvezza pur di colpire i loro obiettivi, ma la somiglianza finisce qui.
Bisogna ricordare che i kamikaze nipponici erano combattenti in divisa che facevano parte di una forza armata regolare che combatteva in stato di guerra dichiarata, e i loro bersagli erano chiaramente sempre obiettivi militari nemici.
I terroristi-suicidi islamici non fanno parte di alcuna forza armata regolare, non indossano alcuna divisa e colpiscono nel mucchio con attentati che il più delle volte fanno vittime equamente suddivise fra i loro nemici, gente estranea e la loro stessa popolazione. I kamikaze giapponesi erano soldati che difendevano la loro patria, i terroristi islamici sono mossi dal fanatismo religioso, e spesso i loro “nemici” sono distinti da loro da sottigliezze teologiche difficilmente comprensibili per chi guarda le cose dall’esterno; ad esempio sunniti dell’ISIS che colpiscono mussulmani sciiti, sono insomma la materializzazione del peggiore spirito abramitico.
E’ interessante dal punto di vista storico il fatto che nel tentativo di contrastare l’invasione alleata della Germania, Heinrich Himmler, il Reichsfuhrer delle SS avesse proposto la costituzione di un corpo di kamikaze tedeschi analoghi a quelli giapponesi, e pare avesse già trovato un certo numero di volontari, ma la proposta fu bocciata da Hitler.
“Un soldato”, disse il cancelliere nazionalsocialista, “Deve avere sempre una possibilità di salvezza”.
Tuttavia ciò costituisce un’ulteriore conferma del fatto che Germania e Giappone ressero entrambe alla prova spaventosa dell’assalto contro di esse della coalizione mondiale, cosa che sciaguratamente non si può dire dell’Italia: seguendo l’esempio vergognoso venuto dalla monarchia, molti, troppi italiani cercarono la salvezza personale buttandosi nelle braccia del nemico, senza preoccuparsi di quali conseguenze questo avrebbe avuto per l’Italia. Duole ammetterlo, ma il capovolgimento di fronte dell’8 settembre 1943, e il cupo periodo che ne è seguito fino alla conclusione del conflitto, costituiscono una vergogna, una macchia indelebile sul nostro onore nazionale.
Non solo per questo aspetto, ma io credo che si possa tranquillamente affermare che se tra i popoli e le culture orientali ve n’è qualcuna davvero ammirevole, questa non possa essere altro che quella giapponese. Il Giappone rappresenta forse l’unica nazione asiatica che è riuscita a inserirsi in modo competitivo nel mondo industriale moderno, ponendosene addirittura alla testa, mantenendo nel contempo un geloso attaccamento alle proprie tradizioni (a titolo di confronto, si può osservare che le altre “tigri asiatiche” come Taiwan e la Corea del sud sono riuscite ad avere uno sviluppo industriale vertiginoso unicamente grazie ai costi stracciati della manodopera, un’industrializzazione che non ha perlopiù creato benessere).
Un altro particolare interessante da osservare, è che l’arcipelago giapponese ha complessivamente un’estensione all’incirca pari a quella dell’Italia e una popolazione pressappoco doppia; in più, si tratta di un territorio in gran parte montagnoso, poco favorevole agli insediamenti umani. Nonostante ciò, e la pressione antropica che grava su di esso, attraverso un’ampia catena di piccoli parchi nazionali, l’ambiente naturale e le specie animali e vegetali autoctone sono assai meglio salvaguardati che da noi.
Un altro fatto da considerare con attenzione, è che lo scintoismo, la religione nazionale giapponese per lunghissimo tempo non ebbe un nome specifico, essa era semplicemente la venerazione istintiva verso gli dei, verso gli antenati, verso la figura divina dell’imperatore; le fu dato un nome, “Shinto”, “la vecchia fede”, “la tradizione” quando arrivarono nelle isole nipponiche i missionari buddisti. Rimane tuttora un mistero perché l’ebraismo sia classificato fra le grandi religioni, e lo scintoismo considerato una religione minore, quando a questo mondo ci sono almeno cinque scintoisti per ogni ebreo.
Naturalmente, per noi che non siamo giapponesi, non avrebbe senso convertirsi allo scintoismo, ma esso ci può essere di incentivo per riscoprire il nostro “Shinto”, quelle tradizioni europee e nello specifico italiche che erano la religione dei nostri padri prima dell’avvento del cristianesimo, e che i cristiani hanno bollato con il nome di “paganesimo”, dileggiatorio nelle loro intenzioni.
In ogni caso, nello “Shinto” ci sono molte cose che a mio parere vanno considerate con attenzione, a cominciare dal “bushido”, l’etica dei samurai, la “via del guerriero”, considerata una vera e propria forma di iniziazione.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che il mondo e la cultura nipponici si staccano in maniera netta dalle altre culture asiatiche.
I nazionalsocialisti che avevano una grande stima per i Giapponesi, avevano deciso di considerarli Ehrenarier, “ariani onorari”. Bene, è possibile che avessero colto nel segno molto di più di quanto pensassero. Probabilmente il giapponese non andrebbe considerato un mongolo, quanto piuttosto un caucasico fortemente mongolizzato.
La preistoria delle isole dell’arcipelago nipponico è caratterizzata da un tipo umano, lo Jomon, che è caucasico, appartiene forse a quel ramo di popolazioni caucasiche che dall’Asia centrale si spinse verso le coste del Pacifico, e da cui discendono con ogni verosimiglianza anche gli antenati dei Polinesiani e quelli dei Dayaki del Borneo. Nell’isola di Hokkaido, la più settentrionale dell’arcipelago nipponico, vive ancora oggi una popolazione bianca, gli Ainu. Gli Ainu sono probabilmente gli ultimi Jomon.
Vi prego di osservare l’illustrazione che ho messo come intestazione di questo articolo; sono due immagini: a sinistra la ricostruzione del volto di uno jomon, a destra la fotografia di un ainu di oggi. E’ evidente che entrambi hanno caratteristiche somatiche caucasiche, non mongoliche.
La popolazione giapponese attuale si è probabilmente formata con l’infiltrazione nelle isole nipponiche di geni mongolici provenienti dalle antistanti coste asiatiche che si sarebbero mescolati con il preesistente genoma jomon, e sappiamo che le caratteristiche fisiche mongoliche sono dominanti rispetto a quelle caucasiche. Tuttavia, l’originario fondo caucasico non deve essere andato perduto, può essere rimasto soprattutto dal punto di vista caratteriale, dell’ “anima” giapponese, ed è verosimilmente a esso che si possono far risalire le qualità che marcano la diversità, e verrebbe da dire l’eccellenza giapponese rispetto ad altre culture estremo-orientali.
La nostra analisi ci ha fatto vedere che analizzando i contributi dati dalle popolazioni di ceppo mongolico alla civiltà umana, non si riscontra quella superiorità che quei cinque punti in più di quoziente d’intelligenza degli studenti di origine asiatica rivelano negli Stati Uniti rispetto ai loro omologhi anglosassoni ci avrebbe fatto pensare, ma una cosa è constatare questo e ben altra sarebbe pensare che queste popolazioni rappresentino un materiale umano di scarto.
Questo pregiudizio si trova talvolta diffuso perché la sindrome di Down, un’anomalia che comporta ritardo mentale era un tempo chiamata “mongolismo” perché fra i suoi sintomi c’è una piega delle palpebre che conferisce all’occhio una forma a mandorla analoga a quella delle popolazioni mongoliche. Questa non è altro che una coincidenza, la sindrome di Down deriva da una grave anomalia cromosomica, la trisomia 21 (il cromosoma 21 è presente nel genoma delle persone che ne sono affette in tre esemplari invece che in due), e non ha nulla a che fare con le popolazioni mongoliche.
Abbiamo visto la volta scorsa, ma si tratta di un tema che avevamo già affrontato in precedenza, che la presenza di un antico popolamento caucasico nell’Asia centrale potrebbe essere all’origine delle civiltà asiatiche e dell’Estremo Oriente. Abbiamo ricordato le mummie di Cherchen, l’antico popolo dei Tocari, popolazioni relitto “bianche” come i Kalash e gli Hunza e quegli antichi tumuli funerari che costellano le steppe eurasiatiche e sono noti come Kurgan (tra l’altro, l’antropologa Marija Gimbutas considerava quella dei Kurgan la cultura madre di tutto il mondo indoeuropeo). Oltre a ciò, c’è un indizio suggestivo del fatto che un elemento caucasico o addirittura indoeuropeo potrebbe essere alla base della stessa civiltà cinese.
Fuori dal mondo abramitico non si riscontra l’ostilità, l’intolleranza, l’odio per chi pratica religioni diverse che caratterizza i “figli di Abramo” carnali (ebrei e mussulmani) o spirituali (cristiani). Un episodio tramandatoci dalla tradizione cinese, adesso non importa stabilire se storico o leggendario, e che ha avuto svariati echi nell’iconografia di quella cultura, ci narra dell’incontro e del dialogo tra i fondatori della due maggiori religioni cinesi, di Lao Tze padre del taoismo con Confucio che ovviamente lo è del confucianesimo.
Notiamo le cavalcature in groppa alle quali i due padri spirituali della Cina si presentano all’incontro: Lao Tze sul dorso di un bufalo, Confucio in sella a un cavallo.
Il bufalo è per eccellenza l’animale delle risaie, legato all’acqua e alla coltivazione del riso, impiegato per tradizione antichissima nei lavori agricoli come in Europa il bue; inoltre a livello simbolico rappresenta l’elemento femminile laddove il cavallo ha un significato maschile (perché legato al lavoro agricolo sulla “terra madre”, sempre percepita come femminile dalle culture tradizionali, in quanto associata al potere della generazione).
Il cavallo, animale usato principalmente nelle attività belliche, rappresenta l’elemento maschile e guerriero. Inoltre, ci dice la tradizione cinese, il cavallo rappresenta il nord, mentre il bufalo rappresenta il sud.
Vediamo quale significato potrebbe avere tutto ciò.
Il confucianesimo, assai più del taoismo ha informato e plasmato la mentalità cinese, le ha dato una forte etica basata sul rispetto delle leggi, delle tradizioni, degli antenati, dell’autorità, le ha insegnato l’ordine e la moderazione. Nello stesso tempo si tratta di un pensiero pratico che bada alla concretezza delle cose.
Alcuni decenni or sono, un diplomatico occidentale che era vissuto parecchi anni in Cina, Robert Van Gulik, scrisse una serie di romanzi gialli imperniati sulla figura di un detective cinese dell’epoca imperiale, il magistrato Dee; in uno di essi, Il fantasma del tempio, c’è un interessante confronto fra l’etica taoista e quella confuciana. Quella predicata da Lao Tze è una morale molto simile a quella cristiana (Una cosa che allora mi fece sorridere: parecchi cristiani considerano il livello etico del cristianesimo, da loro considerato sovrumano, una prova della divinità di Cristo, e non a caso, il nucleo centrale di questa religione è stato identificato nel Discorso della montagna, che ne espone appunto le tematiche morali, e allora cosa dovremmo pensare di Lao Tze che ha detto le stesse cose mille anni prima?)
Essa è giudicata dal nostro magistrato non realistica tenendo conto di come sia realmente la natura umana. Per quanto possa apparire nobile, ricambiare il male con il bene, non è un comandamento che si possa applicare in concreto. “Io preferisco seguire gli insegnamenti del nostro Maestro Confucio, e ricambiare il bene col bene e il male con la giustizia”.
Ricambiare il male con la giustizia. Non è un insegnamento di cui abbiamo terribilmente bisogno anche noi? Pensate a cosa il buonismo cristiano-marxista (l’attribuzione di tutte le colpe “alla società”) ha ridotto la pratica della “giustizia” nei nostri tribunali, lasciando i rei praticamente impuniti e le vittime senza risarcimento e senza protezione!
Bene, allora cosa significa l’identificazione del confucianesimo con il simbolismo del cavallo che rappresenta “il nord”?
A nord della Cina e nelle sue parti più settentrionali inizia quella vasta regione delle steppe eurasiatiche che si estende ininterrottamente verso occidente fino al bassopiano sarmatico nel cuore dell’Europa; essa è stata popolata da tribù di allevatori e cavalieri nomadi in gran parte indoeuropei, qui è nata la cultura dei Kurgan che Marija Gimbutas considera la madre, l’origine di tutte le culture indoeuropee.
Molti di questi cavalieri nomadi indoeuropei hanno militato come cavalleria al servizio degli imperatori cinesi. Se è da qui che viene lo spirito del confucianesimo con il suo stile “militare”, allora alla base della civiltà cinese c’è un elemento almeno culturale di origine indoeuropea molto più importante di quello che avremmo supposto.
Nel suo bel libro Les races humaines, N. C. Doyto presenta un’analisi di questa cultura nomadica che sicuramente chiarisce molte cose. Gli antropologi e gli studiosi di preistoria che se ne sono occupati, sono in genere incorsi in un grossolano errore confondendo questo nomadismo con quello dei cacciatori paleolitici che si spostavano seguendo i branchi di selvaggina, o supponendo una derivazione senza soluzione di continuità tra l’uno e l’altro. E’ invece verosimile che l’addomesticamento e l’allevamento del cavallo abbiano seguito e non preceduto l’invenzione dell’agricoltura. Svariate popolazioni già stanziali possono essere diventate nomadi per ragioni svariate, perché pressate da popolazioni più forti, per l’inaridimento dei suoli, per spingersi alla ricerca di nuove terre; si pensi ad esempio alla corsa all’ovest nella storia degli Stati Uniti.
Questo stile di vita, il rapporto con un animale, il cavallo, che non può essere domato con la forza bruta, ma richiede un rapporto affettivo tra esso e il suo cavaliere, avrebbe modellato la società indoeuropea e i suoi valori, le avrebbe dato l’aspetto “cavalleresco” della sua etica. I grandi spazi dove queste popolazioni vivevano, avrebbe portato a un tipo di etica sociale fondato sui valori della libertà, dell’importanza del singolo, a rapporti basati sulla lealtà reciproca, al gusto dell’avventura.
Per parte mia, aggiungerei l’ipotesi che se lo spirito europeo è sempre stato caratterizzato dall’esigenza di andare “più oltre”, se per esempio sono stati gli Europei e non altri nell’ultimo mezzo millennio, i protagonisti delle grandi esplorazioni che hanno portato alla conoscenza e al dominio dell’intero globo terracqueo, questa è un’eredità dello spirito nato all’ombra dei Kurgan, una volta che la tolda della nave ha preso il posto della sella del cavallo.
E’ forse arrivato il momento di riassumere i punti della nostra disamina. Noi abbiamo visto che la presunzione di una superiorità intellettuale degli asiatici di ceppo mongolico sulle popolazioni “bianche” europee non trova riscontro in un’analisi dei contributi dati da queste alla civiltà umana e che, all’inverso, nelle civiltà estremo orientali, alla loro origine si trova un elemento caucasico, “bianco” maggiore di quel che avremmo supposto, biologico nel caso del Giappone, almeno culturale in quello della Cina. Allo stesso modo, nell’ambito delle popolazioni “bianche” abbiamo avuto modo di constatare l’inesistenza della vantata superiorità intellettiva degli ebrei rispetto ai “gentili”.
Alla fine, il discorso ritorna allo stesso punto, noi dobbiamo essere consapevoli che questa nostra eredità ed identità europea ed indoeuropea che oggi rischia di sparire travolta dall’immigrazione, dal mondialismo, dalla globalizzazione, dal meticciato, è un tesoro prezioso non solo per noi e i nostri figli, ma per l’intera umanità.