Di Fabio Calabrese
Da parte di diversi amici, mi è arrivata la sollecitazione a riprendere la serie di articoli “Ex oriente lux” che sembra aver suscitato un particolare interesse. Ora, bisogna dire che la mia intenzione al riguardo, era quella di riunire, da un dato momento in poi, tutti gli articoli di argomento antico, preistorico, protostorico, archeologico nella serie “Una Ahnenerbe casalinga”; in questo modo mi piace, ma – credetemi, con una certa dose di autoironia – definire le mie personali ricerche riguardo all’eredità degli antenati, e sempre sperando che il paragone con la Ahnenerbe nazionalsocialista non appaia troppo ardito, anche perché la leggenda della “luce da oriente” per quanto riguarda le origini della civiltà europea, non è il solo che occorre confutare, del pari due altre leggende che oggi passano per ortodossia scientifica vanno rigettate fra le falsità “politicamente corrette” che ci sono surrettiziamente imposte: quella dell’origine mediorientale degli Indoeuropei che la cosiddetta teoria del nostratico vorrebbe (ma guarda un po!) strettamente connessi alle genti semitiche, e quella della presunta origine africana (Out of Africa od OOA) della nostra specie.
Si tratta, non occorre nemmeno evidenziarlo, di tematiche strettamente connesse alla politica; infatti, tutte e tre queste leggende vanno a sminuire il ruolo avuto dal nostro continente e dalle genti di ceppo caucasico nell’incivilimento umano – guarda caso – proprio quando, per i fini del potere mondialista, occorre diminuire e incrinare la resistenza allo stravolgimento etnico e antropologico del nostro continente portato dalla cosiddetta immigrazione, il pietismo nei confronti della quale sembra, tra l’altro, aver sostituito presso la canaglia sinistrorsa, i cascami dell’ormai desueta e fallimentare ideologia marxista.
Tempo fa ho portato a termine un lavoro ambizioso, trasformare gli articoli apparsi in “Ex oriente lux” in un libro vero e proprio che ho intitolato Alla ricerca delle origini, ma non è possibile ipotizzare una pubblicazione in tempi rapidi, anche perché l’editore a cui l’ho affidato, Ritter, a fine aprile è stato vittima di un vilissimo attentato che ci conferma una volta di più che cosa i democratici antifascisti intendono per democrazia: tappare la bocca a chi la pensa diversamente da loro.
Recentemente, commentando un mio articolo (in termini piuttosto elogiativi, devo dire), il nostro grande Ernesto Roli ha scritto:
“Certe scoperte (…) non sono mai state prese in considerazione dagli archeologi. Ciò in quanto molto antiche, certamente più antiche delle così dette civiltà orientali; quasi a voler ignorare una possibile Civiltà Europea risalente a diversi millenni avanti Cristo. Secondo una certa “vulgata” archeologica, non può esistere una Civiltà Europea più antica di quelle orientali, altrimenti crollerebbe il castello dei luoghi comuni, come ad esempio Ex oriente lux”.
Il tema, come si vede, è sempre di attualità. Io al riguardo credo di aver trattato l’argomento in maniera piuttosto completa, ma poiché repetita iuvant, lo riprendiamo in mano. Non ho elementi nuovi, ma forse una sintesi di quanto già esposto non sarà priva di utilità.
Gli elementi di varia natura che suggeriscono, o se vogliamo, LE PROVE CHE MOSTRANO la priorità della civiltà europea rispetto all’oriente e al medio oriente, sono numerosi e difficilmente contestabili, ad essi infatti l’archeologia ufficiale, anch’essa emanazione dell’ideologia “politicamente corretta” imposta dal potere, non ha potuto rispondere con argomenti, ma solo avvolgendole in un muro di silenzio, impedendo che il grosso pubblico venga a conoscenza dei fatti che contraddicono le “verità” ufficiali pecorescamente snocciolate dai libri di storia.
Noi constatiamo, perché qui non è materia di discussione, ma di semplice prendere atto dei fatti, la priorità europea nella scoperta dei metalli (l’ascia di rame dell’uomo del Similaun è di cinquecento anni più antica del più antico analogo attrezzo mediorientale conosciuto), nell’allevamento bovino (come è dimostrato dal fatto che la capacità umana di assimilare il latte vaccino in età adulta è massima in Europa tra la Scandinavia e l’arco alpino, e decresce man mano che ci si allontana da quest’area), nell’invenzione della scrittura (le tavolette cosiddette di Tartaria ritrovate in Romania, e più antiche di mille anni dei più antichi pittogrammi sumerici).
Oltre a ciò, ci sono le testimonianze archeologiche inequivocabili, la diffusione in tutta Europa di imponenti costruzioni megalitiche che precedono di circa un millennio l’edificazione delle piramidi egizie e delle ziggurat; non c’è solo il più conosciuto megalitismo delle Isole Britanniche: Stonehenge, Avebury in Inghilterra, la stupenda e monumentale tomba di Newgrange in Irlanda, in Scozia il complesso conosciuto come “cuore neolitico delle Orcadi”. Abbiamo nell’Europa Continentale Carnac in Francia, Externsteine e Gosek in Germania, il quasi sconosciuto megalitismo italiano: la piramide di Monte d’Accoddi in Sardegna, il dolmen di Minervino in Puglia, fino ad arrivare agli imponenti e bellissimi templi dell’isola di Malta.
Il problema che ci dobbiamo porre, è semmai quali siano i motivi di questa sorta di etnocentrismo a rovescio, di auto-razzismo che induce a minimizzare l’Europa a favore di altre culture. Qui c’è da considerare prima di tutto il peso deformante sulla percezione che noi abbiamo di noi stessi, di un antico libro mediorientale considerato “sacro”, la bibbia. Guarda caso, i luoghi dove si suppone, dove ancora ci raccontano avrebbe avuto origine “la civiltà”, sono l’Egitto, la Mesopotamia, il Medio Oriente, i luoghi menzionati in questo antico libro scritto da chi dell’Europa non sapeva nulla.
I progressi fondamentali nelle varie scienze sono avvenuti affrancandosi dal peso dell’autorità biblica e del suo dogmatismo: Copernico e Galileo nelle scienze fisiche, Darwin nelle scienze biologiche, ma la storia sta ancora aspettando il suo Copernico, il suo Galileo, il suo Darwin.
Storici e archeologi negli ultimi due secoli hanno accumulato un’enorme massa di dati che hanno portato a ricostruzioni del passato sempre più dettagliate e precise, ma il paradigma di base è rimasto lo stesso, quello basato sulla narrazione biblica.
La ricerca, soprattutto in campo storico-archeologico, non è un semplice accumulo di fatti, il paradigma, cioè in ultima analisi l’idea che il ricercatore ha in testa, guida, influenza e determina la ricerca stessa; se è solo in Medio Oriente che si fanno ricerche archeologiche, potranno emergere solo “fatti” che confermano la priorità delle civiltà mediorientali.
Tuttavia, se il problema fosse solo questo, saremmo ancora fortunati. Non dobbiamo dimenticare le conseguenze pesanti che ha rappresentato in ogni campo, e continua a rappresentare la sconfitta dell’Europa (dell’Europa e non dell’Asse, anche le potenze europee nominalmente vincitrici sono state di fatto sconfitte) nella seconda guerra mondiale (ma in realtà in entrambe le due guerre mondiali), conseguenze che non hanno interessato solo l’ambito strettamente politico; ci troviamo sotto il tallone dei vincitori di allora non solo nel dominio politico, ma anche culturale e psicologico.
Gli Stati Uniti sono dominati dall’ossessione biblica, al punto che la maggioranza della popolazione americana è, ad esempio, creazionista. Archeologi americani cercano tuttora, oltre che l’arca di Noè (e perché non anche la slitta di Babbo Natale?) le tracce lasciate nel Sinai dalla peregrinazione degli ebrei guidati da Mosè, come se i resti di un fuoco di bivacco potessero permanere per tremila anni, e come se la zona non fosse attraversata da millenni da ogni sorta di carovaniere che vi avranno lasciato un numero enorme di tracce di fuochi di bivacco, tra le quali identificare quelle che si suppone lasciate dal “popolo eletto” durante la migrazione, ammesso e non concesso che quest’ultimo non sia un episodio leggendario, è di fatto impossibile.
Se in Europa continuano i trend attuali dal punto di vista demografico, c’è anche il rischio che al dogmatismo biblico venga a sommarsi o sostituirsi un altro dogmatismo ancora più rozzo, ottuso e ostile alla conoscenza, quello coranico.
Oltre a ciò, semplicemente ai nostri dominatori NON CONVIENE permettere lo sviluppo di quelle forme di conoscenza che potrebbero risvegliare negli Europei il senso della grandezza e l’orgoglio delle proprie origini, che potrebbero indurli a resistere al miserevole destino che ci hanno preparato: la sparizione per invecchiamento demografico e imbastardimento etnico. Tanto più, esse potrebbero dare fastidio alle zecche che oggi ci invadono.
Qualche anno fa, alla televisione svedese fu proibito di mandare in onda un documentario sull’Età del Bronzo scandinava, perché esso “avrebbe potuto offendere” la sempre più numerosa comunità islamica che oggi soffoca la Svezia.
Io vi ho raccontato che le mie ricerche presero avvio parecchi anni fa da una vivace discussione avuta con una collega in sala insegnanti durante uno di quegli intervalli che servono ai pargoli per rifocillarsi e a noi poveri docenti di riprenderci almeno un poco dallo stress. Non vi nascondo che sono stato io stesso il primo a sorprendermi di quanto viene fuori solo grattando un poco sotto le interpretazioni convenzionali e “politicamente corrette” spacciate dai libri di testo: non solo emerge in maniera incontrovertibile l’originalità e la creatività della civiltà europea fin dove è possibile risalire, fin dalla più remota preistoria, ma si ha la prova chiara che tutte le civiltà umane sono riconducibili a una base europide, caucasica, “bianca”.
Per quanto riguarda il Medio Oriente, ho trovato di estremo interesse le indicazioni contenute in un libro davvero prezioso, Ricerche archeologiche non autorizzate di Marco Pizzuti. Testi scritti, pitture, statue, e per quanto riguarda l’Egitto soprattutto le mummie, ci raccontano qualcosa su cui storici e archeologi ufficiali “politicamente corretti” preferiscono stendere un velo di silenzio: le civiltà mediorientali, sia dell’Egitto sia della Mesopotamia sono state create da élite con caratteristiche fisico-antropologiche nettamente diverse dal tipo prevalente nella popolazione; fra esse sono frequenti i lineamenti di tipo europeo nordico, gli occhi chiari, i capelli biondi o rossicci.
Alla base delle grandi civiltà dell’Asia centrale e orientale, troviamo un antichissimo popolamento europide, man mano ibridato o soppiantato da elementi mongolici. Questo fenomeno è visibilissimo nella cosiddetta cultura dei kurgan: in questi grandi tumuli disseminati per le steppe eurasiatiche, vediamo la progressiva sostituzione di resti inumati dalle caratteristiche caucasiche gradualmente sostituiti da altri dai tratti mongolici, mente la facie culturale rimane pressoché invariata. Occorre ricordare che secondo l’antropologa Marija Gimbutas, proprio la cultura dei kurgan sarebbe stata la cultura madre dei popoli indoeuropei.
Nell’Asia centrale, nella zona di Cherchen nella regione del Takla Makan che fa parte del Turkestan cinese o Sinkiang oggi indicato con la grafia cinesizzata di Xinjiang, nel bacino del fiume Tarim, è emerso un gran numero di mummie dai tratti prettamente europei, “celtici” secondo alcuni. Notevole, fra le altre, la mummia di una bambina dove i globi oculari sono stati sostituiti da pietruzze azzurre. Sebbene le autorità cinesi abbiano vietato le ricerche, temendo di dare esca allo spirito autonomista delle popolazioni locali, esse sembrano riconducibili all’antico popolo dei Tocari che ci ha lasciato nella regione le testimonianze scritte di una lingua indoeuropea del gruppo centum, lo stesso cui appartengono il greco, il latino, i linguaggi celtici e germanici.
Popolazioni relitto verosimilmente riconducibili allo stesso gruppo ancestrale, sono gli Hunza e i Kalash che abitano le alte valli del Pakistan e dell’Afghanistan, fra i quali sono frequenti le carnagioni chiare, i capelli biondi, i tratti inconfondibilmente nordici. Nonostante secoli di persecuzioni da parte degli islamici (la violenza è sempre l’argomento principale dei sermoni dei cultori del monoteismo), i Kalash rimangono anche testardamente pagani.
Per il Giappone si può fare un discorso analogo. Più che un mongolo, il giapponese si può considerare un caucasico fortemente mongolizzato dal contatto e l’interscambio genetico con le popolazioni vicine, ma per tutto il periodo che va dalla più remota preistoria a tempi storicamente recenti, il tipo umano più diffuso nelle Isole Nipponiche è stato un caucasico, lo Jomon. Affini agli Jomon sono ancora oggi gli Ainu dell’isola di Hokkaido. E’ senza dubbio questa impronta caucasica, occultata ma non cancellata, a fare sì che a dispetto della collocazione geografica, quella giapponese sia ancora oggi la più “occidentale” delle culture asiatiche.
E’ indubbiamente una cosa che può sorprendere, e sconcertare chi è abituato ad accettare supinamente la concezione storica convenzionale, ma lo stesso discorso si può fare tale e quale per le civiltà dell’America precolombiana; anche alla base di esse, troviamo un antico popolamento caucasico. E’ una scoperta emersa negli ultimi decenni, e che di certo non ci si è affrettati a far arrivare al grosso pubblico. Confrontando la più antica cultura litica americana, la cultura Clovis, con le industrie litiche del Vecchio Mondo, i ricercatori si sono accorti che essa non presenta nessuna somiglianza con quelle della Siberia da cui sarebbero venuti gli antenati degli Amerindi percorrendo la Beringia, l’area dell’attuale stretto di Bering che durante l’età glaciale è stata un ponte di terra emerso, e invece presenta una netta somiglianza con una cultura europea coeva o di poco precedente, quella solutreana.
L’ipotesi che i dati a nostra disposizione suggeriscono, è che durante l’età glaciale, quando il livello degli oceani era più basso di adesso e un’estesa banchisa artica congiungeva le coste dell’Europa settentrionale con l’Islanda, la Groenlandia e l’America, cacciatori solutreani abbiano potuto spostarsi su di essa a caccia di foche e balene come i moderni esquimesi, fino a raggiungere la sponda americana, prima degli antenati degli Amerindi che avrebbero raggiunto il Nuovo Mondo circa 12.000 anni fa.
A sostegno dell’ipotesi di una presenza “bianca” nelle Americhe, molto prima di Colombo o anche dei Vichinghi che hanno certamente preceduto il navigatore genovese, ci sono le leggende diffuse nelle culture precolombiane di eroi civilizzatori invariabilmente bianchi e barbuti: Quetzalcoatl, Viracocha, Gucumatz, ci sono soprattutto popolazioni “amerindie” stranamente bianche, estinte in epoca storica o ancora oggi esistenti: Mandan nell’America settentrionale, Aracani e Kilmes in quella meridionale. Gli Aracani, esistenti ancora oggi, in particolare, guarda caso, abitano la zona di Tihuanaco, dove esiste un complesso monumentale tra i più particolari dell’America precolombiana, “la Stonehenge del Sud America”, come è stato definito.
Come se non bastasse, negli ultimi anni è arrivata inequivocabile la prova del DNA. Nel genoma degli Amerindi c’è un terzo di geni caucasici, più esattamente risalente a quel gruppo di cacciatori paleolitici denominato “eurasiatico settentrionale” che rappresenta circa l’87 per cento degli antenati degli Europei.
D’altra parte, è facile rendersi conto che fare una riprova a contrario, è fin troppo semplice: là dove un’influenza europide non è ipotizzabile, non solo l’Africa nera, o come si dice oggi, subsahariana, ma anche per esempio l’Australia o la Nuova Guinea, vediamo bene che le popolazioni locali non si sono schiodate di un millimetro dal paleolitico fino all’arrivo dei coloni europei negli ultimi secoli.
Noi dobbiamo avere ben presente tutto ciò, essere consapevoli che la nostra eredità caucasica, “bianca”, indoeuropea, europea, è un deposito prezioso da difendere a qualsiasi costo, specialmente oggi di fronte all’invasione/aggressione mondialista mascherata da immigrazione.
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