Questa tematica della presunta luce da oriente è una di quelle questioni sulle quali sembra che non si possa mai arrivare a dire la parola conclusiva per quanto approfonditamente si cerchi di sviscerarle. Questa volta poi sono stato per così dire “tirato per la giacca” a riprendere in mano l’argomento.
Nel mio articolo Immigrazione, islam, terrorismo pubblicato su “Ereticamente” il 1 settembre ho espresso un giudizio – lo riconosco – duro sulla “cultura” indiana, che a tutti gli effetti non ha nulla da imparare dall’islam in fatto di misoginia, ma si potrebbe quasi dire che gli islamici al confronto trattino le donne da regine.
“Si veda ad esempio la scarsissima considerazione delle donne che ha ad esempio quella indiana, ancora peggio di quella islamica, al punto che una vedova è vista solo come un oggetto da bruciare sulla pira funebre del marito, od oggi in mancanza di ciò, condannata a una vita da reclusa e sepolta viva (e si tratta spesso di giovani donne sposate ancora bambine a uomini molto più anziani di loro)”.
Questa osservazione mi è stata decisamente rimproverata da un lettore, Daniele Bettini che nel suo commento scrive:
“Fa davvero dispiacere vedere liquidati in due righe come sottosviluppati e nemici i nostri in parte lontani cugini Hindu. Soprattutto se due post più in là ci sono gli articoli sul Vedanta di Tennenini”.
Io vorrei precisare che ho toccato (e non sviluppato) il discorso sull’induismo perché mi premeva evidenziare la necessità di opporsi al riversarsi oggi in Europa di una marea di gente non europea; il problema, la sfida che abbiamo di fronte è di natura etnica, non o solo secondariamente religiosa. Io sono contro l’islam perché è in primo luogo la bandiera dell’invasione, della sostituzione etnica mascherata da immigrazione, e della religione oggi (ancora per poco) prevalente in Europa, quella del Discorso della Montagna, in tutta franchezza non me ne potrebbe tangere di meno.
Ciò premesso, è un fatto che il mondo indiano sia spaventosamente misogino. Ad esempio, per gli uomini dei villaggi indiani stuprare fanciulle possibilmente in gruppo, fino a poco tempo fa era normale, normalissima amministrazione per cui non si scomodavano di certo le forze di polizia, e la vergogna in ogni caso ricadeva interamente sulle vittime. Solo recentemente si è cominciata a manifestare un po’ di indignazione per questi episodi, ma ciò non garantisce certo che siano cessati.
Avete visto le immagini scioccanti delle ragazze sfigurate con l’acido da corteggiatori respinti? Altra prassi piuttosto comune da quelle parti (anche se, bisogna riconoscerlo, diffusa soprattutto nel Bangladesh dove alla misoginia indiana viene a sommarsi quella islamica). Nel dubbio, fatevi un giretto in internet, e ne riparliamo.
In questi anni, di critici malevoli ai miei articoli ne ho trovati parecchi, ma fortunatamente Daniele Bettini non è fra questi, infatti poco sotto si dà da solo la risposta.
“Sia chiaro che in Europa non dobbiamo più far entrare nessuno e in particolar modo i Sudra dalla pelle scura ma dalla parte Arya in fatto di cosmologia (…), yoga e difesa etno-razziale c’è molto da imparare”.
In altre parole il busillis si chiarisce considerando la storia e la composizione etnica del sub-continente. In India gli Arya indoeuropei sono andati a sovrapporsi a una preesistente popolazione “scura” che dal punto di vista sociale formava la casta dei Sudra (servitori), ma etnicamente e linguisticamente sono noti come Dravidi. I Veda, il Vedanta, la Bagavad Gita, e anche il buddismo che è nato da questo stesso grembo, sono creazioni degli Arya a cui certamente possiamo ispirarci, ma non dobbiamo dimenticare che costoro erano e sono una minoranza, un super-strato che galleggia su di un oceano Sudra-Dravida, e sono la mentalità e le usanze, oltre al patrimonio genetico di questi ultimi a prevalere nel popoloso sub-continente.
Quando noi parliamo di Oriente, parliamo di realtà che da noi sono generalmente sopravvalutate, ma nel contempo poco conosciute e dove a un esame più ravvicinato le sorprese non mancano. Consideriamo ad esempio quel miliardo e passa di persone che costituisce la popolazione cinese: di primo acchito saremmo portati a pensare che etnicamente essi rappresentino il tipo mongolico praticamente puro. Bene, sembra che in realtà le cose non stiano così. Quello che è oggi probabilmente il maggiore studioso dei fenomeni razziali, N. C. Doyto nella sua ponderosa e semi-clandestina opera Les races humaines ci assicura che non è così e che al contrario, si tratta di una popolazione razzialmente molto mista.
Noi abbiamo visto che è culturalmente molto importante anche se etnicamente esigua un’influenza caucasica, “bianca” dei popoli delle steppe che in passato hanno fornito la cavalleria al “Celeste Impero”, al punto che il confucianesimo, religione basata sul rispetto della legge, dell’ordine, delle tradizioni, degli antenati, su di uno stile di vita cavalleresco, è legata “al nord” e al simbolismo del cavallo, e da questo punto di vista non fanno meraviglia le analogie con la mentalità curtense dell’Europa medioevale.
Ma le cose sono più complicate di così. Prima dell’espansione relativamente tarda delle genti mongoliche, l’Asia meridionale era abitata da popolazioni di ceppo negroide, ci racconta Doyto, i cui residui sono oggi rappresentati dai Vedda dell’India, dai Melanesiani, dagli indigeni delle isole Andamane, dai Negritos delle Filippine, e i Cinesi avrebbero ancora oggi una consistente traccia di elementi negroidi nel loro DNA.
Tutto ciò pone un interrogativo interessante: sarà forse a questa impronta negroide che possono essere ricondotte alcune peculiarità della “cultura” cinese? Prima di tutto la crudeltà, il gusto di infiggere sofferenze, la famosa “crudeltà orientale” che peraltro in altri popoli come i Giapponesi non si riscontra. Poi una cosa di cui da noi si parla poco o, pur essendo documentata, si preferisce non parlarne affatto: la persistenza in Cina fino a tempi molto recenti di una forma di cannibalismo rituale: mangiare il cuore o il fegato dei nemici uccisi come suprema forma di disprezzo. E’ documentato che durante la “rivoluzione culturale” vi furono parecchi episodi di questo genere, cui sembra non essere stato estraneo neppure Mao, “il grande timoniere”.
Approfittando del fatto che di quello che accadeva in quegli anni nella popolosa nazione asiatica, in realtà da noi non si sapeva nulla se non che essa era percorsa da un fremito di instabilità, per i “compagni” nostrani che si scoprirono maoisti, essa diventò una sorta di test rorschach, un disegno ambiguo sul quale proiettare le proprie personali utopie, da parte di chi era avvezzo a una visione del mondo del tutto disancorata dalla realtà, tuttavia è forse l’ennesima riprova del fatto che natura e cultura, eredità genetica e apprendimento, sono ben lontani dall’essere realtà separate o addirittura contrapposte come vorrebbe la mentalità democratico-sinistrorsa.
Tra i delitti che si possono imputare al comunismo cinese, l’invasione del Tibet e il tentativo portato avanti ancora oggi di cancellare i Tibetani come popolo, non è certo il minore. IN OGNI CASO e a qualsiasi latitudine comunismo significa violazione dei diritti umani, tirannia, bestialità, ferocia, oppressione. Su questo non ci piove.
Tuttavia io penso che ricorderete un mio articolo di un paio di anni fa, Alcune considerazioni sul buddismo, dal quale non usciva un giudizio netto sulla religione dell’illuminazione. Da un lato, a mio parere, non si poteva non riconoscere ad essa alcuni elementi di forte positività, a cominciare da quello di essere una forma di pensiero dalle origini e dalle caratteristiche prettamente indoeuropee, e di essere forse l’unica religione non abramitica ad aver raggiunto una dimensione universale, laddove ad esempio l’induismo rimane fortemente caratterizzato in senso etnico. Sull’altro piatto della bilancia, tuttavia ne va messo lo spirito passivo e rinunciatario, esemplificato come meglio non si potrebbe proprio dalla mancata resistenza dei Tibetani all’invasione cinese, laddove il difficile territorio montano avrebbe probabilmente consentito loro una resistenza analoga a quella dei mujaeddin afgani che riuscirono a spezzare gli artigli nientemeno che all’Armata Rossa.
La non violenza, facevo osservare, è uno strumento di lotta che può funzionare solo se può fare appello a un certo fondo di umanità presente nell’avversario. Puoi fermare un treno sdraiandoti sui binari, solo se chi lo guida è disposto a fermarlo per non stritolarti. Se, come nel caso che tu abbia a che fare con dei comunisti, questo fondo di umanità non c’è, la non violenza è peggio che inutile, è un boomerang, come la vicenda del Tibet ha ampiamente dimostrato.
In realtà, rileggendo più tardi quell’articolo, mi sono reso conto che le mie obiezioni riguardo al buddismo erano principalmente obiezioni riguardo a un solo uomo: Tenzin Gyatso, il Dalai Lama. Per obiettività, devo ammettere che a lasciarmi il dente avvelenato verso il signor Gyatso fu soprattutto un’intervista rilasciata da costui a Oriana Fallaci e da quest’ultima riportata nel suo libercolo La rabbia e l’orgoglio. La non rimpianta Oriana Fallaci, tanto per essere chiari, sull’islam aveva perfettamente ragione, ma per il resto non era che una leccapiedi del potere americano-sionista, un’antifascista rabbiosa con un passato giovanile da staffetta partigiana, e pur riconoscendo l’assoluta giustezza dell’analisi che ha fatto circa l’islam, sono ben lontano dal condividere l’entusiasmo verso di essa che si trova perfino nei soggetti più disinformati dei nostri ambienti.
Nel suo infame libraccio, la Fallaci fa un parallelo che vorrebbe essere plutarchiano tra Tenzin Gyatso e Yasser Arafat. Il primo è dipinto nei toni più simpatici possibile, a cominciare dal fatto che le si presenta indossando informalmente una t-shirt, mentre del secondo la lecchina del sionismo dice quanto più possibile peste e corna.
Ridotta all’osso, la questione è molto semplice: da un lato abbiamo un uomo che ha speso la sua vita per la sopravvivenza e la libertà del suo popolo, dall’altro uno che ha barattato la vita della sua gente con la prospettiva di presentarsi come un’autorità religiosa a livello mondiale. Scusate, ma la mia stima e il mio rispetto vanno tutti a Yasser Arafat.
Recentemente, in data 22 agosto, un altro amico di quelli che se non ci fossero, il mio lavoro su queste pagine risulterebbe assai più difficoltoso, il nostro grande, infaticabile Mamer, ha postato un articolo proveniente da “Free your Mind” del 2011, di Salvatore Ioppolo: Dalai lama, un altro mito della Cia.
Ridotta all’osso l’argomentazione, il Dalai Lama è diventato un’icona mediatica, il “papa” di una religione onnicomprensiva, di un orientalismo adattato ai gusti dell’Occidente, che dovrebbe essere il nuovo credo alternativo alla crescente crisi di credibilità del cristianesimo, e perfettamente compatibile con le finalità del potere mondialista, almeno nell’indirizzare le inquietudini spirituali della gente in direzioni per esso innocue.
Non è tutto, perché a quanto pare, a partire dagli anni ’60 il Dalai Lama avrebbe ricevuto ingenti finanziamenti dalla CIA, finanziamenti che peraltro non sono andati a una qualche forma di resistenza tibetana all’oppressione cinese, ma solo, attraverso un profluvio di libri, convegni, conferenze, incontri con leader mondiali religiosi e non, a costruire la figura mediatica del Dalai Lama stesso.
Luce da oriente? Meglio si conosce l’oriente, più si sente l’esigenza di tenersi stretta la cultura europea, e di difendere questa nostra Europa che oggi rischia di essere stravolta dall’invasione allogena, a ogni costo e con ogni mezzo.
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