Scritto composto tra agosto e novembre 2024
Opera di Castruccio Castracani
Di seguito, dunque, vorrei esporre con mia notevole sorpresa una consistente scoperta nell’ambito sapienziale e della conoscenza, seppure ingaggiandomi in cotale lavoro con una chiara e forte premessa: questa opera – seppure nella sua brevità e concisezza – è fortemente caratterizzata da una prospettiva di analisi dell’espressione dei valori che si situa soprattutto sul solco della filosofia politica – con contatti di weltanschauung ed epistemologia – e non si adagia sulla questione letteraria della materia e sui vari orpelli di ricamo stilistico-espostivi su cui gli studiosi di belle lettere e letteratura solitamente invece si concentrano.
Niccolò Machiavelli (1468/69 – 1527), in quanto ghibellino1, nelle sue Istorie Fiorentine, ribalta il giudizio storico sul Farinata Degli Uberti (1212 – 1264), il quale fu il capo e la guida delle forze ghibelline di Firenze e per estensione della Toscana, invertendo così il verdetto che fu dato su tale personaggio storico nella Divina Commedia, da parte di Dante Alighieri (1265 – 1321), schierato ideologicamente come guelfo2.
Perciò, a seguire, si noti quanto segue dal Libro II, Cap. 7, delle Istorie Fiorentine di Machiavelli:
«Aveva Manfredi mandato a’ Ghibellini, per capo delle sue genti, il conte Giordano, uomo in quelli tempi nelle armi assai reputato. Costui, dopo la vittoria, se ne andò con i Ghibellini a Firenze, e quella città ridusse tutta alla ubbidienza di Manfredi, annullando i magistrati e ogni altro ordine per il quale apparisse alcuna forma della sua libertà. La quale ingiuria, con poca prudenza fatta, fu dallo universale con grande odio ricevuta; e di nimico ai Ghibellini diventò loro inimicissimo; donde al tutto ne nacque, con il tempo, la rovina loro. E avendo, per le necessità del Regno, il conte Giordano a tornare a Napoli, lasciò in Firenze per regale vicario il conte Guido Novello, signore di Casentino. Fece costui uno concilio di Ghibellini ad Empoli, dove per ciascuno si concluse che, a volere mantenere potente la parte ghibellina in Toscana, era necessario disfare Firenze, sola atta, per avere il popolo guelfo, a fare ripigliare le forze alle parti della Chiesa. A questa sì crudel sentenzia, data contra ad una sì nobile città, non fu cittadino né amico, eccetto che messer Farinata degli Uberti, che si opponesse; il quale apertamente e senza alcuno rispetto la difese, dicendo non avere con tanta fatica corsi tanti pericoli, se non per potere nella sua patria abitare; e che non era allora per non volere quello che già aveva cerco, né per rifiutare quello che dalla fortuna gli era stato dato; anzi per essere non minore nimico di coloro che disegnassero altrimenti, che si fusse stato ai Guelfi; e se di loro alcuno temeva della sua patria, la rovinasse, perché sperava, con quella virtù che ne aveva cacciati i Guelfi, difenderla. Era messer Farinata uomo di grande animo, eccellente nella guerra, capo de’ Ghibellini, e apresso a Manfredi assai stimato: la cui autorità pose fine a quello ragionamento; e pensorono altri modi a volersi lo stato perservare3».
Perciò, secondo Machiavelli, non solamente Farinata fu un magnanimo uomo ed un grande leader, sia dal punto di vista politico che militare, ma egli fu anche un grande patriota ed un nazionalista.
Dunque, seppure egli sapesse che a Firenze la moltitudine della massa popolare fosse guelfa, ed a discapito del fatto che i ghibellini – fazione di cui si trovava ad essere un importante capo – fossero ora al potere in città, egli – avendo lì i propri natali e la propria patria e nazione – la difese in senso nazionalistico e patriottico dal piano razionale e strategico dei ghibellini di distruggerla. In quanto, dal proprio punto di vista militare, considerate le massime simpatie in tale città della massa popolare, e l’importanza strategica di un tale centro, ora che espugnata si trovava nelle proprie mani, gli strateghi dei Ghibellini l’avrebbero voluta radere al suolo al fine di deprivare i guelfi – semmai fossero localmente tornati a primeggiare – di una propria importantissima roccaforte. Ma a ciò, quindi, il Farinata si oppose, in modo fermo e saldo, ponendo in avanti con forza tutto il peso del proprio prestigio e della propria posizione, salvando così la città dalla distruzione.
Perciò, sulla scorta di quanto emerge, non solo Farinata degli Uberti è un prode comandante, ma altresì egli è magnanimo, empatico, ed ama il proprio popolo tutto, aldilà delle differenze di parti politiche, e di tradizione, etc., etc.
Nonché, questa descrizione, piena di magnanimità, segue da vicino, e ricalca in modo pieno, quella di Scipione l’Africano, così come emerge dagli altri lavori di Machiavelli. Nel merito, difatti, si prenda ad esempio, tal voce dall’Enciclopedia Machiavelliana curata da parte dell’Enciclopedia Treccani:
«Ne Il Principe S[cipione, n.d.r.] è citato nel Cap. XIV (Quod principem deceat circa militiam), dove si dice, sulla scorta di Cicerone […], che egli imitava Ciro […]. [Chiunque, n.d.r.] legge la vita di Ciro scritta da Xenofonte riconosce di poi nella vita di Scipione quanto quella imitazione gli fu a gloria, e quanto, nella castità affabilità umanità liberalità, Scipione si conformassi con quelle cose che di Ciro da Xenofonte sono sute scritte […] e nel Cap. XVII (De crudelitate et pietate; et an sit melius amari quam timeri, vel e contra), dove gli è rimproverata (contrapposta alla crudeltà di Annibale) la «sua troppa pietà, la quale aveva data alli suoi soldati più licenza che alla disciplina militare non si conveniva» (§ 19) […]. Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio […] III XXI, il capitolo intitolato Donde nacque che Annibale, con diverso modo di procedere da Scipione, fece quelli medesimi effetti in Italia che quello in Ispagna, nel quale è svolto un tema trattato già, con gli stessi esempi di Annibale e S[cipione, n.d.r.], nei Ghiribizzi al Soderino (si veda infra): «[…] dico come e’ si vede Scipione entrare in Ispagna e con quella sua umanità e piatà subito farsi amica quella provincia, e adorare e ammirare da’ popoli. Vedesi allo incontro entrare Annibale in Italia e, con modi tutti contrari, cioè con crudeltà, violenza e rapina e ogni ragione d’infideltà, fare il medesimo effetto che aveva fatto Scipione in Ispagna; perché ad Annibale [dativo di vantaggio] si ribellarono tutte le città d’Italia, tutti i popoli lo seguirono» (III, XXI, § 3-4)4».
Ad una attenta osservazione, quindi, tutto questo è un forte parallelo con Farinata, in quanto anche lui è stato troppo mite e clemente, mosso a questo per l’amore delle sue genti e della sua terra, opponendosi alla distruzione di Firenze. Dunque, egli fu magnanimo come Scipione, e non crudele come Annibale. Ma ciò tanto fu grande nella virtù di magnanimità della sua persona quanto ebbe dure conseguenze per farinata stesso, in quanto, quando i guelfi tornarono al potere tolsero e sequestrarono a lui ed alla sua famiglia le loro proprietà e li costrinsero all’esilio a Siena5.
Ad ogni modo, Farinata degli Uberti, così come è stato sopra mostrato, e così come appare nelle Istorie Fiorentine, è come Scipione, e quest’ultimo è mostrato aver acquistato le sue qualità ed aver assunto un cotale calibro in quanto fine allievo e studente delle opere dello storico e – in questo caso soprattutto – filosofo Senofonte.
In sostanza, Farinata degli Uberti è come Scipione, in modo precisamente qualitativo, in quanto egli è devoto alla magnanimità in virtù delle sue proprie competenze politiche, militari e strategiche (che tali sono in valore della sua stessa virtù).
Dunque, quella di Machiavelli è – perciò – la descrizione ghibellina di Farinata.
Quindi, cotale, sovraesposta, è un’inversione totale della descrizione data dalla parte guelfa, della quale Dante Alighieri, con la sua Divina Commedia, Inferno – «che infatti è un libro essenzialmente guelfo6» –, Canto X, lo pone come bruciante “vivo” all’inferno, condannato in quanto epicureo (cioè empirista e pagano)7.
Di conseguenza, siamo di fronte ad una totale inversione della descrizione di valore del personaggio. Ciò avviene circa dopo duecento anni di propaganda guelfa, inagurata da Dante, con la sua magnus opus Divina Commedia. In quanto, nel merito, rispetto alla datazione, si ricordi che «gli studiosi ritengono che la Divina Commedia sia stata composta da Dante durante l’esilio (forse a partire dal 1304 o dal 1307); è inoltre probabile che le due prime cantiche siano state divulgate durante la vita di Alighieri, mentre il Paradiso venne pubblicato postumo8». Mentre, di converso, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio furono il frutto di una lunga gestazione ed elaborazione durata dal 1513 al 1519, anno di morte di uno dei due dedicatari dell’opera, e furono per la prima volta pubblicati nel 15319. Perciò, esattamente dopo circa duecento anni di propaganda guelfa ininterrotta ed incontrastata, alfine, Machiavelli interviene, e, con la sua opera, usando la sua penna come una spada, a questa pone freno, ribaltando così, agli occhi pubblici della cultura, il giudizio dato dai guelfi nei confronti dei leaders ghibellini. In special modo di una guida così importante, e dai tratti eroici, come fu il Farinata.
Da una parte, nella descrizione ghibellina, presentata da Machiavelli, seppure scritta un paio di secoli dopo quella di Dante, abbiamo un eroe, un uomo dal calibro di Scipio l’Africano, eguale per virtù ai grandi antichi romani protagonisti apicali della Res Publica, in linea con gli insegnamenti del filosofo Senofonte (sì uno studente di Socrate, e tra i più brillanti, ma nemico teoretico di Platone). Quindi emerge, il Farinata, come un grande leader politico, strategico e miliare: un patriota ed un nazionalista, il quale, per l’amore della sua patria non trama contro di questa, e, invece, la protegge dagli altri ghibellini che la vorrebbero distruggere (tra l’altro non per rabbia ma per ragioni più che freddamente razionali e strategiche). Dunque, è la magnanimità del Farinata, quindi, che salvò Firenze.
Dall’altra parte, invece, l’Alighieri, nella Divina Commedia, Inferno, Canto X, lo pone come sofferente in un girone infernale, condannato a “bruciare vivo”, ciò perché pagano e sensista. Nonché, non solamente questa è la sua pozione, Dante, in pieno disprezzo ed astio ideologico, religioso e filosofico, ci comunica, attraverso la sua opera, come anche il Sacro Romano Imperatore Federico II di Svevia stia bruciando all’inferno nel medesimo girone. Laddove egli, nella sua composizione, nel medesimo luogo, fa pronunciare al Farinata: «Qui con più di mille giaccio, qua dentro è ‘l secondo Federico10».
Dunque, visto tutto questo, considerato quanto sovra esposto, possiamo quindi vedere la completa opposizione delle due grandi Tradizioni (con la T maiuscola) della Civiltà Occidentale, da una parte quella ghibellina e dall’altra quella guelfa.
Va aggiunto, quindi, come Farinata – così come descritto dal ghibellino Machiavelli – per l’amore del suo paese e della sua nazione, a detrimento del piano strategico elaborato dagli altri ghibellini, si oppone con forza alla distruzione di Firenze. Un Farinata degli Uberti che è quindi magnanimo verso il popolo nel suo insieme, cioè per tutti e per ciascuno. Mentre, in converso, per Dante Alighieri, il medesimo personaggio storico è bruciante all’inferno in quanto epicureo e cioè colpevole di paganesimo (a livello di spirito), e di sensismo/empirismo (a livello epistemologico).
Ora, per quanto riguardi il tema dell’amore per la propria terra natale e per la propria nazione, e nonché rispetto ad una così grande virtù come la magnanimità, ci si può soffermare ad osservare la descrizione del guelfo Dante elaborata e data da Niccolò Machiavelli nella sua opera titolata Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua:
«Dante; il quale in ogni parte mostrò d’essere, per ingegno, per dottrina e per giudizio, uomo eccellente, eccetto che dove egli ebbe a ragionare della patria sua; la quale, fuori d’ogni umanità e filosofico instituto, perseguitò con ogni specie d’ingiuria. E non potendo altro fare che infamarla, accusò quella d’ogni vizio, dannò gli uomini, biasimò il sito, disse male de’ costumi e delle leggi di lei; e questo fece non solo in una parte della sua Cantica, ma in tutta, e diversamente e in diversi modi; tanto l’offese l’ingiuria dell’esilio! tanta vendetta ne desiderava! e però ne fece tanta quanta egli poté. E se, per sorte, de’ mali ch’egli li predisse, le ne fusse accaduto alcuno, Firenze arebbe più da dolersi d’aver nutrito quell’uomo, che d’alcuna altra sua rovina11 ».
Dunque, da un lato, abbiamo una persona di grande valore, il Farinata, ghibellino, con massimo ed assoluto amore per la sua gente, per la sua nazione, e per la sua terra natia. Il quale, confidente nel proprio valore ed abilità, la salva dalla distruzione e della rovina, opponendosi al piano strategico degli altri ghibellini, e facendolo proprio in virtù della sua magnanimità. Un comportamento che, come già sopra è stato menzionato, negli altri lavori di Machiavelli è riferito a Scipione studente della filosofia e degli insegnamenti di Senofonte.
Mentre, dall’altro lato, abbiamo il guelfo Dante, che, una volta costretto all’esilio – e, si badi bene, non da parte dei ghibellini, ma da parte di altri guelfi (conseguenza del fazionalismo e del settarismo interno alla compagine guelfa) – cominciò ad odiare in modo assoluto, innaturale e malsano, la propria patria d’origine. Finanche, oramai riempito d’ostile livore e di cieco risentimento, cercare in ogni modo ed in ogni occasione di diffamarla, ovunque egli potè, come ad esempio nelle sue opere scritte, od anche, in modo attivo, nelle cospirazioni politiche, in cui egli tramò per la sua rovina.
Conclusioni
Machiavelli, in quanto ghibellino, nelle sue opere, specialmente in relazione alla storia di Firenze, cerca di ribaltare i circa due secoli della incontrastata e totalizzante propaganda guelfa instaurata da Dante nel dominio culturale. Nello specifico, Machiavelli si avventura in codesta operazione ed intrapresa filosofico-politica alterando – in segno opposto – il valore qualitativo dato da Dante nei riguardi dei personaggi ghibellini da egli condannati nei suoi scritti. Machiavelli salva cotali figure storiche, come l’esempio sovramenzionato del Farinata dimostra, innalzandoli al calibro di virtuosi, e, in converso, condannando Dante stesso ed in toto, in quanto personaggio anti-morale e nefasto.
Nonché, così come già espresso nella premessa, è di conto ribadire come, questa non sia uno studio di letteratura ma, invece, siffatta sia una pura e cruda analisi di filosofia-politica. Alfine, proprio grazie a cotale indagine ed alle scoperte – o meglio forse “ri-scoperte” – concettuali enucleate, è possibile intravedere il conflitto – vecchio di secoli – tra diverse parti al fine di poter avere posizioni di primazia nell’influenza culturale diffusa a livello sociale. Cioè, il conflitto tra diverse ed opposti gruppi per vincere il controllo delle menti – nella società e nella politica – grazie alla produzione delle forme concettuali cultura pubblica condivisa. Cosa che qui chiaramente emerge nel tradizionale scontro tra due opposte teoresi e tra due opposte serie di riferimenti filosofici, filosofico-politici, spirituali ed epistemici, come fu quello tra guelfi e ghibellini.
Dunque, Niccolò Machiavelli, di simpatie ghibelline, esalta Farinata ad eroe, e lo posiziona come parallelo in virtù – così come tale figura è descritta in tutto il corpus complessivo dei suoi lavori – a Scipione. Cioè, quello Scipione l’Africano, che, nell’opera complessiva di Machiavelli, è in molteplici luoghi e con assoluta consistenza dipinto come un vero e proprio lume ed un esempio chiaro e distinto di virtù e magnanimità. Il quale è tale, così è riportato, perché studente e discepolo della filosofia di Senofonte (sì studente di Socrate, e forse il più brillante fra tutti, ma indubitabilmente anti-Platone).
Infine, Dante, cioè uno dei più prominenti tra i guelfi, così come si evince e sia anche evidente dai suoi scritti, aderisce ad una visione cristianizzata – sotto stretto giogo ed attenta supervisione ecclesiale – di una commistione forzosa delle filosofie di Platone ed Aristotele esaltate in modo estremo soprattutto nella loro prospettiva metafisica. Perciò, egli condanna il Farinata, in quanto epicureo – e dunque sensista/empirista dal punto di vista epistemologico, e, nonché, pagano, dal punto di vista spirituale – a bruciare all’inferno (ed annuncia, al pari, che la figura più simbolica dei ghibellini, il Sacro Romano Imperatore Federico II Hohenstaufen, è similmente condannato).
- Appendice:
Da parte di chi scrive, cioè l’autore di questo studio, tutto ciò è alquanto interessante. In quanto, ci si trova di fronte a due profondamente contrapposte visioni del mondo e weltanschauung, ma, allo stesso tempo, radicate nelle fondamenta stesse dell’identità più tradizionale indubitabilmente vera della Civiltà Occidentale.
Pertanto, ragionando su cotale stato di cose concettuale, emerge chiaramente un parallelo, ed è quello della civiltà della Cina. Perché, anche lì, in cotale civiltà cinese, vi è un radicamento doppio in due profondamente diverse visioni del mondo, quelle delle due grandi weltanschauung, ideologie, spiritualità, filosofie, epistemologie, filosofie-politiche e teoresi da un lato del taoismo e dall’altro lato del confucianesimo.
Dunque, così come nella Civiltà Cinese hanno una Tradizione – con la T maiuscola – che è indubitabilmente doppia, cioè imperniata sue due Tradizioni parallele, da una parte la tradizione del taoismo e dall’altra parte la tradizione del confucianesimo. Anche nella Civiltà Occidentale abbiamo una Tradizione – con la T maiuscola – che è indubitabilmente doppia, cioè imperniata su due Tradizioni parallele, da una parte la tradizione del guelfismo e dall’altra parte la tradizione del ghibellinismo.
Ad ogni modo, nel mondo contemporaneo vi è una sostanziale ed evidente differenza da considerare. Mentre in Cina entrambe le loro maggiori e più significative tradizioni sono ancora oggi significativamente rispettate, e, nonché, con reverenza protette, coltivate e rispettate. Di rimpetto, ed in converso, in Occidente, invece, è alquanto evidente che sia via andato forzosamente ad imporsi una specie di – implicitamente – autoritario giogo di “neo-guelfismo”, o come lo si voglia chiamare, imponente in modo sempre più intollerante e tirannico una cappa unica e totalizzare del cognire, del culturare e del vivere comune. Laddove, al contrario, invece, il “neo-ghibellinismo”, o ciò che comunque potrebbe definirsi tale, è invece nascosto, rimosso, sottomesso od anche censurato.
Perciò, “la verità effettuale della cosa” è la seguente:
La Civiltà Occidentale, nei suoi ultimi duemila anni, ha avuto due Grandi Tradizioni, e non solamente una. Le quali sono sempre state profondamente diverse, ma entrambe intrinsecamente vere in quanto radicate, e nonché entrambe tradizionali. Seppure siano state talvolta contrapposte, e/o talaltra volta conviventi, e/o talaltra volta una cercasse di soppiantare l’altra, il vero della questione è che entrambe hanno contribuito in parimerito al benessere, al fiorire ed alla crescita della medesima e singola civiltà.
Ad ogni modo, è alquanto evidente, e lo è in modo chiaro e distinto, che nel procedere dell’ultimo secolo, e specialmente in modo sempre più forte negli ultimi sessanta o cinquant’anni, una tradizione abbia cercato di prevaricare il bilanciamento – “balance of power” – tra le due realtà, filosofie, episteme, teoresi e spiritualità. Cercando alfine di imporne, con forza, ed in modo totale, solo e solamente una quella “filo-guelfa” e di cancellare ed annullare l’altra – da sempre altrettanto vera ed esistente – quella “filo-ghibellina”.
Perciò, è evidente, ed è vivo e vero, all’interno di quel complesso maglio ed insieme d’attori e di forze che è la Civiltà Occidentale, che vi sia un profondo sbilanciamento “d’energie” nella “costituzione della Realtà” (mi si conceda il termine figurativo).
Questo perché, come sopra è stato largamente dimostrato, la Civiltà Occidentale è sempre stata costituita da queste due diverse tradizioni (seppure diverse ed a tratti anche contrapposte), che però nel complesso ne furono i suoi due pilastri (seppure speculari e diversi). Mentre, nella contemporaneità a noi temporalmente più vicina, invece, una delle due “tradizioni” ha cercato di prendere il potere in modo assoluto, finanche cercando di cancellare l’altra: imponendosi in modo totale.
Cotale è lo stato di cose attuale della nostra Civiltà in Occidente, ma, come dimostrato, e come evidente, è fortemente rotto il “balance of power” dei due pilastri su cui questa è da sempre stata tradizionalmente costituita. In quanto, uno ha cercato, e continuamente cerca imperando, di sostiturie completamente l’altro e di imporsi come unico. Questo altera profondamente il bilanciamento interno della stessa civiltà e delle vastissime e complesse “sottili energie” che da sempre l’hanno invece composta ed animata.
Perché, la fazione “guelfa” / “neo-guelfa” / “filo-guelfa”, quantomeno ciò è vero a partire dalla seconda metà del XX secolo, ed è verissimo ancora di più nell’odierno del XXI secolo, ha cercato e sta cercando di monopolizzare e totalizzare la Civiltà Occidentale nella sua interezza… Ponendo in persecuzione, cancellazione, repressione e censura la fazione “ghibellina” / “neo-ghibellina” / “filo-ghibellina”.
Dunque, venendosi a creare questa dinamica, e questo stato di cose, così come Klemens Von Metternich intravide il mondo e specialmente l’Occidente / l’Europa dei decenni che condussero fino al 1789 (con tutte le sue conseguenze intese ed inaspettate), come una realtà caratterizzata da una profonda “unbalance of power”. Il sistema complesso di quel maglio plurifattoriale d’essenze materiale e “d’energie sottili” che è l’odierna Civiltà Occidentale è profondamente sbilanciato a causa di quanto sovra esposto.
In conclusione, lo stato di cose della Civiltà Occidentale è, che, uno dei due pilastri ha cercato, e sta cercando, di distruggere l’altro, e di soffocarne la sua memoria, ma, così facendo, si sta vastamente creando un profondissimo e vasto “sbilanciamento nella forza” delle “energie sottili” della Civiltà stessa nel suo complesso (intesa come organismo esteso nel materiale e nell’immateriale ad un sol tempo).
Note:
- Va difatti ricordato che nella cosiddetta Repubblica di Firenze i termini guelfo/i e ghibellino/i fossero stati riesumati ed utilizzati pubblicamente in riguardo a questioni sociopolitiche e socioculturali, e come fossero usati ancora per tutto il XV secolo e finanche l’inizio del XVI secolo, proprio nel mondo in cui Niccolò Machiavelli vivette. In merito vedasi: «[…] l’uso degli uomini ambiziosi, di ottenere il primo grado nella republica cercano; né avendo altri modi ad occuparlo che le discordie, hanno di nuovo divisa la città, e il nome guelfo e ghibellino, che era spento […] risuscitano. Egli è dato di sopra, acciò che nelle cose umane […] Le antiche e continue divisioni nostre per sbigottirvi […] noi ce ne ricordiamo, […]. Perché in quelle famiglie antiche era tanta grande la potenza, e tanti grandi i favori che le avevano dai principi […] ma ora che lo Imperio non ci ha forze, il papa non si teme e che la Italia tutta e questa città è condotta in tanta ugualità che per lei medesima si può reggere, non ci è molta difficultà». Tratto da: Niccolò Machiavelli, Istorie Fiorentine, Libro III, Cap. 5, in N. Machiavelli, Tutte le opere. Secondo l’edizione di Mario Martelli (1971) [G. C. Sansoni S.p.A., Firenze, 1971], introduzione di Michele Ciliberto, coordinamento di Pier Davide Accendere, Giunti Editore S.p.A. / Bompiani, Milano – Firenze, 2018 (prima edizione digitale), pp. 1673 – 2144: 1816. Dunque, se la fase di governo del Savonarola si caratterizzò come fanaticamente religiosa ed estremisticamente di Parte Guelfa, di converso, la fase successiva di governo secolare condotto da Pier Soderini, a cui Machiavelli partecipò, assunse – come evidente dal corpus di scritti del Segretario fiorentino – caratteristiche invece eminentemente ghibelline.
- In merito vedasi: «Guelfo Dino, come guelfo Dante; questi venuto da’ Grandi, e quello dal Popolo». Tratto da: Dino Compagni, La cronica di Dino Compagni delle cose occorrenti nei tempi suoi e la canzone morale del pregio, a cura di Isidoro del Lungo, Le Monnier, Firenze, 1891, Prefazione, Cap. II, p. VI.
- Machiavelli, Istorie Fiorentine, Libro II, Cap. 7, in N. Machiavelli, Tutte le opere. Cit., pp. 1748 – 1749.
- Ursini, Francesco, Scipione Africano, Publio Cornelio, in Encilopedia Machiavelliana, 2014, in Enciclopedia Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giuseppe Treccani S.p.A., Roma, https://www.treccani.it/enciclopedia/scipione-africano-publio-cornelio_(Enciclopedia-machiavelliana)/, consultato in data: 11/17/2024.
- Sansone, Mario, Farinata, in Enciclopedia Dantesca, 1970, in Enciclopedia Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giuseppe Treccani S.p.A., Roma, https://www.treccani.it/enciclopedia/farinata_(Enciclopedia-Dantesca)/, consultato in data: 17/11/2024.
- Tavoni, Mirko, Dante, in Enciclopedia dell’Italiano, 2010, in Enciclopedia Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giuseppe Treccani S.p.A., Roma, https://www.treccani.it/enciclopedia/dante_(Enciclopedia-dell’Italiano)/, consultato in data: 17/11/2024.
- In merito vedasi: «In line with Cicero’s treatment in De finibus, Dante elects the noble Roman Torquatus as the advocate for Epicureanism in his prose works, the Convivio and the Monarchia. Aside from the pagan Torquatus, Dante identifies four thirteenth-century magnates as ‘disciples’ of Epicurus in Inferno X: the Holy Roman Emperor Frederick II, the influential Ghibelline Cardinal Ottaviano degli Ubaldini, and the Florentine statesmen Farinata and Cavalcante dei Cavalcanti. To this list we may add Guido Cavalcanti who is indirectly associated with Epicureanism and named in the canto. All five of these thirteenth-century personages appear to have been accused of Epicureanism or of the denial of personal immortality during their lives and, by extension, of irreligion and a sceptical attitude towards Christian revelation». Tratto da: Corbett, George, Dante and Epicurus. A Dualistic Vision of Secular and Spiritual Fulfilment, Routledge, London, 2013, p. 42.
- Divina Commedia, in Enciclopedia Online Treccani, in Enciclopedia Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giuseppe Treccani S.p.A., Roma, https://www.treccani.it/enciclopedia/divina-commedia/, consultato in data: 17/11/2024.
- Sasso, Gennaro, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, in Enciclopedia Machiavellinana, 2014, in Enciclopedia Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giuseppe Treccani S.p.A., Roma, https://www.treccani.it/enciclopedia/discorsi-sopra-la-prima-deca-di-tito-livio_(Enciclopedia-machiavelliana)/, consultato in data 17/11/2024.
- Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto X, 118 – 119, in The Divine Comedy, Inferno, tradotto e commentato da Charles S. Singleton, Routledge & Kegan Paul [I ed. Princeton University Press], London, 1971 [I ed. 1970], p. 106.
- Machiavelli, Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, in N. Machiavelli, Tutte le opere. Cit., pp. 2362 – 2377: 2366.