Nel precedente articolo dedicato all’arte di Guido Moroni Celsi, al quale vi rimandiamo per le notizie biografiche sull’autore, ci eravamo addentrati nelle praterie brasiliane – versione sudamericana, con forti tinte tricolori, della più classica epopea western, canonicamente ambientata a nord del Rio Grande. Avevamo visto come il maestro (facendo propria la lezione letteraria delle riviste popolari d’Oltreoceano e dei romanzi di Salgari) fosse stato il primo fumettista italiano a raccontare, con la sua Ulceda, una storia di indiani e cow-boy, trasformandosi così in pioniere e aprendo il sentiero a Rino Albertarelli (con Kit Carson), a Gian Luigi Bonelli (e al suo Tex) e a tutti gli altri cantori nostrani della Frontiera nel Dopoguerra. Ma il nostro non si limitò a questo. Con S.K.1, altra sua celebre avventura esterna al ciclo salgariano, guadagnò un posto di asso nel poker dei primi fumettisti italiani a occuparsi di fantascienza – insieme a Yambo (con Gli Uomini Verdi e Robottino), al trio Zavattini/Pedrocchi/Scolari (che firmarono Saturno contro la Terra) e alla coppia Pedrocchi/Molino (con Virus).
Nuovi mondi
Definire che cosa sia la “fantascienza” non è affatto facile. E crediamo che, nel tentativo, si possa anche sconfinare nel campo del soggettivo e del personale, con il rischio di attirarci critiche e sorrisetti di compatimento da parte degli esperti. In molti si sono scervellati per cercare di piantare i giusti paletti, e se date una scorsa seppur distratta alla Rete vi renderete conto della ridda di teorie formulate. Dunque, ipotesi più, ipotesi meno…
La fantascienza è una delle branche più stimolanti della letteratura “popolare”, detta anche “di genere”, che include anche il giallo, l’horror, il fantasy, il western… e così via. Storie di fantascienza possono essere narrate con il mezzo e il linguaggio del cinema, del romanzo e del fumetto. All’interno del genere fantascientifico possono individuarsi tanti “sotto-generi” e filoni: storie di esplorazioni cosmiche, di guerre galattiche, di viaggi nel tempo, di dislocazioni spaziali, di apocalissi globali, di armi definitive, di robot, di computer, di intelligenza artificiale, di reti informatiche, di mutanti, di organismi cibernetici, di mostri, di ibridi, di alieni, di invasioni extraterrestri, di dimensioni parallele, di realtà alternative, di scelte diverse ai bivi storici, di epoche future, di scienziati folli, di avanzatissime civiltà scomparse, di antichi macchinari, di uomini e animali dai poteri straordinari, di ucronie, di utopie, di distopie, di epidemie devastanti… Rispetto al fantasy – un mondo narrativo contiguo – la fantascienza solitamente introduce nell’intreccio l’elemento tecnologico, rendendolo essenziale e centrale, trasformandolo spesso in esiziale, puntando soprattutto sui disastri che un uso sconsiderato o abnorme della tecnica può provocare; e la soluzione dell’intreccio avviene (quasi sempre) per via scientifica e logica, lasciando (quasi sempre) da parte la magia, il misticismo, il paranormale, il soprannaturale, etc., per rimanere nel tracciato del plausibile, del probabile, dell’impossibile “accettabile”. I “quasi” sono d’obbligo, essendo una storia di fantascienza comunque frutto della creatività e dell’immaginazione, seppur all’interno di un certo “recinto” di attinenza al reale e ai suoi probabili sviluppi, e non risultato di un algoritmo! Inoltre, sconfinamenti fra il fantasy e la fantascienza (e con gli altri reami della letteratura “di genere”) sono numerosissimi. E S.K.1 è proprio uno di questi, a ben vedere…
Sotto il segno della folgore
Il 7 gennaio 1934, sui giornali americani che pubblicavano i fumetti distribuiti dal King Features Syndicate, apparve la prima tavola domenicale a colori della serie “Flash Gordon”, creata dal maestro Alex Raymond. Tale fu il successo di questo personaggio, viaggiatore su mondi extraterrestri, con velivoli e armi dal gusto avveniristico, sempre alle prese con mostri orrendi e con le popolazioni aliene più bizzarre, che si approntarono ben presto edizioni internazionali. In Italia le avventure di Flash Gordon (chiamato inizialmente Gordon Flasce, e poi noto fra noi semplicemente come Gordon, almeno fino agli anni Ottanta, quando si sposò una maggiore filologia e fedeltà all’originale), furono proposte sul settimanale “L’Avventuroso” a partire dall’ottobre 1934. Flash era la risposta del KFS al fenomeno multimediale (inizialmente romanzi e fumetti, e poi cinema e TV) di Buck Rogers, eroe spaziale partorito nel 1928 da Philip Francis Nowlan (libri) e Dick Calkins (strisce).
Le schiere di appassionati italiani di Gordon, grandi e piccini, furono subito numerose, tanto che gli altri editori misero in campo i loro migliori sceneggiatori e disegnatori per contrastare “l’invasione straniera”. Ne scaturirono dei veri e propri capolavori, che avrebbero fatto scuola nei decenni a venire. È il caso del già citato Yambo, pseudonimo del pisano e fiorentino d’adozione Enrico Novelli, uno dei padri nobili del fumetto tricolore. Da un suo romanzo del 1901 (Atlantide, i Figli dell’Abisso) trasse Gli Uomini Verdi, una storia sottomarina alla Jules Verne che partì a puntate su “Topolino” dal n. 139 del 25 agosto 1935 (la testata, tutt’oggi esistente, era appena passata, proprio in quel mese di agosto, dalla casa editrice fiorentina Nerbini alla milanese Mondadori); sul n. 30 della gemella disneyana mondadoriana “I Tre Porcellini” Yambo varò il 17 ottobre 1935 la storia Robottino, il Ragazzo d’Acciaio (avventura del domani con un protagonista meccanico dai poteri simili a quelli di Superman, personaggio creato da Siegel & Shuster nel 1933 che arriverà nel Belpaese, col nome inziale di Ciclone, solo nel 1939), “battendo” in primato fumetto-fantascientifico il nostro Moroni Celsi col suo S.K.1 ben due volte, seppur di pochi mesi!
Alla fine dell’anno successivo, ancora su “I Tre Porcellini” (dal n. 93 del 31 dicembre 1936), è la volta di Saturno contro la Terra, grande epopea fantastica, forse ispirata, oltre che a Gordon, alla narrativa di H. G. Wells, in partenza sceneggiata da Cesare Zavattini, e continuata da Federico Pedrocchi, per i disegni di Giovanni Scolari. Nel 1940 la storia fu persino tradotta negli Stati Uniti (Saturn Against the Earth), uscendo a puntate su “Future Comics”, con tanto di copertine dedicate: fu il primo caso di versione americana di un fumetto italiano, e in anni di rapporti davvero “problematici” fra i due Paesi! Saturno contro la Terra diventerà poi il titolo di una lunga serie (sette episodi in tutto) che si concluderà addirittura del Dopoguerra, nel 1946, e su “Topolino”, dopo il trasloco avvenuto già nel 1937 in seguito alla prematura chiusura dei “Tre Porcellini”. Il 1939 è poi l’anno di Virus, il Mago della Foresta Morta, ideato da Federico Pedrocchi e Walter Molino per “L’Audace” (n. 276 del 20 aprile): la figura dello scienziato folle protagonista della storia, molti anni dopo, servirà da ispirazione a Guido Nolitta (Sergio Bonelli) al momento di creare la figura di Hellingen, azzeccatissima nemesi di Zagor, riesumato per l’ennesima volta nel 2015! Parleremo di alcune di queste opere del “futuro-passato” su queste pagine.
L’avventura va nella stratosfera
Dicevamo di Flash Gordon, e della passione che scatenò nel mondo. Indubbiamente i suoi semi germogliarono in alcune di queste nostre prime nostre storie fantascientifiche di letteratura disegnata, e così in S.K.1 di Moroni Celsi. Il lancio su “Topolino” fu in grande stile, tanto che per le prime quattro settimane di vita della storia Mickey Mouse stesso fu “sfrattato” dalla prima pagina, che coincideva con la copertina a colori ed era naturalmente riservata al titolo di punta; ecco dunque che, dal n. 151 del 17 novembre 1935 al n. 154 dell’8 dicembre successivo, l’opera di Moroni Celsi ebbe riservata una sorta di “tribuna d’onore”. Era l’inizio di un lungo viaggio interplanetario che si sarebbe concluso solo su “Topolino” n. 237 dell’8 luglio 1937. Per quello che ci è dato sapere (a differenza di Ulceda che, come abbiamo visto, ebbe varie incarnazioni editoriali) S.K.1 sarebbe stato integralmente ristampato, con un montaggio diverso delle tavole rispetto all’originale, soltanto nel 1976, in tre fascicoli spillati a colori, sugli “Albi dell’Avventura – Serie Moroni Celsi” nn. 80, 81 e 82 pubblicati dalle Edizioni Camillo Conti di Roma specializzate in riproposte (più o meno!) anastatiche.
Riguardo alla rivoluzionaria decisione mondadoriana di togliere Topolino dal trono regale della testata che portava il suo nome, secondo lo storico del fumetto e giallista di fama Leonardo Gori, che ha dedicato all’argomento vari interventi in Rete e su carta, si trattò di un audace esperimento redazionale, molto probabilmente voluto dallo stesso direttore Antonio Rubino, volto a battere o per lo meno a contrastare la concorrenza del periodico fiorentino “L’Avventuroso”, in quel periodo irresistibile. Questo tentativo di rilancio tramite l’avventura tout court (promuovendola per il momento rispetto alla striscia umoristico-avventurosa propria del pupazzettismo disneyano più maturo) non ebbe evidentemente il riscontro economico sperato ai piani alti: il topo di Walt Disney tornò dunque in prima con il n. 155 del 15 dicembre 1935, facendo slittare in quarta di copertina – dove però conservò i colori – il bel lavoro di Moroni Celsi. Con il n. 201 del 1° novembre 1936, fu riesumato il progetto di puntare maggiormente sul fumetto realistico e d’azione: cambia il “logo” di testata e Topolino viene affiancato dai ritratti degli altri personaggi forti dell’ebdomadario. Nuovo mutamento con il n. 216, quando il periodico raddoppia la foliazione fondendosi con “I Tre Porcellini” (che aveva chiuso con il n. 98): spariscono le immagini dei personaggi non disneyani ma appare al loro posto, a sottolineare la nuova “tendenza narrativa” del giornale, la vistosa scritta in ciano tipografico “grandi avventure”. Guido Moroni Celsi e il suo S.K.1 sono dunque i testimoni di un momento epocale di passaggio definitivo, anche editoriale, nel panorama fumettistico italiano dalla iniziale vocazione narrativa buffa e fanciullesca, inaugurata dal “Corrierino” agli inizi del XX secolo, a quella più adulta: azione, giallo, pericolo, scienza, tecnologia, paura… e persino eros!
Il volo del trimotore
Con la prima puntata, intitolata Nella stratosfera, inizia così il volo fantastico del trimotore S.K.1 ideato dal Professor Franco Vela. Il luminare è assistito dalla figlia Iole e l’aereo/laboratorio capace di raggiungere altitudini prima impensate èn pilotato dall’Ingegner Varo Vaschi. L’italianità più che evidente dei nominativi, sui quali ritorneremo più avanti, non deve stupire: il fumetto italiano degli anni Trenta decide fin dall’inizio di puntare su una sua autonomia culturale, e non solo linguistica, anche quando semplicemente traduce prodotti allogeni. I nomi, italici e popolari, dei personaggi comunicano con immediatezza al lettore che l’ambientazione potrà anche essere inusuale, che ci possono anche essere apparentamenti di stile e di impianto del soggetto e della sceneggiatura con la scuola americana, amica-nemica – ma che si tratta comunque di un fumetto d’Italia.
Come ben si addice a un racconto a puntate, seriale, che non può permettersi di perdere l’interesse del fruitore, ci troviamo subito immersi in panorami alieni. Un po’ di sana ingenuità non guasta, essendo S.K.1 ancora molto lontano, per evidenza cronologica, da quelle che saranno le magistrali prove di “fantascienza dura” (hard science-fiction in inglese) a partire soprattutto dalla narrativa degli anni Sessanta, quando autori come Arthur C. Clarke decisero di accentuare nei loro romanzi il rigorismo scientifico, tale da rendere ancor più plausibile lo scritto, evitando però di scadere nel pedante e nel didascalico.
L’opera di Moroni Celsi non ha queste pretese e il gruppo di pionieri stellari osserva che il registratore delle onde elettromagnetiche sembra impazzito… risentendo di influenze sconosciute… Il velivolo viene attirato, a motori spenti, verso un ammasso di vapori a forma sferica… correndo a 700 km/h fino a entrare in una massa oscura di materia cosmica… un pianeta ignoto, non si sa quanto lontano dal nostro, brullo, roccioso, popolato da mostri stupefacenti e genti aliene. Nessuna spiegazione (fanta)scientifica per questo improvviso balzo dalla stratosfera terrestre a una landa così sconosciuta. Se non ci arrampichiamo su per l’impervio sentiero del simbolismo e della metafora, la transizione dell’S.K.1 ricorda alla lontana l’ingresso di Dante nel dominio dell’Oltretomba, smarrendo la dritta via in una non ben precisata selva oscura. Il tutto condito con reminiscenze grafiche dalla Divina Commedia illustrata da Gustave Doré fra il 1857 e il 1867.
La dinamica di partenza è piuttosto simile a quella iniziale della saga di Flash Gordon. Del resto anche i protagonisti un po’ si somigliano, anche se non sono del tutto sovrapponibili: il prof. Vela ha la sua controparte nel dr. Hans Zerkov, Iole si rispecchia nella giovane Dale Arden e Varo Vaschi riassume molte caratteristiche di Flash. Ma questo non deve impensierire più di tanto: Moroni Celsi non è accusabile di plagio. Il terzetto costituito dallo scienziato/mago, padrone di una sapienza non alla portata di tutti, dalla damigella in pericolo e dall’eroe/cavaliere attraente, prestante e impavido, pur trovandosi anche nell’opera di Alex Raymond, è composto di figure codificate, canonizzate, ancestrali – quasi da canzone trobadorica, da saga del Graal, da Minnedienst. Stesso discorso per le altre apparizioni, che ammantano di un fascino epico la vicenda. Il dinosauro che compare nella quarta puntata ha il suo antenato nel drago/guardiano che occorre sconfiggere per andare oltre, per arrivare al tesoro, per crescere, per evolversi. Un rettile, all’apparenza invincibile, con il quale devono misurarsi sia Flash che Vasco all’inizio della loro avventura; e nessuno di loro riuscirà a sconfiggere tale pericolo ferino, salvandosi solo grazie a un intervento esterno. Come vedremo, tutta la vicenda dei tre dell’S.K.1 sarà una sorta di calvario irto di difficoltà che dovranno percorrere per poter ritrovare la via di casa. E poi ci sono i dominatori. Due sono quelli inventati da Moroni Celsi: Cabro, l’Imperatore dell’Acciaio, e Cinabro, l’Imperatore del Ferro, a capo degli omonimi regni. Per Flash Gordon è invece Ming, Imperatore dell’Universo, dai tratti vagamente mongolici e dalla carnagione innaturalmente gialla.
Anche le altre razze che popolano il pianeta – e più avanti entreremo nel dettaglio – miscugli fra uomini e belve, più o meno costruiti artificialmente, sono caratteristiche dei primi fumetti di fantascienza, Gordon in testa. Moroni Celsi, preferisce muoverle quasi esclusivamente in ambienti sotterranei a sottolinearne la differenza in negativo e l’inferiorità e sudditanza biologico-culturale rispetto agli “imperiali” di superficie.
Un antico futuro
Se lo sfondo di Flash Gordon è soprattutto tecnologico, almeno nelle tavole di apertura del 1934, con gran dispendio di armi a raggi, razzi e dischi volanti, S.K.1 ha un’impostazione più legata alla tradizione classica, italiana ed europea. Più fantasy, per usare un linguaggio moderno. Dopo il misterioso incidente occorso al velivolo appena superati i ventimila metri di altezza i tre dell’S.K. 1 sono costretti a lanciarsi col paracadute; lo slancio porta Vasco lontano da Iole e dal Professore; il terzetto atterra, seppur a distanze diverse, su un nuovo pianeta, attirati dalle potenti calamite del Popolo del Regno del Ferro dopo che il trimotore aveva violato il campo magnetico che fungeva evidente da “confine di stato”. Il trimotore rosso esce misteriosamente di scena per riapparire intatto – altrettanto misteriosamente – solo alla fine della storia. Il mondo alieno è diviso in due “super-potenze”, come accennavamo, quella dell’Acciaio e quella del Ferro; Iole e suo padre vengono fatti prigionieri dalla gente dell’Impero del Ferro, mentre il pilota cade nella rete dell’Acciaio. I guardiani di frontiera di entrambi i Paesi sono nerboruti, semi-selvaggi e di pelo rosso! E da questo momento in poi i nostri tre avventurieri assisteranno a ogni sorta di prodigio – incontrando inaspettate cose, animate o inanimate…
a) La sacra spada e altre mirabilia
L’avventura di Moroni Celsi è caratterizzata dall’apparizione di numerosi oggetti sacri, talismani, strutture, armi, architetture, statue, idoli, paramenti che introducono il lettore in una dimensione fantastica dove il futuribile e il moderno (ricordiamo, per esempio, le potenti calamite…) si fondono con l’antico in un meraviglioso groviglio. I tridenti che brandiscono i guardiani del Ferro ricordano l’arma di Poseidone e di Nettuno, capace di creare vita dalla schiuma del mare, oppure di distruggere; rammentano anche il trishula di Shiva; ricordano financo la runa algiz, la runa della vita e della protezione, della parte alla luce dell’albero irminsul, dell’uomo vincente con le braccia alzate… Una forte valenza simbolica, dunque, nel tridente, annullata con l’arrivo del cristianesimo, e svilita, fino a farne l’arma prediletta del diavolo! L’arma adottata dalla tribù sotterranea degli uomini-tigre è invece la falce da guerra, forse mutuata da quella in uso presso i Traci, o da discendenti tedeschi medievali, seppur forgiata più curva nella lama rispetto all’ordigno tradizionale, e in questo più simile a un falcetto agricolo posto in cima a un lungo bastone.
L’ingresso alla reggia del Ferro è superbamente monolitico, con una serie di porte ad arco su una ripida scalinata! Ogni porta di pietra è costituita da due ciclopici pilastri che reggono con semplice incastro una titanica architrave; l’aspetto è del tutto simile a un dolmen o, più precisamente, a una parte di un cromlech com’è quello di Stonehenge. Sullo spiazzo antistante al palazzo regio del Ferro sorge un idolo a forma di bue, dalle evidenti reminiscenze bibliche (il “vitello d’oro”).
Il trono dell’Imperatore dell’Acciaio, con il disco solare a doppia raggiera suggerisce un culto nordico, celeste, un riferimento al Sol Invictus; quello dell’Imperatore del Ferro, con ali e simboli della ruota rimanda invece alle divinità siriache, fenicie (come Yaw), ctonie… anche se il suo elmo, cornuto alla vichinga, è pure coronato da raggi solari.
In una tomba simil-nuragica viene custodito un sarcofago sulla quale è poggiata la sacra spada-talismano Salambò. Il sarcofago è decorato con quelli che Varo chiama “geroglifici”, ma che sembrano più lettere dell’alfabeto runico, almeno a prima vista; il gladio che permette a Vaschi di soggiogare i bestiali esseri di guardia alla cripta ha lo stesso nome della figlia del cartaginese Amilcare Barca (padre di Annibale) secondo il romanzo di Gustave Flaubert pubblicato nel 1862, che ispirò anche il celeberrimo film italiano Cabiria del 1914, sceneggiato da D’Annunzio.
In onore del mostro adorato dagli uomini-salamandra, la Sacra Salamandra Gigante,è stata scolpita nella viva roccia vulcanica una statua a grandezza naturale,che riproduce le fattezze dell’abominio anfibi in maniera tanto perfetta da parer viva.Il monumento è cavo e al suo interno una scala conduce in vasti ambientisotterranei, che costituiscono un tempio dedicato a tale viscida divinità.
Per giungere nello habitat degli uomini-talpa occorre scenderedauna ciclopica scala fatta di massi cubici accatastati, che pare il Selciato del Gigante, di origine vulcanica, una delle meraviglie dell’Irlanda del Nord.Un nuovo accenno di Moroni Celsi alle costruzioni megalitiche.
b) La magia del nome
I nomi delle persone, delle cose e dei luoghi sono centrali in S.K.1. Il più misterioso è proprio il codice alfanumerico del rivoluzionario trimotore stratosferico. Non ci è dato sapere cosa significhino le due lettere, anche se la cifra “1” è sicuramente riferita al primo modello, all’ipotetico prototipo del velivolo. Forse Moroni Celsi ci invitava a leggere il titolo della storia e il nome dell’aereo, in un’unica parola, con un un pizzico di fantasia grafica, un po’ all’inglese, come fosse SKY (“cielo”)? Chissà…? Singolarmente, ma talvolta le coincidenze possono essere significative, la S.K.1 (ovvero Skafandr Kosmicheskiy 1) sarebbe stata la prima tuta spaziale in assoluto, indossata da Yuri Gagarin durante il suo celebre volo orbitale del 1961.
Come abbiamo detto gli appellativi dei tre protagonisti italiani sono davvero… italianissimi. Franco Vela: il nome, che significa “appartenente al popolo dei Franchi”, origina dalla radice germanica franc (lancia, giavellotto); il cognome è di origine piemontese (celebre lo scultore ticinese ottocentesco Vincenzo Vela, attivo all’ombra della Mole), ma è diffuso soprattutto in provincia di Napoli e di Roma. Iole Vela: il nome, talvolta scritto Jole, viene dal greco ion, che sta per “viola” (il colore o il fiore che sia), ed è uno dei pochi che non ha… santi in calendario. Iole era la figlia di Eurito, re di Acalia, amante di Eracle. Varo Vaschi: l’origine del nome è nel latino Varus, che si riferisce (come in altri casi) a una menomazione fisica, nella fattispecie alle gambe storte; “varo” è infatti un termine italiano desueto per “curvo”, usato da Dante nel senso di “gibboso”; Vaschi è invece un cognome della nobiltà romana medievale.
Cabro è l’Imperatore dell’Acciaio, presso il quale viene condotto Varo Vaschi. Uomo possente, siede su un trono solare. Il suo nome ricorda quello latino del “calabrone”.
Cinabro è il nome dell’Imperatore del Ferro, i cui uomini – i Cinabriti – catturano i due Vela. Il suo trono è imponente, fiancheggiato da due ali. Il cinabro è il minerale dal quale si estrae il mercurio separandolo dallo zolfo; importantissimo, centrale nella sapienza alchemica, tanto che Julius Evola intitolò la sua biografia Il cammino del cinabro; usato come colorante rosso, poteva venire associato idealmente, nelle pitture e negli affreschi murali, al sangue; il termine deriva dal latino cinnabaris, proveniente a sua volta dal greco, col senso di “maleodorante”, in riferimento all’odore penetrante che esala il minerale durante la lavorazione a fuoco estrattiva. Sua figlia è la Principessa Acra, che si chiama come l’antica fortezza ellenistica di Gerusalemme edificata sotto Antioco IV. Si tratta di una donna energica, con alcuni tratti presi dalle Valchirie del pantheon nordico: combattiva, vendicativa, forte, audace, ma poco incline a sentimenti di amicizia e riconoscenza. Il sacerdote Quario prende invece in prestito in cognome di un’antica famiglia trentina, oggi diffusa nel Settentrione italiano.
Una delle figure prominenti della “tribù” dei licantropi porta il nome di Ùpupo, che diventerà il più grande e fedele alleato di Varo Vaschi sul nuovo pianeta. Ovviamente c’è il gioco della rima (Ùpupo, l’uomo-lupo), ma le motivazioni della scelta sono anche altre. Grazie a (o per colpa di, secondo i gusti!) Ugo Foscolo, che nei suoi Sepolcri sposa l’upupa alla notte e alla morte, Moroni Celsi è certo, con la scelta di questo appellativo, di suscitare nel lettore un’immediata associazione tra lupo mannaro e tenebre, visto che quella gente vive nel mondo sotterraneo. Così, infatti, il Foscolo: …e uscir del teschio, ove fuggia la luna, / l’úpupa, e svolazzar su per le croci / sparse per la funerëa campagna / e l’immonda accusar col luttüoso / singulto i rai di che son pie le stelle / alle obblïate sepolture. C’è da dire che l’upupa è al contrario un uccello diurno, e anche dalla livrea piuttosto affascinante; ha però la “cattiva” abitudine di riempire il nido di brandelli di rifiuti in putrefazione per allontanare eventuali predatori (in Toscana viene anche detta familiarmente “bubbola” e tale terminepuò essere usato come sinonimo di “sporco” o di “sporcaccione” – se così viene chiamata una persona, per offenderla). Montale, in una sua celebre composizione, avrebbe rivalutato il volatile: Upupa, ilare uccello calunniato / dai poeti, che roti la tua cresta / sopra l’aereo stollo del pollaio / e come un finto gallo giri al vento; / nunzio primaverile, upupa, come / per te il tempo s’arresta, / non muore più il Febbraio, / come tutto di fuori si protende / al muover del tuo capo, / aligero folletto, e tu lo ignori.
c) Minacciose creature
Il primo mostro è affrontato dall’indomito Varo Vaschi. Come accennavamo prima, un dinosauro che ricorda molto da vicino il drago delle saghe nordiche. Essere tutt’altro che maligno in epoche ancestrali, con il suo sangue dalle potenti virtù curative, è stato poi associato nella decadenza cristiana al demonio e all’incarnazione stessa del male.
Ecco poi il Polipo Sacro, gigantesco cefalopode che pare tratto di sana pianta da Ventimila leghe sotto i mari di Verne (1870): viene usato nella reggia di Cinabro per i sacrifici umani, ma viene facilmente sconfitto da Varo. Oltre alle influenze letterarie francesi si sentono in questa figura chiari accenni scientifico-realistici. Esiste infatti veramente un polpo gigante, l’Enteroctopus dofleini, attivo nel nord-pacifico: ne sono stati avvistati esemplari che sfioravano, a tentacoli distesi, i 10 metri di lunghezza, per quasi tre quintali di peso!
Inventato di sana pianta, anche rispetto alle più nobili leggende, è invece il Mostro delle Antiche Caverne che, come dice Varo, sorpassa la più orrenda fantasia. È infatti una sorta di chimera, un collage fra un gigante umanoide, uno scimmione e un dinosauro – con tanto di cresta che, dalla sommità della testa, gli scende giù fino alla punta della coda. Ha dei tratti buffoneschi, tanto che lo vediamo tirar fuori la lingua e atteggiare smorfie sorridenti. Troverà il suo antagonista perfetto in un rettile antidiluviano dal muso a becco di grifone, anche lui abitatore delle spaventevoli grotte che ricoprono il pianeta. Da notare che questo mostro cavernicolo ghermisce gli umani esattamente come faceva il titanico gorilla protagonista di uno dei più grandi successi cinematografici di tutti i tempi, King Kong del 1933… E non solo: in alcune mirabili sequenze la scimmia spropositata,come avrebbe poi fatto anche la creatura di Moroni Celsi – lotta contro tutta una serie di dinosauri che infestano l’isola del colosso, una sorta di “mondo perduto” alla Conan Doyle.
Il Mostro dell’Acquario viene invece nutrito con i prigionieri dagli ibridi ittico-rettiliani detti uomini-pesce: è una sorta di grassa iguana acquatica che vive in un ambiente chiuso il cui fondale è disseminato di scheletri umani fatti a pezzi.
Orus è invece un “felino da caccia” al servizio delle Truppe Imperiali del Ferro: si tratta di una sorta di tigre dai denti a sciabola, che si differenzia dal preistorico smilodonte per un corno piazzato in fronte, in stile rinoceronte. Dopo un combattimento durante la quale ha la peggio, la bestia viene curata a una zampa da Iole e da questo momento diventa più docile di un cucciolo e fedele alla sua salvatrice, seguendola fino alla fine dell’avventura e facendo più volta da deus ex machina in situazioni difficili: anche qui i riferimenti all’animale feroce che viene ammansito grazie alla medicina si sprecano – nella favolistica e nella letteratura religiosa e sacra. Il nome è preso da Horus, la divinità egizia dalla testa di falco.
Nemesi degli abbrutiti uomini-talpa che infestano certe grottedalla foggiainfernale è il Mangiatore di Talpe, l’ennesima figura di incrocio fra dinosauro e drago (in questo caso cinese, col suo lungo collo) scelta da Moroni Celsi come spauracchio per antonomasia. Questa popolazione è terrorizzata anche da un gigantesco aracnide, lo Scorpione delle Caverne, del tutto simile a un Euscorpius Italicus ipertrofico.
Gli uomini-salamandra, popolo anfibio che vive in riva a un lago incastonato nella roccia, adorano le Sacre Salamandre Giganti, nutrite a suon di pescioni: si tratta di esemplari gargantua del ben noto animale nero e arancione, diffuso anche nello Stivale.L’altro mostro che infesta il regno degli anfibi umanoidi è il Serpente Acquatico, gigantesco esemplare di serpente marino, creatura della criptozoologia, innumerevoli volte avvistate negli oceani e nei laghi, fin dall’ancestrale Leviatano.
d) Uomini e meno
Come abbiamo detto, gli uomini e le donne dei due Imperi di superficie – che si contendono il pianeta ultraterreno, dominando i vari esseri ibridi e de-evoluti delle interminabili caverne che traforano il sottosuolo – hanno caratteristiche umane, di razza bianca, europoide. Altro discorso deve farsi per gli uomini-scimmia, gli uomini-lupo e gli altri esseri più infimi. Sono questi orridi abomini prodotti in laboratorio, mediante operazioni misteriose, dal sacerdote cinabrita Quario, veri e propri golem, robot in carne-e-ossa destinati alla guardia del corrotto Impero del Ferro. C’è una diretta allusione al romanzo proto-fantascientifico di H. G. Wells, L’isola del Dr. Moreau del 1895, nel quale uno scienziato folle trasforma gli animali in esseri semi-senzienti e umanoidi; da quel libro fu tratto un primo film di grandissimo successo già nel 1932 (L’isola delle anime perdute, con Bela Lugosi). Gli uomini-scimmia, dai tratti e dalla pigmentazione negroidi, strisciano nei cunicoli sotterranei della cripta della spada Salambò, fungendone da guardiani; anche i lupi mannari vivono sottoterra, in grotte ferine. Nella narrativa e nella cinematografia fantastiche il licantropo ha da sempre avuto un ruolo centrale, ed è ancora oggi molto amato (o temuto!) dagli appassionati del brivido letterario. L’associazione è sempre con il crimine ignominioso del cannibalismo e l’origine è antica, nel mito greco di Licaone, trasformato da Zeus in un uomo-lupo divoratore di uomini per la sua condotta criminale.
Sott’acqua, in un profondissimo lago vulcanico, vivono invece gli uomini-pesce, riuniti in un principato. Hanno allestito un’Atlantide in miniatura – o meglio, una parodia della gloria di Atlantide. Un’incongruenza di Moroni Celsi è il casco (a ossigeno?) che questi tritoni e sirene indossano, quasi fossero in realtà rettiliani, incapaci di respirare nel liquido, ma sprofondatisi comunque volontariamente in quell’abisso. Anche qui (come nel caso degli uomini-scimmia e degli uomini-lupo) siamo di fronte a un’ibridazione che non porta a niente di buono: questi esseri squamosi sono piuttosto feroci con gli estranei e non esitano a gettare i nuovi venuti in pasto a orrende creature divoratrici d’uomini.
Loro parenti stretti, anch’essi collocati in ambiente lacustre, sono gli uomini-salamandra, spaventosa razza anfibia (forse un altro degli esperimenti dei Cinabriti) che vive a pelo dell’acqua. Cosa strana (ancora un piede messo in fallo dall’autore) è il Gran Sacerdote del culto della Sacra Salamandra Gigante: non ha i tratti anfibi dei suoi compari, sfoggiando invece gli stessi lineamenti e le stesse caratteristiche fisico-corporee degli uomini di superficie.
Un’allusione a un altro romanzo di H. G. Wells potrebbe poi riscontrarsi negli uomini-talpa che abitano una serie di caverne alle quali si accede da un ingresso che sembra la porta dell’Inferno dantesco. Questi uomini-talpa, più che frankenstein costruiti a tavolino dai Cinabriti, sembrano cugini dei Morlock wellsiani, i terribili uomini de-evoluti e cavernicoli del romanzo La macchina del tempo, essendo il risultato di una sorta di processo degenerativo che ha colpito una comunità che un tempo abitava nei paesaggi a cielo aperto. La loro organizzazione ricorda quella di alcune delle tribù indiane più primitive del Nord-America: il loro capo sfoggia tanto di piuma regale sulla testa. Sono però infidi, vili e traditori: dopo che Varo Vaschi li ha liberati dai mostri dai quali scappavano da generazioni, rifugiandosi sempre più nelle profondità rocciose, vorrebbero sequestrarlo per sempre e usarlo come loro personale “eroe per forza”… Non ci riusciranno!
Stesso discorso per gli uomini-tigre: una tribù di bianchi che ha scelto di amministrarsi diversamente e autonomamente rispetto ai due imperi “metallici” di superficie: vivono anch’essi in un dedalo di caverne rocciose indossando pelli di tigre a copertura quasi integrale del corpo. Sono alleati, e forse addirittura servi, degli uomini-salamandra.
A riveder le stelle
Fra le incongruenze (come il casco da palombaro indossato sott’acqua dagli acquatici uomini-pesce) e le simpatiche ingenuità della storia è da catalogarsi anche la particolare scelta grafica fatta da Moroni Celsi per le onomatopee, i suoni che vivacizzano il fumetto, essendo parte essenziale del linguaggio fumettistico stesso, e che solitamente appaiono nella vignetta, molto visibile e “sospese nel vuoto”; in S.K.1 sono invece quasi sempre inserite anch’esse, piccole ed esili, come i dialoghi, nelle “nuvolette”. Tale bizzarra soluzione poteva addirittura trarre in inganno il lettore, potendo qualcuno addirittura credere che fosse il protagonista a fare, a “mimare” quel suono – come quando i bambini giocano alla guerra, emmettendo con la bocca il rumore delle armi!
Stona infine, per la sua frettolosità, la conclusione. L’avventura di S.K.1 è lunga, articolata e a tratti anche complessa; è ricca di spunti, di ambienti, di personaggi, di colpi di scena; gli eroi protagonisti (e anche alcuni fra gli antagonisti più valorosi, come la principessa Acra) sperimentano tutta una serie di vittorie e rovesci di fortuna, percorrono e superano, fra mille difficoltà, ostacoli in sequenza (come in un videogioco di oggi, quale Prince of Persia); lottano incessantemente, uccidono decine di uomini e sub-umani, sbaragliano mostri a frotte, vengono imprigionati e incatenati, ricevono ferite gravissime, cadono, svengono… Dopo tutto questo gran daffare, quando il terzetto di trasvolatori interplanetari riesce per l’ennesima volta a riunirsi (con l’aggiunta del canide Ùpupo e del felino Orus) sfuggendo alla caccia cinabrita, e a risalire di nuovo un camino roccioso che porta all’esterno, il trimotore è pronto lì ad aspettarli, come un bravo destriero! Non ci è dato sapere come sia atterrato, anche se forse è dovuto alle possenti calamite dei Cinabriti, e soprattutto – perché l’avventura si interrompe bruscamente – non sappiamo come facciano i nostri eroi a tornare sulla Terra, invertendo quella sorta di “teletrasporto magnetico” che in principio li aveva condotti su quel mondo sconosciuto.
Rimangono dunque tanti misteri insondabili, con questo fulmineo finale, ma forse è meglio così: che il lettore resti col fascino del dubbio, che si cerchi da solo le risposte, e che assapori meglio quelle ultime vignette, nelle quali i protagonisti, bramando l’aria e la luce dopo un’infinità senza tempo trascorsa sottoterra, escono fuori tra fumi e vapori vulcanici in una figurazione alla Doré, come quella iniziale, prettamente dantesca, a riveder le stelle.
Francesco Manetti
P.S. Desidero ringraziare l’amico scrittore e fumettista Leonardo Gori, per l’aiuto che mi ha dato per la cronologia di “S.K.1” e il sito Collezionismo Fumetti per alcune delle immagini di corredo e i suoi preziosi dati sulle testate.