“Noi non scegliamo affatto. Il nostro destino sceglie. Ed è saggezza mostrarci degni della sua scelta, qualunque essa sia“.
(Romain Rolland)
Vi sono oasi nella vita non infette dall’ansia di cambiar le cose. Fresche sorgenti di semplicità, all’ombra di un inconscio quieto e sicuro di sé. In quei rari momenti non chiediamo quali pene ci porterà il domani o cosa fare per propiziarci il futuro. È lì che vorrei rifugiarmi quando un anno finisce e un altro comincia; quando imperversano gli oroscopi, i consigli e le raccomandazioni degli esperti; quando si vedono fiorire tutti quei buoni propositi per l’anno a venire, che subito appassiscono, e si scatena l’orgia dei bilanci e dei progetti, delle previsioni e delle congiunzioni, degli stereotipi sulle crisi e le opportunità.
Per altro, mi stupisce vedere come la gente confonda l’ordine delle cose. Infatti, pensa di essersi lasciata alle spalle un altro anno. Ma il passato non è mai alle nostre spalle, è sempre davanti a noi. In caso contrario non potremmo vederlo. Dietro di noi c’è il futuro che ci insegue, ci trafigge come un lampo e ci supera, diventando subito passato. Se potessi voltarmi ne vedrei la corrente impetuosa, mentre si avvicina e rapidamente mi attraversa.
Il tempo scorre dal futuro al passato, ma sembra che la mente, come uno specchio, rifletta le cose alla rovescia, trasformando la destra nella sinistra. Perciò crediamo che il tempo vada dal passato verso il futuro, come questo testo va da sinistra a destra. Immaginiamo che nel passato vi siano le cause e nel futuro gli effetti, come in un discorso sembra che le parole derivino per necessità logica da ciò che le precede. Ma è esattamente il contrario. È la fine del discorso – l’orientamento delle sue ‘conclusioni’ – a decidere la strada che le parole devono prendere.
Così il futuro crea il passato, lo trae dalle sue profondità infinite. Il domani è il luogo della libertà e della possibilità, dove le Idee dimorano in attesa di manifestarsi. Ma quando il futuro ci si rivela, prende la forma di un ‘fatto’, cioè di una cosa finita e passata, e noi immaginiamo sia legato a una catena di cause antecedenti. Questo è naturale, dato che la coscienza è il passato. Quello di cui siamo coscienti è sempre passato. Se guardiamo una stella lontana, è un passato forse di milioni di anni. Ma anche quando ci osserviamo in uno specchio vediamo una nostra vecchia immagine. La coscienza è solo un riflesso, simile a un’ombra o un’eco.
Non possiamo vedere il nido divino delle cose. Perciò pensiamo di essere noi a porre oggi delle cause per riscuoterne domani gli effetti. Ma non potremmo far nulla se il destino non ce ne fornisse i mezzi e le intenzioni. Niente ha origine dal passato. È il futuro che ci plasma, come un artista tocca le nostre corde e le fa vibrare, ora con dita ruvide e callose, ora con morbide carezze.
Se presumo di poter agire sul futuro è perché lo immagino come qualcosa che ancora non esiste. Reali per me sono solo i dati depositati nel passato, che la mia coscienza può vedere. E operando su quelli son convinto di determinare l’avvenire. Perché questa illusione funzioni devo però concedermi un certo margine: giorni, ore, secondi. Nessuno crede di poter condizionare quello che accadrà fra un millesimo di secondo, perché prima di poterci pensare è già passato. Se metto una sufficiente distanza tra me e il futuro ho invece la sensazione di poterlo controllare. Ma per quanto dilazioni i tempi, il futuro mi anticipa sempre. Quello che faccio o penso ora è qualcosa che stava nel futuro un attimo prima che io ne divenissi cosciente. Non posso in nessun caso superare il limite della mia coscienza, che è quello di riconoscere solo ‘stati’. Non può cogliere l’essere che li precede, e che rappresenta la fatalità, il vivente futuro.
La coscienza immagina anche il tempo come uno ‘stato’ e così crede di poterlo manipolare. Traccia una linea che va da un punto A a un punto B e pensa di trovarsi ora qui, ora là, come camminando su una strada, in un punto presente e indefinibile, che ha dietro di sé infiniti momenti passati e davanti a sé infiniti momenti futuri. Ma come potremmo agire in un passato che non esiste più? O nel futuro che non esiste ancora? Resta il presente. Ma il presente dov’è? In un metro, un centimetro, o in un milionesimo di millimetro del percorso? Non possiamo stabilirlo. In questo modo il tempo diventa paradossale. Il presente è inconcepibile, perché svanisce nell’infinitamente piccolo. Quindi anche passato e futuro non esistono. Se questa comune idea del tempo corrispondesse alla realtà, saremmo condannati all’immobilità assoluta.
La nostra esperienza ci dice invece che le cose cambiano, avvengono e passano. Ma questo cambiamento non può avvenire in un tempo morto, fatto di punti e linee. Dobbiamo uscire dai limiti di una coscienza contratta nello spazio del ‘finito’. Il cambiamento è possibile solo perché, oltre e prima di questa coscienza pietrificante, esiste un’infinita e vitale fatalità.
Tutto il nostro mondo è governato dalla fatalità. ‘Fato’ viene da fari, dire. Il destino è infatti un discorso, in cui il passato è il ‘detto’, e il presente un ‘dire’ infinito che sgorga dal futuro. La nostra coscienza si attacca al ‘detto’ e non vede l’Inconscia fatalità, fonte delle Idee e del vivo avvenire, da cui tutto fluisce. La vita infatti è inconscia. Nella coscienza si depositano solo le sue immagini, come orme lasciate passando.
Procedendo dal futuro al passato, ovvero dal dire al detto, l’Inconscio non segue una legge di causalità. Se dice ‘morte’, è necessario che ponga la m prima della o e dopo questa la r ecc. Ma la m non è causa della o e la t non è effetto della r. Questo vale per le lettere in una parola come per le parole in una frase, per le frasi in un discorso ecc. Non è per una sequenza di cause che chi nasce deve necessariamente morire. In realtà, essendo già morti, dobbiamo nascere e invecchiare.
Natura di questo Inconscio è l’essere eternamente libero e creativo. È una libertà che non appartiene all’io empirico ma al suo inconoscibile fondamento soggettivo. Questa libertà si manifesta anche nel flusso interiore dei nostri fenomeni mentali. Parole, ricordi, sogni, emergono da profondità insondabili, inaccessibili alla coscienza. Salendo verso la superficie divengono ‘dati’, ‘fatti, oggetti conosciuti. Ma l’Inconscio da cui nascono è una realtà senza forma e luogo. Per questo, nonostante il precetto delfico, nessuno può conoscere sé stesso. Perché il nostro vero essere, il fondo della nostra anima, non è mai un ‘dato’ o un ‘fatto’ ma sempre un ‘farsi’, una realtà che si autogenera momento per momento.
Il destino siamo noi, non è un insieme di casualità, né un’entità che ci obbliga, tirando i nostri fili come fossimo marionette. È l’esplicazione nel tempo di ciò che la nostra anima implicitamente possiede in un eterno presente. Tutto quello che ci accade ci appartiene da tempo immemorabile. Il destino ci rivela solo ciò che siamo e il futuro ci reca i messaggi della nostra stessa anima.
Quindi, le cause sono nel futuro e gli effetti nel passato. Ma la storia, la scienza, la psicanalisi, tutta la cultura si basa sul riflesso capovolto della mente. Anche la religione insegna che la salvezza futura dipenderà dalle buone opere passate. In realtà questa idea è assurda quanto credere che meditando diventeremo un Buddha. “Se io mi pento, Dio mi perdonerà?” “No. Se Dio ti perdona tu ti pentirai”. Questa sublime risposta rimette le cose al giusto posto.
L’uomo si illude di essere al timone della sua vita, di poterla guidare tra i venti e le correnti del destino. E in fondo è meglio che lo creda. Solo pochi capirebbero che fatalità e libertà coincidono, che anche in un mondo fatale le nostre faccende vanno avanti nel solito modo e che ognuno conserva la responsabilità delle sue scelte. Gli altri scambierebbero la fatalità col fatalismo; molti cadrebbero nell’angoscia della predestinazione, nell’indolenza o nella sfrenatezza.
Quindi, meglio che la gente si illuda. In fondo, anche le illusioni esprimono un’inconscia libertà. Da bambini crediamo ci abbia portati la cicogna. Una volta cresciuti, ci illudiamo di poter decidere il nostro futuro. Non vediamo che tutto, dal concepimento alla morte, è frutto della fatalità. La libertà che conosciamo è vincolata alle condizioni della nostra coscienza. Ma la vera libertà è per sua natura inconscia, libera proprio perché sconosciuta. Per questo, è il nostro ignoto destino che ci rende liberi.
Questa libertà inavvertibile, che si può solo vivere, è l’antidoto a una coscienza incardinata sull’ambizione di conoscere e controllare la realtà. L’uomo cerca la libertà nel sapere, nella potenza delle formule e delle tecniche. La fatalità contraddice questa volontà di dominio dell’io, spezza la sua identificazione con il potere. Perciò la nostra società preferisce specchiarsi nel pensiero magico, storico o scientifico, che le promette un’appropriazione di saperi e di ‘forze’.
Tutto il futuro è, per così dire, raccolto in una memoria divina, come un serpente arrotolato su sé stesso in procinto di svolgere le sue spire. I cicli del tempo, la creazione e la distruzione di universi, ogni cosa è perfetta. Ma c’è sempre qualcosa nell’opera di Dio che pensiamo di poter migliorare. L’uomo si illude di farsi da sé e non vede quella libertà che non dipende dalle sue intenzioni, che l’ha concepito, fatto nascere e crescere, formato in lui organi di senso e di pensiero, che gli ispira le idee e conserva i ricordi, gli dona una vocazione per cui vivere e una ragione per morire.
Tuttavia, v’è in noi una luce che in rare occasioni illumina il lato mistico del mondo. Allora tutto appare com’è – perfetto – anche il male. Non ci si preoccupa quindi di cambiare qualcosa. Non si evade in un mondo di visioni o di progetti ma si accetta con naturalezza quello che c’è. La smania di fare si trasforma in un’ardente pazienza; l’amore per la vita si concilia con un grande distacco e il destino scorre in noi senza trovare resistenza. È in quei rari momenti che appare la calma, sobria e monotona estasi del presente.
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