“… I veri rappresentanti d’uno spirito scientifico erano dunque loro, gli arcaici;
non noi che crediamo di poterci servire delle forze naturali a nostro piacimento,
e dunque partecipiamo d’una mentalità più vicina alla magia.
Il coincidere col ritmo dell’universo era il segreto dell’armonia,
“musica” pitagorica che ancora in Platone regola l’astronomia come
la poesia e l’etica. Ma è anche il senso della necessità, quello
che risorgerà in mutata forma
con Keplero, Galileo, Bruno, ‘in cui l’intelletto si apre a fini
che non son più limitatamente umani,
e si sente di abbracciare e complèttere il tutto
in uno splendido amor Fati’”.
Da: “Il cielo sono io” di Italo Calvino
(recensione di: Fato antico e fato moderno, Giorgio de Santillana, Adelphi)
Di fronte all’ineluttabile Calvino richiama la sostanziale dialettica in De Santillana: il tragico senso di colpa e l’armonia classica risolta come accettazione (certamente in origine né quieta né serena), come i due poli di una rappresentazione anch’essa dinamica, che valgono per il macrocosmo ed il microcosmo. Sappiamo poi bene come lo stesso Fato antico sia passato attraverso interpretazioni anche molto diverse (una per tutte, problematica, quella di Enea/Virgilio). I giudizi causticamente penetranti allora si giustificano non per sola opposizione ma per una ricerca di verità che è sempre pronta a negarsi nel momento stesso in cui si afferma, oltre la logica di non contraddizione. Oltre, perché non si esclude mai la consequenzialità insuperabile in uno storico della scienza, ma la si ricomprende diversamente, non in una meccanica dialettica ma in una armonia dei contrari, necessari entrambi su diversi piani spaziotemporali (civiltà, epocalità, socialità…) e differenziati stati dell’essere (relativismo, individualismo, narcisismo…). L’ironia non potrebbe/dovrebbe distruggere mai il quadro epocale, come il complessivo stato dell’arte (ottimo, mediocre, pessimo) non mai permettere d’esaltarci oltre il livello di guardia. (Che non siamo poi noi mai, realmente, a porre, ma ci è posto) Ogni illusione arcadica o monoveritativa si rivolge freddamente contro il formulatore, che sia rivolto al passato od al futuro o più prosaicamente al solo presente, senza doverci necessariamente privare delle evocazioni pure, dei piaceri transitabili e delle utopie necessarie. Sarebbe come dire, oltre ogni desiderata, che potrebbe essere un continuum spazio-temporale a donarci il congruo ritmo riducendoci (senza nulla toglierci) all’essenziale, che sia per cortesia o per più profonda consapevolezza delle ‘personae’, “sul teatro del mondo ammascherate”.
Tra tragico senso di colpa su varie esegesi e con relative apparecchiature consequenziali ed autoserenamento, ambedue con relativi quadri ontologici e/o filosofici, lineari o ciclici e con coerenti pratiche operative e meditative, l’uomo sempre si dibatte, nelle ulteriori implicanze di spazio e tempo e può anche scegliere definitivamente, sapendo però di compiere comunque un’amputazione. La ferocia e lo stupro sono quindi dentro di noi, non ipostasi del tutto allontanabili se non per gradi e per qualità, più leggero il discrimine della piuma Maat, che giudica – sulla bilancia – le anime…
E detto tutto questo, come una risibile premessa al qui e ora, ed ammesso che noi si sia fatta una scelta sostanzialmente definitiva per non annegare nel mare dell’indifferenziato… noi, appunto, non sappiamo che tipo di risposta si può dare, però, esclusa la colpa come metodo (e non forse come contesto, come voragine o come sfida) ed accettata la dimensione originaria dei contrari implicante comunque conseguenze di non poco conto, alla via dell’estinzione.
Infatti, se accettiamo il mondo dell’armonia cosmico-matematica risolta in una ineluttabilità (il vecchio e nuovo Fato) sostanzialmente insuperabile, ove vengano ricomprese tutte le dinamiche (personali ed impersonali), pure rimane impregiudicata la nostra personale risposta. Che non è e non può essere solamente individuale ma che spartisce comunque ciò di cui noi siamo insuperabilmente responsabili. Ed a livello singolo si pone infatti ogni processo di autodeterminazione, autoperfezione, autotrascendimento, che non può mai trovare sponda in apparati derubricanti o delegittimanti l’insopprimibile qualità individuata. Un libero arbitrio che in tal senso agisce subordinatamente, posteriormente, limitatamente. Ma in tale processo, chi ha già solo orecchiato tutte le pratiche perfezionanti, d’occidente e d’oriente, del passato e del presente, sa che maggiormente si staglia quella che va… verso l’estinzione. Perché?
Perché, sia in occidente che in oriente, sia nel passato che nel presente e sempre facendo la tara di ogni letteralismo o cascame di genere, chi rappresenta meglio l’armonia dei contrari è ciò che rappresenta Essere / Nulla, Apollo / Dioniso, Yin / Yang, Sostanza / Forma, etc…
Ma essendo noi l’Esserci, (dell’Ente, dell’Essere) è ovvio che l’altro polo è l’Estinzione, (nel Nondesiderante, nel Nulla).
Tutti hanno pensato e scritto intorno ai due poli, fin dalla notte dei tempi ed io non posso che aggiungere la mia sommessa domanda che non ne scalfisce affatto la rilevanza ineluttabile, ma sognerebbe d’inquadrarla in una logica minimamente comprensibile. Perché se tutto il processo comunque come sommo vero (ed andare dal sommo vero… al sommo bene comportava già ab antiquo una deriva possibile dell’autorappresentazione del Fato, proprio perché in una non più del tutto impersonale meccanicità cosmica s’insinuava una richiedibile umana corrispondenza, essendo il bene un valore eminentemente etico-sociale), va verso l’estinzione, questa estinzione a noi piacerebbe (non certo per verità ineluttabile ma per – anch’essa insopprimibile – umana ricerca d’empatia), che non rimanesse del tutto impregiudicata ed indifferenziata, ma qualificata e rappresentabile. Cosa che – al livello di rarefazione a cui si pone o si dovrebbe porre la domanda – non solo non ha mai trovato risposta (se non appunto nelle Rivelazioni, Personalizzazioni o Devozionalità), ma probabilmente non può trovarne alcuna…
Sandro Giovannini