“un caso a parte nella pittura italiana del ‘900”
Nel 1930 Fausto torna a Roma con Pompilia e il piccolo Pierluigi, suo padre scopre solo allora d’ essere diventato suocero e nonno. La famigliola si stabilisce in via Augusto Valenziani, 5 , traversa di Corso d’Italia, Quartiere Salario, appartamento al sesto piano di una palazzina in stile umbertino con una pertinenza sul terrazzo condominiale trasformata in studio. Si lavora alacremente anche in prospettiva della sua prima personale italiana che cadrà nel maggio del ‘31 alla Galleria di Roma, nel contempo, pur nella sua vocazione di lupo solitario, Fausto si accosta alla “Scuola romana “ o “Scuola di via Cavour” di Scipione (Gino Bonichi), Mario Mafai e sua moglie Antonietta Raphaёl. La loro ricerca aveva preso vita nello scenario di Palazzo Doria già nel ’29 raccogliendo il plauso critico di C.E. Oppo e Roberto Longhi. Già! L’arte italiana viveva di fermenti, altro che arte di regime, il futurismo non s’ arrendeva, passava il testimone alla terza generazione, il Novecento della Sarfatti invece volgeva verso l’ eclissi assieme alla Vergine rossa, la pittura murale di Sironi riscopriva la vocazione pedagogica, l’arte monumentale soffocava quella borghese da salotto, era una battaglia senza esclusione di colpi dove anche la politica divergente di Bottai e Farinacci si sarebbe formalizzata nei Premi Bergamo e Cremona. Il “passero solitario” Pirandello è un tonalista romano con un retrogusto tedesco, nella sua pittura impastata il tono del colore assume chiara dimensione plastica, volumetrica del soggetto ma anche della luce nella quale si immerge, è quello che impasta, per concrezioni e penombre, la luce del mondo con la materia delle cose“, il disegno si scioglie nel colore in una visione soggettiva dell’esperienza del mondo. Alla salda pittura figurativa degli anni ’20, passa attraverso le sospensioni metafisiche e l’ermetismo surrealista solo apparentemente liberatorio, l’approdo ora è a un tonalismo grasso di materia, di impasto quasi da intonaco. Tecnicamente è questo ma il pennello trasporta sulla tela il racconto del proprio dolore, della sofferenza di vivere, una seduta di psicoanalisi dove il medium non è la parola ma la forma, il paziente è il quadro, il dottore gli occhi dell’osservatore. C’è il forte legame reciso con la madre Maria Antonietta, il dramma della follia, la rivalità amore-odio con la figura paterna, una “montagna troppo alta da scalare”, la realtà come rappresentazione dell’io non dell’universale. In proposito papà Luigi aveva scritto: “Il mondo non è per se stesso in nessuna realtà se non gliela diamo noi e dunque, poiché gliela abbiamo data noi, è naturale che ci spieghiamo che non possa essere diverso. Bisognerebbe diffidare di noi stessi, della realtà del mondo posta da noi”. Nel ’32 espone alla III Mostra Sindacale del Lazio e l’anno seguente è a Milano per presenziare alla sua prima personale ambrosiana presso la Galleria omonima della città.
Il 1934 è l’anno della consacrazione di papà Luigi insignito del Premio Nobel per la Letteratura, la vetta da raggiungere, per Fausto, ora è molto più alta, un buffetto di consolazione gli viene da una monografia su di lui pubblicata dalla rivista “Quadrivio”condita da lusinghieri commenti critici con l’elenco dei maggiori collezionisti delle sue opere, tra i quali Corrado Alvaro, Telesio Interlandi, Arturo Martini e Margherita Sarfatti. Nel 1935 C. E. Oppo lo invita alla II Quadriennale romana, è la consacrazione pubblica del suo lavoro, le due opere esposte Il bagno e Pioggia d’oro testimoniano la sua profonda inquietudine sospesa in atmosfere surreali. Il 10 dicembre del 1936 si chiude il grande ombrello, implode nella morte la montagna, Luigi Pirandello varca l’ultima soglia, per Fausto un dramma sopra quello familiare della mamma, sempre rinchiusa in clinica con la valigia chiusa aspettando il marito. Le sue opere per fortuna trovano spazio in collettive a giro per il mondo, la sua febbre cresce nel termometro dell’arte, tiene una personale alla piccola Galleria romana dei tonalisti, La Cometa, poi nel ’39 la III Quadriennale gli assegna di terzo premio, ha una sala tutta sua dove espone, tra le altre, due opere che suscitano perplessità nel Duce, Tempesta (sopra riportata) e Siccità (abiti rossi, raccolto magro, odore di disfattismo).
Alle obiezioni politiche su reconditi messaggi comunisti racchiusi nella Siccità il pittore rispose telegraficamente in seguito affermando di aver voluto ricercare “il senso del popolaresco che hanno certe figure del purgatorio o fra le fiamme”. Il sudore speso nei campi, la malignità del fato che tradisce il lavoro avvizzendo le spighe, uccidendo il raccolto, l’amaro destino del pane sotto il cielo. La Tempesta è avvolta da un alone di mistero, una volta chiusa la quadriennale del ’39 questo capolavoro venne esposto al Carnegie Institute di Pittsburgh, poi scomparve. L’ipotesi è che fosse stato acquistato da un caro amico di Fausto, Telesio Interlandi, giornalista di regime, già collezionista di molte opere del pittore negli anni ’20. Nel ’43 costui viene arrestato, la sua casa occupata prima dai partigiani poi dalle truppe britanniche, la Tempesta non viene abusata come altre opere per tappare finestre, probabilmente viene acquistata nel ’46 da un anonimo collezionista dopo la confisca dei ben di Interlandi.
L’opera è ricomparsa “miracolosamente” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna per la mostra antologica sulle Quadriennali di Roma del 1931-1935-1939. E’ un dipinto costruito sulle linee dinamiche delle diagonali, il vento soffia potente da fuori il quadro su donne e bambini nudi, si cerca riparo per l’imminente “bomba d’acqua”, le foglie marce volano, siamo in pieno autunno, quei corpi nudi stridono con l’atmosfera cupa ma scrivono la condizione umana di fronte alla Natura. Foschi presagi della guerra o amarezza per le leggi razziali del ‘38? Forse solo Anticoli Corrado colta da un acquazzone.
Gli anni del conflitto segnano nuovi successi di critica conditi da premi tra Roma e Milano dalla II Mostra dello Sport del ‘40, alla Galleria Gian Ferrari nel ’42, fino alla Galleria del Secolo nel ’44 e nel ’47.
Il dopoguerra lo vede in sella senza damnatio memoriae, era stato attiguo al fascismo ma senza impastarci mani e colori, succhiava l’asprezza dei limoni della sua Sicilia, solingo Colapesce s’inabissava per conoscere la profondità del mare, scoprire su quali colonne poggiassero le nostre certezze. Espone alla Quadriennale romana del ’48, la prima post bellum, spostata di sede alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, di seguito è alla Biennale veneziana, il successo, anche economico, arriva e gli permette di comprare una casa rurale a Grottaferrata, la chiamerà villa Pompilia in onore della moglie, ricavando uno studio a parte sopra un’antica costruzione d’epoca romana. Vi trascorrerà le estati ed i fine settimana per una decina d’anni.
Essere oggi su Wikipedia vuol dire essere qualcuno, nel ’49 vedere il proprio nome sull’enciclopedia Treccani degli italiani illustri era un traguardo certo dell’alloro raggiunto. Si susseguono premi, pubblicazione della prima monografia sulla sua opera (1950), l’allestimento di una mostra antologica a lui dedicata nel prestigioso scenario di Palazzo Barberini (1951), il primo premio assoluto alla Quadriennale di Roma del 1952 ( quella della ricostruzione) tornata nella sua sede restaurata del Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale.
Gli anni ’50 sono anche quelli del tormento stilistico, l’astrattismo si allarga a macchia d’olio almeno fino alla sua condanna da parte di Togliatti, il dibattito è aspro quanto aperto, l’amicizia con Lionello Venturi spinge Fausto Pirandello a varcare la soglia del figurativo, per poi ritrarsi nel suo mondo.
La materia adesso si scioglie nella luce, il segno graffia i contorni delle figure in modo primordiale, evapora ogni superfluo e la pittura si trasforma in arte del togliere più che aggiungere. Si avverte l’impronta dell’espressionismo tedesco, gli angoli acuti disegnati dai corpi richiamano le sintesi del gruppo d’avanguardia Die Brücke in salsa Lucian Freud. Si legge con chiarezza l’amara riflessione sul senso della vita che sempre ci sfugge, mai lo si afferra, è l’impronta del teatro paterno che entra nei colori. Bagnanti, nudi senza orpelli, nature morte e quei tetti eterni di Roma ci testimoniano lo stesso dramma che lo scomunicato Gauguin aveva fissato in una delle sue ultime tele Chi siamo?Da dove veniamo?Dove andiamo? Per assurdo le cose diventano inquietanti oracoli sul significato del nostro tempo, loro che solide, mute, prodotte dall’uomo se ne tirano fuori e vivono di un’esistenza propria, traccia del nostro passaggio, forma fissata dall’esserci che muta.
Lionello Venturi, in un saggio del ’54, scrive dell’artista Pirandello: “ E’ molto sintetico e nello stesso tempo abbandonato alla natura, è astratto e concreto e soprattutto grandioso “; in effetti ha camminato a lungo, procedendo per tappe, segnando un suo sentiero nel bosco dell’arte, da anacoreta per vocazione, in ermetica introspezione, un caso pressoché unico nel panorama del Novecento, ai margini dei dibattiti teoretici su significato, funzione e stile nel produrre arte.
Anche la Grande Mela gli tributa un omaggio nel ’55 offrendogli una personale alla Galleria Catherine Viviano, è la Little Italy ma la cassa di risonanza è la nuova capitale dell’arte: New York.
Brucerà forte invece la mancata assegnazione del primo premio alla Biennale veneziana del 1956, l’artista cede allo sconforto, si convince che la sua arte non ha fatto breccia oppure non viene capita dalla critica paludata e spocchiosa.
Continua a remare nel suo studio assomigliando in questo suo viaggio procelloso al vecchio e il mare di E. Hemingway, lotta per tirare in barca quel successo che gli permetta di arrivare sulla vetta emulando papà Luigi che gli appare irraggiungibile, oltre le sue forze. Eppure i riconoscimenti non gli mancano tra premi ( la Quadriennale del ’64 ), inviti a mostre collettive, nuove personali, in fondo, in fondo tutti i suoi sforzi lo hanno vestito dell’aura della celebrità certamente più di suo fratello Stefano che scriveva, scriveva, firmandosi Landi ma restava nel cono d’ombra del padre. Lui dei tre figli ce l’aveva fatta ma con la coscienza di restare un passo dietro al grande drammaturgo di Caos.
Il suo “realismo esistenziale”, la sua “favola antica”, si spensero il 30 novembre del 1975.
Emanuele Casalena
Bibliografia:
C. Gian Ferrari, Fausto Pirandello, De Luca Editore, Roma 1991
F. Pirandello, Riflessioni sull’arte, a cura di C. Gian Ferrari, Ed. Abscondita, Milano 2008.
Fausto Pirandello, Opere dal 1923 al 1973, saggi critici di F. Benzi, F. Leone, F. Matitti, Manfredi Edizioni, Imola, 2016.
F. Matitti, Luigi Pirandello e le arti figurative, in Legami e corrispondenze. Immagini e parole attraverso il 900 romano, catalogo della mostra a cura di F. Pirani, G. Raimondi, Palombi Editori, Roma 2013,pp. 303-319
Associazione Fausto Pirandello, Flavia Matitti. Fausto Pirandello (Roma, 1899 – 1975)