Il neo borghese progressista, libertario e, si perdoni l’ossimoro, moderatamente radicale, vive a una sola dimensione, l’eterno presente di cui parlava un curioso filosofo marxista di origine russa che operò per decenni al servizio riservato della Francia, Aléxandre Kojéve. Il paradosso che intuì fu la progressiva animalizzazione dell’uomo, contrappunto della globalizzazione e dell’affermazione della democrazia capitalistica. Secondo Kojéve, si stava verificando la fine dell’agire storico dell’uomo europeo e occidentale nella direzione di uno Stato universale omogeneo, di cui le classi alte sono banditrici.
Strumento privilegiato è il sistema di informazione, un meccanismo in cui secondo il francese Nicolas Bonnal “si stampano i biglietti come le commedie o le notizie, e ci si risveglia al mattino con le guerre e i pregiudizi del borghese liberale occidentale”. L’eterno presen
La smania per le informazioni, le ultime novità è un fenomeno di massa. Thoreau poteva già scrivere nel XIX secolo: “A malapena un uomo fa un sonnellino di mezz’ora dopo pranzo, che al risveglio drizza la testa e domanda: che notizie? come se il resto dell’umanità fosse rimasto di guardia accanto a lui (…) Dopo una notte di sonno le notizie gli sono indispensabili come la colazione.” Il sistema di informazione/ intrattenimento ci sommerge di notizie allo scopo di nascondere ciò che davvero importa. Bombardati da immagini e parole, non distinguiamo più tra un gol di Ronaldo e la guerra in Siria. Entrambe sono commentate distrattamente, per noia, in attesa della successiva “ultima ora”. In gran parte, pettegolezzo a misura di radical chic mentre sorseggia il suo drink. Thoreau fu profetico osservando che “certi manifestano per le notizie un tale appetito che sono in grado di restare eternamente in piedi senza muoversi, come se inalassero l ‘etere che produce torpore e insensibilità alla sofferenza.”
Il sovraccarico di notizie serve a produrre narcosi, indifferenza e insieme dipendenza. Nel Coccodrillo, Dostoevskij mostra l’abbrutimento del protagonista rinchiuso nel corpo del coccodrillo, desideroso che gli siano portate senza posa le notizie dall’Europa. Nei Demoni celebra un processo alla modernità presente e futura. Già all’epoca sua era in azione una sovversione mondiale con epicentro negli Stati Uniti. E’ il liberalismo più che il comunismo, suo figlio spurio. Oggi tutti sono liberali, il termine è divenuto talmente equivoco da non potere essere più definito. L’Europa contemporanea è già tratteggiata nel brano seguente, in cui uno dei giovani nichilisti spiega la sua visione del mondo: “i nostri non sono soltanto quelli che sgozzano, incendiano, o fanno dei colpi classici. Quelli non sono che un ingombro. Io sono un furfante, non un socialista, ah, ah. Il precettore che si fa beffe con i bambini del loro Dio e della loro nascita è dei nostri. L’avvocato che difende un assassino di buoni studi provando che era più istruito delle sue vittime e che, per procurarsi denaro, non poteva fare altro che uccidere, è dei nostri. Gli studenti che, per provare una sensazione, ammazzano un passante, sono dei nostri. I giurati che assolvono sistematicamente tutti i criminali sono dei nostri. Il procuratore che in tribunale trema per il timore di non mostrarsi abbastanza liberale, è dei nostri. “
Lascia senza fiato il quadro di un mondo rovesciato diventato legge e potere un secolo dopo. Ce n’è anche per il diritto: “Quando lasciai la Russia, la tesi di laurea che assimilava il crimine a una follia faceva furore; torno, e già il crimine non è più una follia, ma è il buon senso stesso, quasi un dovere, o almeno una nobile protesta. “.
Sembra l’enunciazione ante litteram della finestra di Overton, il modello delle possibilità di cambiamento indotte nell’opinione pubblica. Molte idee, totalmente respinte al loro apparire, sono dapprima accettate, poi diventano legge, se chi controlla l’informazione e l’educazione lo vuole. Secondo Joseph P. Overton, qualsiasi idea, anche la più assurda, per potersi sviluppare nella società ha una finestra di opportunità. L’apparire dell’idea sui mezzi di comunicazione più diffusi, magari con la presenza di personaggi noti come “testimonial”, permette il passaggio graduale dallo statuto di impensabile all’ ingresso nella coscienza di massa e l’inserimento nella legge, sino a un’ultima fase, che sfuggì al suo teorizzatore: la proibizione dell’opinione opposta, quella che fino a poco tempo prima era accolta da tutti. Non si tratta di lavaggio del cervello, ma di tecniche sottili, efficaci e coerenti, veicolate attraverso i più ricettivi, cioè la borghesia radical chic.
Sradicati anche rispetto ai principi etici, sradicano il resto della popolazione senza rendersi conto di essere lo strumento dei piani alti del potere, i decisori che agiscono per scopi di dominio. Il marxismo è internazionalista e prende atto dell’esistenza della comunità (Gemeinwesen, nel lessico di Marx), il liberalismo è cosmopolita, atomistico. Fu Margaret Thatcher ad affermare senza infingimenti di non riconoscere altro che individui e nessun corpo intermedio. Dunque il liberale vero, il radical chic, lavora alla distruzione delle identità e della sua patria, che disconosce, disprezza e deride.
Dostoevskij nel Coccodrillo riconobbe altresì il carattere illimitato di un’idea per cui non si è mai abbastanza liberali: “Ma, ahimè! Il liberale del 1840 non era più nel movimento. Invano, per compiacere la giovane generazione, riconobbe che la religione era un male e l’idea di patria un’assurdità ridicola, queste concessioni non lo misero al riparo da un fiasco lamentevole. Allo sfortunato conferenziere che ebbe l’audacia di dichiarare che preferiva di gran lunga Puskin a un paio di stivali, non ci volle molto per scatenargli contro una tempesta di fischi e di urla ingiuriose. Per farla breve, lo abbiamo insultato come il più vile dei retrogradi “. Erano i primi passi del politicamente corretto, a cui è tanto affezionato il neo borghese liberal.
Abbiamo già indicato l’adorazione dell’America come caratteristica di ogni radical chic che si rispetti. Eppure, affascinato dal cinema di Hollywood, fornitore di tutte le idee e chiavi di interpretazione della realtà, dovrebbe sapere che il sogno americano è spesso un incubo, se ha visto I cancelli del cielo di Michael Cimino. Ma forse no, da gregario privo di giudizio proprio, si scomoda solo per i film di cassetta, dopo averne letto le recensioni positive. Se la pellicola ha intenti politici o, come direbbe lui, civili, la vede se riceve il bollino verde, il via libera degli intellettuali di riferimento, quelli che scrivono su certi giornali e pontificano da determinate tribune televisive.
Il carisma americano vive sulla facilità e la velocità. E’ tutto facile laggiù, il denaro, la liberazione, persino il contatto con Dio attraverso miriadi di sette, la pseudo spiritualità a tariffa d’ingresso in sala. La velocità è l’altra arma vincente americana. Tutto corre e scorre, Panta Rei senza Eraclito, ogni cosa scivola via per lasciare spazio al fotogramma successivo. Paul Virilio la chiamò dromocrazia, il potere della velocità, il regime in cui i potenti sono coloro che regnano sulla velocità, controllano quella degli altri e squalificano socialmente coloro che restano immobili, i localizzati. Nessuna sanzione colpisce più profondamente il radical chic che l’accusa di essere fermo, non al passo con i tempi, stabile, cioè vecchio, arretrato. Egli è liquido, mobile, non ha identità, si trova a suo agio nei nonluoghi, aeroporti, autostrade, centri commerciali, uguali a Roma e Shanghai e in cui si sta per breve tempo, in transito, diretti verso un altrove continuamente spostato in avanti, come l’orizzonte di chi cammina.
Nell’Ottocento, fu Edgar Allan Poe, americano educato in Inghilterra, il critico più feroce dello spirito del suo paese. Dice il Conte, protagonista del Colloquio tra Monos e Una. “Eravamo discesi nei peggiori giorni dei nostri cattivi giorni. Il grande movimento- era quello il linguaggio del tempo – era in marcia. Perturbazione morbida, morale e fisica. Prematuramente introdotta dalle orge della scienza, si avvicinava la decrepitezza del mondo, ciò che non vedeva la massa dell’umanità, o che, vivendo avidamente, per quanto senza felicità, fingeva di non vedere. Ma gli annali della terra mi avevano insegnato ad aspettarmi la rovina più completa come prezzo della più alta civilizzazione “.
La credenza superstiziosa, sciamanica, nella verità della scienza, la sua avanzata come unico segno di civiltà è un punto fermo dell’ideario radical chic calato nell’immaginazione popolare. Ma la scienza non è verità, né è un fine. Le si può chiedere esattezza, la si può utilizzare come strumento, ma non affidarle il destino comune. Le forze meccaniche quantitative che chiamiamo progresso e tanto attraggono le menti liberali erano detestate da Poe. Il Conte che parla per lui osserva: “il progresso, in una certa epoca, fu una vera calamità, e non progredì mai”. Un’altra analogia con il presente, affollato di progressisti ma orfano di progresso, tra inquinamento, scempio della natura, traffico, baccano, eccessi, obesità e anoressia, lauree e ignoranza, calo certificato del quoziente intellettivo e eclissi della cultura.
Poe non salva il grande totem della modernità, la democrazia. “La cosa finì così, i Tredici Stati, insieme con quindici o venti altri, si consolidarono come il più odioso e il più insopportabile dispotismo di cui si fosse sentito parlare sulla faccia del globo. Domandai chi fosse il tiranno usurpatore. Per quanto ricordasse il conte, il tiranno si chiamava plebaglia. “Ovvero, la tirannia dell’opinione pubblica eterodiretta, di cui non il popolo, ma i ceti elevati, affluenti, i riflessivi sono gli interpreti privilegiati. Il protagonista del Patriota, film interpretato da Mel Gibson, preferiva avere un solo tiranno che centinaia, senato, congresso, la burocrazia, in attesa del mostruoso apparato di controllo odierno, Cia, Nsa, Fbi, satelliti, Google Earth, eccetera. La critica di Poe ha qualcosa in comune con Tocqueville, una cui constatazione è che “la natura del potere assoluto, nei secoli democratici, non è crudele né selvaggia, ma minuziosa e molesta.”
Lo sperimentiamo con divieti di ogni genere, per il nostro bene, chiaro, la medicalizzazione della vita, i mille regolamenti, i vaccini obbligatori, le circolari che pretendono di standardizzare, omogeneizzare, prevedere tutto. Un mondo asettico igienizzato, a misura di radical chic, che Ernest Renan descrisse come una grande marcia verso l’americanismo introiettato nelle menti, che “ferisce le idee raffinate, un mondo dove la distinzione personale ha poco significato, dove spirito e talento non hanno alcun valore ufficiale , l’alta funzione non nobilita, la politica diventa l’impiego degli spiantati e delle persone di terz’ordine, dove le ricompense della vita vanno di preferenza all’intrigo, alla volgarità, alla ciarlataneria che coltiva l’arte della propaganda, all’astuzia che gira abilmente attorno al codice penale”.
Fu forse Baudelaire, il grande poeta dell’Albatros e dei Fiori del male, traduttore e prefatore in Francia di Edgar Allan Poe, ad affondare più di ogni altro il coltello nella piaga dell’americanismo liberal tanto amato dalle nostre classi dirigenti. “Gli Stati Uniti furono per Poe una vasta prigione che percorreva con l’agitazione febbrile di un essere fatto per respirare in un mondo di fragranze, non in una grande barbarie illuminata a gas. “Immagine straordinaria, la sintesi di ciò che siamo diventati: una barbarie illuminata a gas, tanto cara a chi dirige nostro destino verso il basso.
Assolutamente contemporanea è l’invettiva contro la tirannia implacabile dell’opinione maggioritaria, dalla quale non ci si può attendere “né carità, né indulgenza, né elasticità qualsiasi nell’applicazione delle sue leggi ai casi molteplici e complessi della vita morale. Si direbbe che dall’amore empio della libertà sia nata una tirannia nuova, la tirannia delle bestie, una zoocrazia. “La morale transitata dagli Usa fino a noi attraverso i ceti alti è quella mercantile e strumentale di un Benjamin Franklin, definito da Baudelaire eroe di un secolo votato alla materia, l’inventore di una morale da banco di vendita.
Il poeta dell’ennui ha orrore del suprematismo americano, della violenza, dell’ipersessualità, dell’aborto (“la guarigione dalle malattie di nove mesi”), della libertà astratta, tutto ciò che il radical chic trasmette al popolo per conto dei suoi superiori. Da poeta e visionario, Baudelaire vede il rischio di accogliere l’americanismo in Europa, farsene irretire, colonizzare. “Gli Stati Uniti sono un paese gigantesco e bambino, naturalmente geloso del vecchio continente. Fiero del suo sviluppo materiale, anormale e quasi mostruoso, questo nuovo venuto nella storia ha una fede ingenua nell’onnipotenza dell’industria; è convinto come alcuni sventurati tra noi, che essa finirà per mangiare il Diavolo. “
Espulso il Diavolo, al pari di Dio, dall’orizzonte dell’uomo contemporaneo, ipotesi non più considerate, come disse Lamarck a Napoleone presentandogli la sua opera sull’evoluzione naturale, non resta che il regno della quantità annunciato da Guénon. E della tecnica, attraverso la quale si può comandare “da remoto”, perfino bombardare una popolazione pigiando pulsanti a migliaia di chilometri di distanza, come in un videogioco, esultando davanti allo schermo per avere centrato il bersaglio non in una sfida virtuale, ma nella realtà. Tutto per esportare la democrazia, la libertà, il progresso, la liberazione dai tabù, la democrazia rappresentativa, ossia il mercato: ciò che illumina d’immenso i bravi libertari tanto razionali, tolleranti, istruiti, educati e benpensanti.
Un cancro che viene da lontano, ma non andrà più tanto lontano. Cresce il deserto, la macchina sta per rovesciarsi, la catastrofe di una civiltà è nell’aria. Un paio di generazioni dopo il saccheggio di una Roma estenuata da parte del barbaro Alarico, Romolo Augustolo, imperatore fantasma, ragazzino già dedito agli stravizi, chiuse con l’Impero Romano. La notte dell’occidente ha molti padri e alcuni figli legittimi: le sue stanche élite narcisiste, deboli, svirilizzate, debosciate, materialiste, la borghesia liberale radical chic. Siamo a fine corsa. Chi verrà dopo scriverà con disprezzo la loro storia.
ROBERTO PECCHIOLI
1 Comment