Siamo l’unico Paese al mondo che festeggia la sconfitta: con questa grottesca ricorrenza del 25 aprile celebriamo la nostra sconfitta nella seconda guerra mondiale come se fosse stata una vittoria, certamente attirandoci il dileggio del mondo intero, mentre le ricorrenze delle vere vittorie dei nostri predecessori che hanno fatto dell’Italia una nazione, a cominciare dal 4 novembre, trascorrono dimenticate.
L’abbiamo detto e ridetto.
Gli errori e i torti del fascismo, le violazioni dei diritti umani che tutti commettono durante le guerre sono stati amplificati e ingigantiti per coprire o far dimenticare le atrocità commesse dai vincitori: i bombardamenti terroristici contro le popolazioni civili – fra cui due olocausti nucleari contro il Giappone che aveva già chiesto la resa – le stragi di civili tedeschi compiute dall’Armata Rossa (tre milioni di persone), quelle di italiani compiute dai comunisti jugoslavi in Istria e Dalmazia, gli eccidi di innocenti compiute dagli stessi partigiani italiani, spesso non altro che per sopprimere i testimoni delle loro ruberie, i prigionieri italiani e tedeschi massacrati dopo essersi arresi, o fatti morire di freddo e di fame. Più si scava, più si scopre il volto del “bene” uscito vincitore dalla seconda guerra mondiale, che è quello di un orrore infinito.
Anche questo l’abbiamo detto e dimostrato più volte, dati alla mano.
Quella partigiana, “resistenziale” non fu epopea ma un’ignobile mattanza contro coloro che avevano continuato a combattere gli “alleati” invasori della nostra terra, compiuta colpendo alla schiena, e soprattutto a guerra finita, quando i vinti avevano dovuto deporre le armi ed erano ormai inermi.
Anche questo è stato detto e dimostrato più volte, non solo da parte nostra, ma si pensi al lavoro fatto da uno storico non certamente di cultura “nostra” ma proveniente da sinistra come Giampaolo Pansa.
Sinceramente, alla vigilia di questo 25 aprile 2018 che il regime certamente celebrerà con la sua consueta retorica, non trovo troppo utile ripetere per l’ennesima volta quanto è stato già detto in precedenza non solo da me, ma da molti altri.
Stavolta vorrei cercare di fare qualcosa di diverso, tentare di esplorare cosa c’è al fondo della mentalità antifascista, mettere a nudo la fenomenologia dell’antifascismo.
Tempo fa, girando in internet, mi sono imbattuto in un sito di sinistra dove ho potuto leggere il seguente slogan: “Antifascismo in assenza di fascismo? Sempre meglio di fascismo in assenza di antifascismo”. E’ ovvio che la mia opinione è esattamente contraria, anche se devo dire che ho in un certo senso apprezzato il fatto che l’autore dello slogan avesse almeno un barlume di comprensione della realtà del fatto che quel fascismo che gli antifascisti pretendono oggi di combattere, non esiste più da settant’anni, che il fascismo continuamente risorgente che costoro vedono dietro ogni angolo, non è altro che una creazione delle loro paranoie.
Ebbene, è così difficile capire che l’antifascismo in assenza di fascismo non è, non può essere altro che una legittimazione irrazionale e pretestuosa dell’ordine imposto a livello planetario dai vincitori del secondo conflitto mondiale? Ma alla stupidità e alla plagiabilità delle masse umane non si possono porre limiti, ancora meno che alla provvidenza.
Ci sarebbe stato da pensare che con l’andar del tempo, con l’allontanarsi da noi degli eventi avvenuti tra le due guerre mondiali e nel corso del secondo conflitto, con la scomparsa per naturale falcidie della generazione che ne è stata protagonista, l’atmosfera si sarebbe man mano svelenita, il clima si sarebbe fatto più respirabile, specialmente dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica che costituiscono la prova provata del fallimento dell’ideologia “rossa”.
Il sistema sovietico, infatti, non è crollato per un’aggressione esterna, non è caduto come il fascismo sui campi di battaglia, ma – caso unico nella storia umana – è crollato per implosione interna, sotto il suo stesso peso, da quel pachiderma deforme che era, incapace di somministrare ai suoi sudditi null’altro che oppressione e miseria.
Tutto questo sarebbe stato vero se il comportamento umano rispondesse perlopiù a delle motivazioni razionali, ma certamente così non è. Non vorrei vantarmi di essere stato buon profeta, ma già allora avevo nutrito il sospetto che gli antifascisti si sarebbero sempre più incarogniti nel loro odio irrazionale, perché dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il fallimento dell’ideologia marxista, il ripudio della lotta di classe, l’antifascismo era l’unico articolo di fede che gli rimaneva, ed è l’unico che tuttora gli rimane, e certamente non hanno null’altro con cui sostituirlo.
Noi potremmo definire la mentalità di sinistra come una serie di riflessi condizionati che ruotano attorno al perno dell’antifascismo. Poiché il fascismo ha considerato fondamentali i valori dell’identità nazionale, dell’appartenenza etnica, ecco che i sinistrorsi si fanno fautori dell’immigrazione, del meticciato, della sostituzione etnica. Naturalmente, in ciò non entra minimamente la considerazione che le prime a essere danneggiate da questa invasione mascherata da immigrazione sono precisamente le classi lavoratrici perché il valore del loro lavoro, per la semplice legge della domanda e dell’offerta, non può che essere deprezzato dall’immissione sul mercato del lavoro, di una quantità enorme di braccia a basso prezzo.
I “compagni” non si accorgono o fingono di non accorgersi che l’immigrazione è promossa dal grande capitale internazionale precisamente a questo scopo, e anche perché, essendo queste popolazioni “colorate” meno intelligenti dell’uomo europeo e quindi più facilmente manipolabili, sostituire quest’ultimo con esse permetterà di creare una società di schiavi proni ai voleri dell’oligarchia capitalista, è quello che si chiama piano Kalergi, ma costoro dopo il crollo dell’Unione Sovietica hanno messo in archivio (in cantina, in soffitta, fate voi) la lotta di classe o anche solo l’idea che una società è composta di ceti diversi i cui interessi sono obiettivamente divergenti.
Un discorso del tutto analogo si può fare per un altro dei temi in passato cari alla sinistra, quello del femminismo, perché queste masse allogene che oggi ci invadono provengono da “culture” (non solo quella islamica, ma anche quella indiana, per non parlare dell’Africa nera al disotto del Sahara) dove la donna riceve una considerazione minore di quella del cane di casa.
La defunta Oriana Fallaci nel suo libro La rabbia e l’orgoglio ha espresso un filo-americanismo assolutamente inaccettabile, ma per quanto riguarda le pseudo-femministe di sinistra, pronte sempre a saltare addosso al maschio bianco occidentale, a vedere una violenza in uno sguardo troppo intenso, ma che automaticamente ammutoliscono di fronte agli stupri, alle sevizie, agli assassinii di donne commessi dagli extracomunitari o li scusano come “espressione della loro cultura”, ne ha dato una definizione tecnicamente perfetta: “galline”!
Oltre a quello della sinistra, esiste un antifascismo liberal-democratico “borghese”, e questo è forse l’aspetto più “strano” e rivelatore della nostra storia. Che i fascismi siano nati in Europa dopo la prima guerra mondiale come reazione immunitaria alla “rivoluzione” bolscevica avvenuta in Russia, questo è un fatto assodato, ma questo non significa certo che la favola marxista del fascismo come “cane da guardia della borghesia” sia in qualche modo accettabile. Particolare su cui “i compagni” glissano, nelle file dei movimenti fascisti militavano milioni di uomini di estrazione proletaria-lavoratrice, che avevano ben chiaro che l’Unione Sovietica non rappresentava certo “il paradiso dei lavoratori”, ma al contrario una mostruosità tirannica che teneva il popolo affamato e oppresso. Le democrazia borghesi, dal canto loro, soprattutto l’area anglosassone, mentre erano apertamente ostili ai fascismi, trattavano la mostruosità bolscevica con evidente simpatia. Ne sono una chiara testimonianza, ad esempio gli articoli sul “New York Times” (il “New York Times”, mica un giornaletto di provincia) di Walter Duranty negli anni ’30.
In realtà, quella che si andava delineando era una “santa alleanza” tra il bolscevismo e le oligarchie borghesi degli stati liberal-democratici anglosassoni, contro i fascismi, colpevoli di realizzare quelle riforme sociali che il bolscevismo sovietico prometteva.
Se si considerano gli eventi storici senza paraocchi ideologici, i fatti parlano chiaro; si pensi per esempio alla guerra civile spagnola, dove le simpatie e gli aiuti degli stati liberal-democratici: Inghilterra e Francia, andarono tutti alla parte “repubblicana” cioè comunista, come se trovarsi con due bolscevismi convergenti dagli angoli opposti dell’Europa sarebbe stato una cosa da nulla.
Sappiamo poi che gli Stati Uniti avevano cominciato (segretamente, è ovvio) a rifornire l’Unione Sovietica di armamenti già dal 1938 in previsione di una prossima guerra contro la Germania. Due uomini che vanno considerati i due più grandi criminali del XX secolo e probabilmente di tutti i tempi, Fraklin Delano Roosevelt e Josef Stalin, hanno di fatto preparato e provocato le seconda guerra mondiale.
Lo si vede con grande chiarezza nella crisi polacca. Che la Germania ambisse a riprendersi Danzica, città tedesca da secoli, per gli Occidentali era intollerabile, ma che l’Unione Sovietica aggredisse a sua volta la Polonia senza nessuna provocazione né alcun pretesto etnico, non provocò a Stalin nemmeno un modesto rabbuffo diplomatico. Che la Germania ambisse a riportare nella sua compagine nazionale i territori tedeschi perduti in conseguenza degli innaturali confini tracciati a Versailles, questo era per le liberal-democrazie la prova che i Tedeschi miravano al dominio mondiale, ma che Stalin avesse tolto alla Cecoslovacchia la Rutenia Subcarpatica, alla Romania la Moldavia, avesse annesso le repubbliche baltiche, avesse aggredito la Polonia, e più tardi avrebbe fatto la stessa cosa con la Finlandia, erano tutte prove della volontà di pace di Stalin.
In realtà la Polonia non era che un pretesto, se i Tedeschi meritavano un bis della Grande Guerra, mentre la sua invasione da parte dei Sovietici lasciava gli Occidentali del tutto indifferenti, il motivo era chiaro: il capitalismo internazionale si sentiva minacciato dal fatto che i fascismi, a cominciare da quello nazionalsocialista, avevano realizzato un socialismo che funzionava, cosa che non si poteva certo dire per il fallimentare modello sovietico. Joseph Goebbels spiegò questo concetto in un memorabile discorso al Reichstag all’indomani della dichiarazione di guerra franco-inglese alla Germania. Ebbene, bisogna ammettere che non disse altro che la verità.
La scomparsa dell’Unione Sovietica, la fine della guerra fredda che possiamo considerare in ultima analisi una lunga baruffa tra compari per la spartizione del bottino, l’Europa uscita sconfitta, nonché l’intero pianeta (l’Europa tutta intera è uscita sconfitta, non solo l’Asse ma anche i Paesi nominalmente vincitori che, al pari dei vinti, hanno dovuto rinunciare agli imperi coloniali, hanno visto il loro peso sulla scena planetaria ridursi enormemente, si sono visti ridurre a protettorati americani o sovietici), ha portato al riformarsi della “santa alleanza” antifascista tra il grande capitale internazionale e la sinistra orfana dell’Unione Sovietica, che collaborano alla sostituzione etnica e alla distruzione delle nazioni europee, sempre nel segno dell’antifascismo.
Noi abbiamo visto che negli ultimi anni storici antifascisti di provata serietà come Ernst Nolte e Luigi Salvatorelli sono stati contestati dall’ “antifascismo militante”. La loro colpa: affrontare il discorso sul fascismo con gli strumenti dell’analisi storica, politica, sociologica, e non con quelli della demonologia. Proprio perché il naturale trascorrere del tempo allontana questi eventi sempre più da noi, occorre che essi siano trasposti, trasfigurati dal piano storico a quello di una sorta di aberrante mitologia. Il fascismo deve essere “il male assoluto” per non permettere di vedere quanto orribile sia in realtà il cosiddetto bene.
L’immagine del fascismo, del nazionalsocialismo, degli eventi fra le due guerre mondiali, del secondo conflitto stesso, che hanno gli antifascisti, è modellata sui film hollywoodiani che non hanno mai smesso i toni della propaganda bellica.
E’ probabile che gli antifascisti di sinistra non amino gli Stati Uniti, che ogni tanto si sparino qualche trip mentale a base di rivoluzione d’ottobre, Che Guevara, Vietnam, ma l’immagine che hanno del fascismo è quella disegnata dalla propaganda hollywoodiana.
Vi si può vedere una bizzarra analogia con i testimoni di Geova: credono che la verità si trovi in un testo “canonico”, la bibbia, pur non riconoscendo l’autorità che ha stabilito questo canone, la Chiesa cattolica col concilio di Nicea. Allo stesso modo, costoro danno un valore di testimonianza storica alla propaganda hollywoodiana nel momento in cui non professano esattamente amore per gli USA.
Forse però questa è più di un’analogia: i cultori della “religione dell’antifascismo” e i testimoni di Geova sono portatori di una stessa mentalità rigida, di una visione “tubolare” stretta da pesantissimi paraocchi.
Noi dobbiamo sapere che con la fine della guerra fredda è cessata una lunghissima pausa al processo di distruzione dell’Europa conseguente alla sconfitta della seconda guerra mondiale, una distruzione che oggi prosegue con la sostituzione etnica, infinitamente più devastante di qualsiasi bombardamento bellico. L’antifascismo è la complicità con chi vuole appunto la morte della nostra civiltà.
Fabio Calabrese
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