9 Ottobre 2024
Società

Fermate il Progresso, voglio scendere – Roberto Pecchioli

Fermate il progresso, voglio scendere. Scusino i lettori la scarsa originalità dell’invocazione, ma non riusciamo a trovare espressione migliore. Il nostro è il tempo del progresso fatto ideologia e superstizione, dell’”andare avanti”, del cambiamento ad ogni costo, l’epoca della rinuncia alla realtà e alla natura. L’istinto fondamentale, in natura, è la conservazione; la condizione ideale è l’omeostasi, ovvero l’attitudine dei viventi al mantenimento della stabilità fisica e comportamentale nonostante il variare delle condizioni esterne. Siamo in guerra contro la realtà e nessuno vuol più essere ciò che è. Viene abbattuto il confine tra verità e bene, negato il principio di identità e non contraddizione (A uguale a A e diverso da B) su cui si fonda il senso comune. Tutto scorre, anzi corre, e deve mutare di continuo, in una gara di velocità di cui non si conosce l’inizio, la fine, lo scopo.

Sul terreno giacciono ferite la natura, l’identità e tutti i punti di riferimento che hanno rischiarato la vita dell’uomo, ridotto a materiale inerte, indefinitamente plasmabile, un mutante senza origine, senza luogo e privo di destino. Molto peggio di uno zingaro, giacché il nomade di ieri era immerso nelle proprie tradizioni, credenze, modi di vita. La letteratura ha spesso indagato lo straniamento individuale, diventato ora stato di massa pressoché obbligato. Un esempio è La luna e i falò di Cesare Pavese, romanzo estremo del narratore langarolo, preda del “vizio assurdo” di vivere, dell’alienazione da sé, compreso lo sfruttamento ideologico del suo genio da parte delle centrali culturali comuniste del tempo.

Anguilla, ex trovatello arricchitosi dopo una lunga emigrazione in America, l’Eldorado della sua giovinezza, torna nelle Langhe natali, ma nulla è più come prima. Non ci sono più le persone della sua vita, neanche le cascine dove lavorò duramente da ragazzo sono più al loro posto. Le ha travolte la guerra, il tempo, l’odio che ha incendiato il cuore di tanti. Anche il suo modello di allora, Nuto, è cambiato, è un altro uomo. Non è più la stessa, non gli appartiene più la luna d’estate, non ci sono più i falò che accompagnavano il ritmo circolare delle stagioni e dei raccolti. Eppure, anche per Anguilla, che pure era uno sradicato nato chissà dove raccolto dalla pietà popolare, “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”

Non ci aspetta più nulla, ha vinto il progresso, l’invettiva di Marx contro la metafisica, l’XI tesi che imponeva non di spiegare il mondo, ma di cambiarlo, attraverso un materialismo diventato religione capovolta nella forma dialettica, il continuo scorrere di tesi e antitesi, un ciclone che odia osservare, contemplare, fermarsi. Nulla è ciò che è, conta quel che diviene, fermato per un breve attimo nel fotogramma fuggente e poi avanti, senza domande, senza posa, senza perché. Tutto è estraneo, non parliamo più la stessa lingua – l’idioma è il modo stabile e specifico di comprendersi di una comunità- non vediamo le stesse cose, corriamo verso un luogo inesistente chiamato “avanti”. Questo, assicurano, è il progresso.    

Potremmo discutere la data in cui ci ha colto la cecità, la perdita di orizzonte, il momento in cui è iniziato il silenzioso collasso del fondamento dei nostri passi. Ma fu senza dubbio il giorno in cui si levò la voce che esaltò il Progresso e furono spostati “avanti” gli elementi della realtà. Quel progresso sostantivato provocò un movimento senza fine: senza fini e senza riposo. Realizzazione infinita del Regno dell’Uomo, il progresso non può definire un obiettivo, poiché negherebbe se stesso. Chi ci provasse finirebbe nel delirio; ogni profeta dell’avvento del progresso termina con la smorfia del fanatico. Il progresso ammette solo una definizione negativa. Non ha un finale o un esito ultimo. Il suo unico riferimento è l’utopia, nel significato letterale di nessun luogo. Non è che ignoriamo dove e quando abiteremo il Regno del progresso, è che si troverà sempre un passo più in là della posizione raggiunta. Eppure, il progresso non si ritiene l’oggetto di una fede superstiziosa e indimostrata ma il contenuto di una ragione assolutizzata che misura attraverso il presente il valore del passato. Il presente non è (ancora) l’età della ragione ma può guardare con superbia il passato, oscuro nel paragone, sempre insufficientemente illuminato. Domanisaràancorameglio e quel meglio sarà presto superato, fagocitato dal “più” avanzante.

Leggiamo un intervento di un paleontologo che indaga l’arcano della nostrarealtà con lo sguardoal futuro e ripete la litania del progresso: “Non abbiamo raggiunto il tetto, come specie”. Non sopporta, come ogni progressista, l’ipotesi di un massimo, di un limite, rilancia come una sfida l’assioma dell’infinito.Le speculazioni transumaniste lo infastidiscono, fortunatamente, cita Huxley, Orwell e le loro distopie, deplora gli esperimenti di selezione della specie di matrice nazista. Dimentica le origini anglosassoni dell’eugenetica e trascura di ricordare che la nuova scienza progressista, alleata di finanziatori dai fini commerciali, ha superato il male assoluto in camicia bruna. Prudentemente, si è alleata con il potere e parla, per giustificarsi e diventare popolare, di “salute riproduttiva”, “opportunità” e “qualità della vita”. Il mentore è disgustato dai programmi di pianificazione umana perché ”normalmente” sono il prodotto di regimi totalitari. Normalmente…

Non è sfiorato dal dubbio, anima bella incapace di pensiero critico, che quello vigente sia un sistema totalitario. Di tipo nuovo, adatto all’uomo occidentale del XXI secolo, apparentemente leggero, narcotico e diffusore di buone intenzioni, ma indubbiamente totalitario. Lo scienziato afferma che nessuno imporrà “un futuro che non ci piace “. Quelli come lui accetteranno esclusivamente “una pianificazione democratica”. Una risata li seppellirebbe, se avessimo ancora un cervello libero. L’autore di queste riflessioni è uno dei maggiori paleoantropologi in attività, dunque un “esperto” che dovremmo ascoltare come il Vangelo, la sua filosofia – se possiamo sprecare il nome della sapienza- adattata alla scienza biologica segue la coordinate del pensiero negativo. Non ha niente da dire sull’oscurato orizzonte dell’esistenza umana. “Non c’è un obiettivo al quale arrivare. Noi non abbiamo un qualsiasi obiettivo che raggiungere”. Appunto: ci limitiamo a marciare a passo di corsa, convinti di avanzare. Conclude con un deludente: “Siamo come siamo”.

Non c’era bisogno di oltre due secoli di magnifiche sorti e progressive per pervenire al vuoto pneumatico di un’affermazione che aveva maggiore dignità, nell’accettazione serena della condizione umana, in bocca ai nostri nonni, più saggi e meno istruiti. Ma come siamo noi, noi uomini? E siamo ancora uomini, persone? Il progresso ci ha mutato sino all’intimo della costituzione biologica e ha iniziato da tempo l’inesorabile programma di allevamento della specie umana. I termini del miglioramento possono essere solo tecnici, espressi in grandezze precise, rese di produttività, primati di prestazione sempre nuovi. Citius, Fortius, Altius. Più veloce, più forte, più in alto, come nel motto delle Olimpiadi prestato alla tecnocrazia. Questo aumento di risorse oggettivate, che includono come materiale lo stesso essere umano – mezzo per il fine indeterminato del progresso – avanza nella negazione costante, che chiamano critica, di tutto ciò che abbiamo ereditato. Il progresso consuma qualunque elemento di tradizione o di costume in uno sforzo continuo di ri-costruzione, ri-creazione, autocreazione che ha raggiunto ormai la materia stessa del corpo umano.

“Ma ad ogni nuovo aumento di risorse aumenta la tristezza, il disagio. Come se bevessimo acqua salata, cresce la sete insaziabile “(E. Jünger). All’avanguardia nel viaggio verso il nulla chiamato progresso c’è da secoli l’Olanda. Lì si è data la morte per suicidio “legale” una giovane depressa. Ha richiesto assistenza per morire adolescente, un servizio legale nel paese più avanzato nel percorso infinito del progresso. A Noa Pothoven, come lei tanti altri, mancava la precisa capacità di identificare il proprio stato d’animo. È una difficoltà che giustifica un ulteriore passo nel cammino del progresso; in diversi paesi affamati di novità si sta introducendo una strana materia scolastica, l’Educazione emozionale. Proprio così; l’intendenza seguirà, diceva Napoleone, e la nuova sciocchezza arriverà certamente anche in Italia. I figli del progresso sono disagiati e bisognosi di assistenza, incapaci di conoscere e riconoscersi, occorrono soluzioni pedagogiche impensabili in altri tempi. Non sono in grado di riconoscere la malinconia fatale, padroneggiare la noia abissale. A nessun alfiere del progresso viene il sospetto che il male di vivere sia figlio legittimo del progresso, della corsa, dell’abolizione del limite, dell’autorità, della meta.

All’educazione “emotiva” volta alla “creatività” (un’altra parola d’ordine priva di definizione) non potrà che affiancarsi in un ministero adiacente la struttura deputata ad organizzare l’eutanasia, la dolce morte, l’abolizione programmata, cosciente (cosciente?) ed emotivamente corretta di se stessi. Moriremo emozionalmente identificati, una dissoluzione morbida ed approvata dallo Stato. Abbiamo già il motto per l’apposita direzione ministeriale: il naufragar mi è dolce in questo mare. Almeno servirà a qualcosa l’Infinito di Giacomo Leopardi Aveva visto giusto Mogol, il paroliere di Lucio Battisti nello splendido brano Emozioni. “E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se poi è tanto difficile morire. E stringere le mani per fermare qualcosa che è dentro me, ma nella mente tua non c’è. Capire tu non puoi, tu chiamale, se vuoi, emozioni.”

Noi siamo ciò che siamo “, dice il paleoantropologo. La sua espressione nasconde ancora un certo respiro naturalista, quasi realista, anacronistico. Il vero progressista risponde: no, noi siamo dinamica senza limite, volontà metamorfica ed energetica, siamo ciò che ci va di essere e se non ci va, non siamo. Progresso come non essere, Parmenide sconfitto dopo due millenni e mezzo di battaglia. Gli arcangeli del progresso non sopportano la persistenza di una realtà che nessun atto di volontà può smuovere, poiché la sua smentita sarebbe la negazione stessa della volontà umana. L’ essere umano vive in una condizione, la cui negazione ci trascina irrimediabilmente al Nulla. Non il placido niente della presunta morte dolce, bensì l’angoscia che soffoca la vita in un’esistenza tecnica, predatoria e devastata. Quando la feroce volontà critica che accompagna la ragione impazzita riuscirà a minare del tutto la realtà, sarà inutile ogni eutanasia, poiché al suo culmine il progresso è vuoto, silenzioso e disabitato.  

Anzi, frequentato solo dagli Ultimi Uomini, quelli che servono i più squallidi interessi economici, come coloro che propongono di limitare le cure mediche ai malati cronici e agli ultra settantenni, per i quali l’analisi costi benefici è sfavorevole alle assicurazioni sanitarie. Guardate chi c’è dietro le campagne cimiteriali mascherate da diritti civili e libertà, e quali sono le motivazioni di chi cerca di indurre al suicidio ribattezzato “dolce morte” o “fine vita”. I padroni di tutto possiedono anche le parole, dovremmo tutti rileggere Orwell e capire il senso della neolingua e del bispensiero.

Centottanta dirigenti d’impresa americani firmano un manifesto a favore dell’aborto, sostenendo che si tratta di un vantaggio per l’economia. Fantastiche motivazioni dell’epoca del can bastardo: avere figli limita la possibilità di “avere successo”, mette in forse il benessere (offrire stipendi dignitosi è fuori discussione), e la stessa “indipendenza” dei lavoratori, che tanto sta a cuore a lorsignori. Chesterton scrisse che i dipendenti devono essere abbastanza forti da poter lavorare, ma abbastanza deboli da esservi costretti. A noi poveri di spirito, che ignoriamo gli arcani dell’economia, sembra assurdo, controintuitivo che la carenza di nascite rallegri chi deve vendere prodotti, ma ci sfugge la superiore razionalità delle élite.

Tra di esse, hanno un posto di rilievo i chierici delle scienze sociali; nella solita America, terra benedetta da Dio cara anche al Maligno, un gruppo di scienziati pubblica uno studio che reclama più aborti in nome della sicurezza e dell’ordine sociale. Molti nati, affermano, sono generati da soggetti immaturi, deboli psichicamente e economicamente. Non potranno che farne dei disadattati, forse dei criminali, con i costi sociali conseguenti. Strano davvero che il nazismo, male assoluto di millenni di storia umana, sia stato sconfitto nel 1945. Forme sempre nuove avanzano e detengono potere nelle orgogliose democrazie del progresso. Ma nessun paesaggio è più riconoscibile, cartoline macchiate d’inchiostro.

Le chiese hanno rinunciato alla trascendenza e anche per loro spira il vento impetuoso del cambiamento. Contrordine, confratelli. La modernità non è così male e la legge naturale è una reliquia del passato. Tout passe, e il cardinale genovese Bagnasco nega la presenza di sacerdoti ai rosari riparatori del Gay Pride svolto nel capoluogo ligure. Un caro amico si stupisce dell’indifferenza, o della curiosità tra il divertito e il morboso che circonda l’analogo evento nella sua città, una volta bastione cattolico della provincia piemontese. E’ il progresso, bisogna andare avanti, essere moderni, applaudire ogni novità in nome del Nuovo e dell’uomo, il nuovo creatore. Decretata da Nietzsche la morte di Dio, neanche la specie umana d’Occidente se la passa bene, impegnata in uno sconcertante suicidio a tappe.

Nessun settore della vita di relazione si salva: dai paesi di lingua tedesca sbarca un’associazione di cui si avvertiva la mancanza, patrocinata da una donna pastore protestante in pensione: le Nonne contro la Destra, decise a battersi, guarda un po’, contro razzismo, esclusione, omofobia eccetera eccetera. La donna di chiesa in quiescenza (credevamo che l’ordinazione fosse per sempre, ma la previdenza sociale non si nega a uomini e donne in tonaca) trascura il destino dell’anima, nella quale non crede più, e si concentra nella lotta contro i suoi nemici politici.

Non c’è moda, per quanto cretina o assurda, che non abbia successo    tra il disciplinato gregge progressista. Non si salva neppure lo sport, ultima ridotta dell’appartenenza e dell’affetto disinteressato. Il calcio è ormai uno spettacolo televisivo, andare allo stadio è reso difficile da regole assurde. Così, rivela un serissimo sondaggio del Sole 24 Ore, i tifosi da divano amano solo le grandi squadre. Il processo di concentrazione aziendale non risparmia lo sport, le maglie sono marchi industriali, abbasso la Triestina, il Livorno e il Catanzaro, amori stupidi di sfigati e di perdenti, evviva solo la Juventus e il Real Madrid. La pubblicità fa la mosca cocchiera: non ce n’è una che non contenga messaggi a favore della società multietnica e del relativismo morale. In queste settimane, un sito di prenotazioni alberghiere diffonde uno spot in cui una giovane donna bianca riserva una vacanza dal letto che condivide con un impassibile compagno di colore. E’ il progresso, e tanto ci basti.

A noi, molto demodé, ricorda l’Urlo di Munch, disperazione fredda che finisce nell’orrore. Ancor più, il progresso, per bizzarra associazione d’idee, ci ricorda i quadri di Toulouse Lautrec. Su di essi, insieme con il genio dello sfortunato artista, aleggia un che di posticcio, di artificioso, un’aria di fine imminente, i costumi delle ballerine, il trucco pesante, vite in affitto, il mondo di finta allegria e di piacere forzato ad uso dei ricchi di allora. Il successo del grande Lautrec durò poco, travolto dalla malattia e dalla morte precoce. Non dissimile è il destino della maledetta postmodernità drogata di progresso, ebbra di superbia, orgogliosa della sua straordinaria, luccicante libertà, al termine della quale incede il nulla. Conta correre, non avere un inizio e non intravvedere una meta.

Il progresso avanza e perde senso perfino l’inno di Walt Whitman, cantore americano della frontiera che si sposta continuamente in avanti. “O Capitano! mio Capitano! il nostro viaggio tremendo è terminato; la nave ha superato ogni ostacolo, l’ambito premio è conquistato; vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo esulta, mentre gli occhi seguono l’invitto scafo, la nave arcigna e intrepida”. 

 Roberto Pecchioli

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