«A Dio la mia fede,
All’Italia la mia vita,
Al Duce il mio cuore!»
(Luciana Minardi)
di Franca Poli
È di nuovo una donna a ispirare il mio racconto. È il 6 agosto 1936, a Berlino il cuore di una bella ragazza bionda di soli 20 anni batte all’impazzata. La finale degli 80 metri ostacoli la sta aspettando e lei è pronta ad affrontarla, mettendoci la grinta e il coraggio di cui sarà capace. Al via corre con tutte le sue le forze e primeggia. Ondina Valla, nata a Bologna nel 1916, è stata la prima donna italiana a vincere un oro olimpico. Al suo rientro fu poi ricevuta con tutti gli onori a Palazzo Venezia da Mussolini in persona e nel 1937 le venne riconosciuta una ulteriore medaglia d’oro al valore sportivo accompagnata da un assegno di cinquemila lire, cifra per allora di tutto rispetto.
Il Fascismo aveva operato una rivoluzione nel mondo femminile: in quegli anni la donna fu incoraggiata a dedicarsi allo sport, nonostante l’ostracismo della Chiesa e, nel 1929, un anno dopo l’inizio dei lavori per la costruzione del Foro, il governo fascista annunciava la nascita dell’Accademia di Educazione Fisica Femminile a Orvieto. Un provvedimento che rispondeva all’esigenza di formare nuove insegnanti per le scuole medie e per le organizzazioni femminili fasciste. Nell’Accademia di Orvieto e in altri Collegi, retti dal PN F, le ragazze “capaci e meritevoli”, segnalate dagli insegnanti, venivano fatte studiare gratuitamente, a spese non dello Stato, ma del Partito stesso. (quanti e quali paragoni contrapposti mi verrebbero in mente con l’uso odierno dei soldi del finanziamento ai partiti). Tali “scuole” raggiunsero una notevole fama, anche a livello internazionale, per la serietà degli studi, la disciplina dello sport, lo spirito cameratesco fra le ragazze e la vita gioiosa e serena che vi si conduceva. Le organizzazioni femminili fasciste furono affidate esclusivamente alle donne e la Segretaria Nazionale rispondeva del suo operato soltanto al Segretario dei Partito, il quale esercitava esclusivamente vigilanza amministrativa e di coordinamento.
Il Duce in persona, con la sua politica rivolta al mondo femminile, fu il creatore del legame donna-fascismo. Il suo progetto politico mirò alla formazione di una nuova italiana: la donna fascista, attraverso un cambiamento della sua dimensione quotidiana che coinvolse sia gli aspetti più intimi e personali, quali la gestione del corpo, sia la sua formazione e l’inserimento sociale. Per la prima volta in Italia la donna veniva valorizzata e resa autonoma nelle sue scelte e nelle sue prospettive. Le fu affidato il settore più delicato e impegnativo, quello dell’assistenza all’infanzia e alle categorie disagiate e, in tale compito, ebbe piena autonomia e piena responsabilità. Le donne risposero con impegno e capacità inattese, era emancipazione, checché se ne dica .
In quel particolare clima spirituale, fatto di amore per la Patria, senso della disciplina, del dovere e del sacrificio, è facilmente intuibile il motivo per cui dopo il tradimento dell’8 settembre, tante giovani donne per l’indignazione che vanificava lo sforzo comune di più generazioni, si sentirono spinte a una scelta non soltanto politica, ma a difesa dell’onore stesso d’Italia. Anche le “giovani italiane” dell’ONB, come le sorelle maggiori, non esitarono ad abbandonare la casa, la scuola, gli affetti e le comodità, scegliendo una vita di disciplina e di sacrificio, pur di poter essere anche loro utili alla Patria. Esse vollero dimostrare in modo tangibile la loro ribellione all’ignobile tradimento e volontariamente si mobilitarono per schierarsi a fianco dei soldati italiani che combattevano nella Repubblica Sociale. Erano le donne di Mussolini, animate da puro ideale, spirito di avventura, fedeltà a un regime che consideravano immutabile e da un amore viscerale nei confronti dell’uomo che sentivano come un padre. Una ragazza di Salò racconta l’incontro con il Duce e di quei “lacrimoni” versati per l’immensa gioia di essere passata finalmente sotto il suo sguardo : «Quello che mi colpì del Duce fu l’espressione dei suoi occhi, che infatti non ho mai più dimenticato : sembrava che ci guardasse a una a una e che il suo stato d’animo, di fronte al nostro slancio, fosse di una gioia pensosa. Ciò che direi, oggi, è che il suo sguardo non aveva nulla del leader che insuperbisce alla vista di coloro che lo acclamano : viceversa, era quello di un padre che è sì orgoglioso dei propri figli ma anche, in un suo modo segreto, preoccupato del loro avvenire; e preoccupato, anzi, assai più del loro destino che del proprio».
Nel gennaio 1944 il giornalista Concetto Pettinato scrisse su La Stampa un appassionato articolo, Breve discorso alle donne d’Italia : «Un battaglione di donne: e perché no? Il governo americano si è impegnato a gettare le nostre figlie e le nostre sorelle alla sconcia foia dei suoi s
oldati d’ogni pelle. Ebbene, perché non mandarle loro incontro davvero, queste donne, ma inquadrate, incolonnate, con dei buoni caricatori alla cintola e un buon fucile a tracolla?». A Milano, in Piazza S. Sepolcro, circa 600 giovani donne si radunarono spontaneamente a ribadire la loro volontà di partecipare in modo attivo al conflitto, chiedendo di essere arruolate. Situazioni analoghe si verificarono in altri centri della Repubblica Sociale Italiana. Cominciarono così a costituirsi gruppi femminili in servizio presso i Comandi Militari. Data l’alta affluenza e la determinazione di tante donne si fece sempre più concreta l’idea di un arruolamento volontario femminile nelle file dell’Esercito Repubblicano.
oldati d’ogni pelle. Ebbene, perché non mandarle loro incontro davvero, queste donne, ma inquadrate, incolonnate, con dei buoni caricatori alla cintola e un buon fucile a tracolla?». A Milano, in Piazza S. Sepolcro, circa 600 giovani donne si radunarono spontaneamente a ribadire la loro volontà di partecipare in modo attivo al conflitto, chiedendo di essere arruolate. Situazioni analoghe si verificarono in altri centri della Repubblica Sociale Italiana. Cominciarono così a costituirsi gruppi femminili in servizio presso i Comandi Militari. Data l’alta affluenza e la determinazione di tante donne si fece sempre più concreta l’idea di un arruolamento volontario femminile nelle file dell’Esercito Repubblicano.
Il Servizio Ausiliario Femminile venne istituito il 18 aprile 1944 e il comando fu affidato al Generale di brigata Piera Gatteschi Fodelli, già ispettrice nazionale dei Fasci di Combattimento Femminili, unica donna a rivestire un grado militare così elevato. Le volontarie erano divise in tre raggruppamenti: il Servizio Ausiliario Femminile per l’esercito, le Brigate Nere e la Decima Mas. Quest’ultima ebbe il SAF autonomo dagli altri due. Il comandante Valerio Borghese designò alla sua guida Fede Arnaud Pocek (veneziana, classe 1921) che, in precedenza al luglio 1943 si era distinta nel dirigere il settore sportivo del Gruppo Universitario Fascista.
La divisa delle “ragazze di Salò” era costituita da giacca sahariana senza collo e gonna pantaloni, entrambe di colore kaki, camicia nera, basco e fregi rappresentativi del corpo di appartenenza sul bavero e sulla fibbia del cinturone. La disciplina a cui venivano sottoposte era quella militare: le volontarie ammesse dovevano infatti frequentare corsi di addestramento che avrebbero cambiato totalmente le loro abitudini di vita. La giornata era scandita dallo squillo della tromba e iniziava con la sveglia, la pulizia personale, la colazione e l’alzabandiera, durante il quale le allieve recitavano la preghiera dell’Ausiliaria . Nello svolgimento dei loro compiti venivano adibite ai servizi ospedalieri come infermiere, ai servizi negli uffici militari, nelle mense nei posti di ristoro e alcune ausiliare vennero impiegate come ascoltatrici nella contraerea, come radiotelegrafiste e altre ancora furono attive nei reparti Sabotatori.
Comunque, per avere un’idea di quella che fu la portata di tale fenomeno e soprattutto della vastità dell’adesione che queste giovani donne diedero alla RSI, ricordiamo che “il 28 ottobre del 1944, in una relazione che il Generale Piera Gatteschi scrive a Mussolini, le ausiliarie del SAF in servizio nei vari settori erano 1.237, provenienti da sei corsi nazionali (…), e 5.500 le volontarie in addestramento nei ventidue Corsi Provinciali” – dati raccolti dall’Archivio Centrale Dello Stato- Roma. Nei documenti dei mesi successivi, invece, risulta addirittura che si arrivarono a contare quasi 10.000 ausiliarie in servizio, tutte di età compresa tra i 16 e i 24 anni. Provenivano da ogni ceto sociale e da ogni parte dell’Italia, erano in tante le ragazze non ancora maggiorenni, molte le spose, e parecchie anche le madri che si fecero ausiliare per andare incontro a un destino che sapevano già segnato. Alcune morirono, moltissime altre subirono sevizie materiali e morali da parte di soldati alleati e partigiani. Ciò che più lascia allibiti, infatti, è senza dubbio il tributo di sangue che queste giovanissime pagarono per difendere la loro fede.
Le prime ausiliarie che persero la vita furono le sei che morirono nell’attentato a Cà Giustiniano, a Venezia, il 26 Luglio 1944. Alla data del 18 Aprile 1945, invece, si contavano 25 cadute, 8 ferite, 7 disperse, 13 sottoposte a decorazioni. Ma non si conosce il numero esatto delle ausiliarie che durante le tragiche giornate di sangue di fine aprile e maggio furono massacrate o trucidate selvaggiamente dopo essere state violentate, torturate, seviziate dagli “eroici” partigiani . Infatti il SAF fu il reparto che, in rapporto a quello che era il suo organico, registrò la più alta percentuale di caduti.
Dopo il 25 aprile, la sopravvivenza o la morte delle ausiliarie furono dovute alla capacità e alla prudenza dei comandanti dei reparti cui erano aggregate, ma anche al caso e alla fortuna. Chi cadeva nelle mani degli Alleati, generalmente, dopo un sommario interrogatorio, veniva posta in libertà. Chi, invece, cadeva nelle mani di partigiani non comunisti, finiva in campo di concentramento, in attesa di accertamento per eventuali responsabilità personali e poiché responsabilità personali non ce n’erano, dopo qualche tempo tornava libera. Non ci fu scampo, invece, per le sventurate cadute in mano ai partigiani rossi che restano gli unici responsabili del massacro delle ausiliarie che non piegandosi all’odio comunista morirono con coraggio, molto spesso dopo aver subito violenze, stupri e sevizie e, per crudeltà mentale, dopo aver dovuto sfilare nude, con i capelli tagliati a zero, tra ali di gente inferocita, imbarbarita dall’odio fomentato dagli stessi aguzzini.
Un’idea precisa ed impressionante del clima in cui vennero a trovarsi le ausiliarie in quei giorni è resa da Antonia Setti Carraro, che ha narrato la sua testimonianza nel libro Carità e Tormento, scritto nel 1982, quando, ancora quarant’anni dopo, non riusciva a dimenticare le scene spaventose alle quali aveva assistito. Uno spettacolo allucinante in una Torino in preda all’odio e al sangue, con cadaveri disseminati dovunque. Sul Po «L’acqua», scrive Antonia Setti Carraro, «che era bassa e sembrava ferma, brulicava di cadaveri. A testa in giù, a braccia aperte, a gambe divaricate, a faccia in su, a pezzi o tutti interi, giovani, ragazzi, uomini, donne e fanciulle giacevano scomposti, aggrovigliati, ammassati, paurosi a vedersi, atroci nelle posizioni. Le ausiliarie erano impallidite in modo terribile». Questo racconto resta uno dei più sinceri nella descrizione dell’odio demoniaco di cui sono stati capaci certi italiani e si conclude con la quasi miracolosa fuga delle otto donne catturate poiché i loro carcerieri erano troppo impegnati a gustarsi, nei minimi particolari, l’agonia di un fascista .
Non si conosce il numero esatto delle ausiliarie che hanno perso la vita ingiustamente in quei giorni di follia omicida che
colpì vigliaccamente le figure più fragili, si parla di 300 o di oltre un migliaio a seconda delle fonti, ma non conta quante furono, conta l’infamia del gesto che le colpì fosse anche verso una sola donna.
colpì vigliaccamente le figure più fragili, si parla di 300 o di oltre un migliaio a seconda delle fonti, ma non conta quante furono, conta l’infamia del gesto che le colpì fosse anche verso una sola donna.
In conclusione voglio citare alcuni esempi di fulgido eroismo delle ragazze che vissero quei giorni bui: Giovanna Deiana, colpita al viso da una scheggia durante un bombardamento alleato, era rimasta cieca e nonostante questa menomazione, supplicò il Duce di essere accolta nelle volontarie del SAF, la sua richiesta fu esaudita e venne assegnata ai centri di ascolto della contraerea. Raccontano di lei le sue colleghe: «Attorno a sé rifletteva la serenità del suo spirito non piegato dalla prova. Era come se vedesse più profondamente di tutte». Raffaella Duelli, prima da ausiliaria della Decima, poi da assistente sociale di bambini disagiati, fino al suo ultimo giorno di vita si è dedicata al prossimo: «Nell’opera di recupero delle salme dei combattenti e nella quotidiana attenzione per chi soffre − qualità essenziale nella mia professione − c’è la stessa forza dei valori. Quegli ideali di solidarietà e patriottismo che animavano la mia prima giovinezza li ho trasferiti nell’impegno per i bambini delle periferie romane. Una certa idea della Patria non può essere disgiunta da quella di solidarietà e di giustizia sociale». Marilena Grill, di 17 anni, fu prelevata dai partigiani con la promessa ai genitori di riportarla a casa dopo un interrogatorio. Marilena volle indossare la divisa pensando che sarebbe stata uccisa, ma non venne fucilata, non subito, fu prima portata in un casolare di campagna dove fu ripetutamente violentata, le straziarono il corpo infilzandole i seni con la lama della baionetta, la torturarono sessualmente con bastoni fino a farla sanguinare, alla fine le spararono un colpo alla nuca e mantennero la promessa fatta al padre: la riportarono indietro, buttandola cadavere davanti la porta di casa. La storia dell’ausiliaria Franca Barbieri, proposta per la medaglia d’oro, è quella di un soldato. Catturata dai partigiani, le viene offerta la vita a condizione di passare nei ranghi delle loro formazioni. L’ausiliaria rifiuta. Di fronte al plotone di esecuzione grida “Viva l’Italia!” e cade sotto le raffiche dei mitra. Franca scrive nelle ultime righe consegnate prima della condanna a morte: «Non chiedo di essere vendicata, non ne vale la pena, ma vorrei che la mia morte servisse di esempio a tutti quelli che si fanno chiamare fascisti e che per la nostra Causa non sanno che sacrificare parole».
C’è un filo rosso che lega queste esperienze, una traccia comune che salda storie così diverse è il prezzo pagato dalle donne di Salò, che avevano servito l’Italia con fedeltà, spinte solo da motivazioni ideali, così delicate come un fiore e allo stesso tempo così forti da vestire con onore il grigioverde.
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