Abbiamo più volte affrontato il tema della denatalità, l’inverno demografico che grava sull’Italia minacciandone l’esistenza in quanto terra degli italiani. Ogni volta abbiamo constatato l’indifferenza con cui vengono accolte le analisi, provenienti da fonti irrefutabili, istituti di statistica e analisi sociale o soggetti di grande spessore culturale come il banchiere Ettore Gotti Tedeschi, e abbordano le gravi conseguenze economiche – oltreché storiche e culturali – del fenomeno.
La denatalità, cioè la progressiva scomparsa degli italiani, sembra non preoccupare alcuno. Di sicuro, se ne parla nei circoli riservati, ma per compiacersene. L’ ingegneria sociale sta raggiungendo il suo scopo, impedire il ricambio generazionale delle popolazioni di più antica , stratificata civiltà, abituate al pensiero critico, aperte allo spirito, dotate di filtri, antidoti culturali e morali per comprendere il progetto di dominio e stravolgimento antropologico in atto. I morti, tuttavia, non parlano e nemmeno i non nati, una popolazione fantasma di molti milioni.
C’è un elefante in cristalleria che tutti fingono di non vedere, che sta distruggendo quanto incontra sul suo cammino. A fine anno arrivano puntuali le analisi dei due principali osservatori sociologici della nazione, l’Istat e il Censis. Il primo sforna soprattutto dati e cifre, che, nell’ambito demografico, certificano nuovi primati negativi in termini di nascite, invecchiamento della popolazione, numero dei componenti dei nuclei familiari (se il termine ha ancora un senso). Più valutativo il Censis, che, oltre a fotografare la realtà, cerca di fornire chiavi interpretative dell’andamento e delle prospettive della nostra nazione.
La campana suona per noi, benché l’indifferenza popolare e politica nasconda non la polvere sotto il tappeto, ma l’elefante in cristalleria. Ci avviciniamo con passo veloce e fatale noncuranza alla fine dell’Italia. O almeno degli italiani. Presto il Bel Paese sarà irriconoscibile. Pochi abitanti autoctoni, moltissimi stranieri, il capovolgimento o la fine di una civiltà, di un modo di essere, di una lingua, di una cultura, di una visione del mondo. Altri verranno, la penisola non si trasformerà in deserto, ma non sarà più la nostra terra, la Patria, terra dei padri o madrepatria: le parole sono dure come pietre. L’appartenenza a un popolo parte dal riconoscimento della filiazione.
Di questo angolo di mondo fortunato per bellezza, varietà, clima siamo figli e custodi. O lo eravamo; tutto è finito nel momento in cui abbiamo rinunciato a essere padri e madri, negando o sperperando l’eredità ricevuta. La curva delle nascite ha cominciato a decrescere da mezzo secolo, il moto si è accelerato nell’ultimo trentennio e ha preso una velocità impressionante da una decina d’anni, in coincidenza con il declino generale della nazione, della sua economia, della sovranità, dell’influenza internazionale, dell’idea stessa di Italia.
Il Censis intitola la sua analisi – impietosa come può esserlo la nudità impressionante delle cifre – “un popolo di sonnambuli, ciechi davanti ai presagi” . Siamo come il regno di Re Lear di Shakespeare, this the time plague when madmen lead the blind, è la piaga del tempo quando i pazzi guidano i ciechi. Edgar conduce il padre Gloucester, accecato, verso la rupe di Dover. La nostra rupe è l’estinzione biologica del popolo italiano, estraneo a se stesso, impazzito e accecato.
Il dato che più impressiona è la sensazione di disarmo identitario e politico, la sfiducia nel futuro. La maggioranza è convinta di contare poco e i più pessimisti sono i giovani, una minoranza sempre più sparuta. In ogni società, i giovani rappresentano la speranza, l’ottimismo, la freschezza, il tesoro proiettato nel tempo. Da noi, ogni indicatore segnala che sono la parte più desolata del paese. Il senso di impotenza dinanzi al futuro coinvolge oltre il sessanta per cento dei connazionali, sfiorando i due terzi nei giovani. L’avvenire non attrae: una caratteristica dei vecchi. Siamo un popolo in senilità, non soltanto anagrafica.
Colpisce il dato sulla globalizzazione, che per sette italiani su dieci ha portato più danni che benefici. Regna un devastante sentimento di rassegnazione: l’ottanta per cento (84 per cento tra i giovani) è convinto che l’Italia sia irrimediabilmente in declino. La decadenza è inarrestabile. Sono poco più di dieci milioni gli italiani tra i diciotto e i trentaquattro anni, il 17,5% della popolazione, mentre nel 2003 erano un quarto della popolazione. In vent’anni abbiamo perso tre milioni di giovani e le previsioni sono devastanti: nel 2050 saranno appena il quindici per cento del totale.
Finis Italiae, anche perché viviamo contemporaneamente fenomeni di immigrazione sostitutiva e di emigrazione massiccia. Gli italiani all’estero sono oltre il dieci per cento della popolazione, superano gli stranieri regolari e sono in grande crescita. In un solo anno sono espatriati ottantaduemila connazionali, specie giovani. Importiamo estranei di basso livello culturale, professionale, civile, esportiamo laureati e persone qualificate. Chi ha in mano un mestiere, fugge senza nostalgia. Il numero di anziani e vecchi aumenta costantemente . Sono un quarto della popolazione e si avviano a diventare un terzo. Più soli, spesso senza figli. Il numero medio dei componenti delle famiglie è tragicamente basso e scende ogni anno. Nel 2023 la media statistica è 2,31.
Le coppie con figli diminuiscono allo stesso ritmo e costituiranno presto solo un quarto del totale, mentre le famiglie unipersonali (un ossimoro …) arriveranno al 37 per cento e saranno in maggioranza anziane. Uno scenario da incubo; l’elefante in cristalleria rovescia ogni previsione economica, sociale, esistenziale e modifica in modo irreversibile il futuro dell’ Italia. Di che parliamo, infatti, quando dibattiamo del domani, se manca il soggetto, ovvero noi stessi ? Discettare del futuro in assenza di chi dovrà viverlo è surreale, grottesco.
L’attuale governo ha per lo meno inserito la denatalità tra i problemi da affrontare: è il primo passo, ma i fatti concreti mancano. C’è denaro per tutto – a partire dalle armi – non per invertire la curva demografica. Ogni giorno che passa è una pietra sottratta all’edificio patrio. In tempi nei quali conta solo la ragione economica, le prime misure devono riguardare il sostegno alle nascite in termini economico sociali. Un fisco tarato sul numero dei componenti il nucleo familiare, asili e scuole di prossimità, aiuto economico ai genitori per i primi anni di vita dei figli, contratti di lavoro a tutela della maternità e tutto ciò che può aiutare concretamente le coppie.
Altrove in Europa tali politiche hanno funzionato; da noi potrebbe andare anche meglio, tenuto conto della persistenza delle reti familiari italiane. Tuttavia, le misure economiche e le provvidenze sociali resteranno cure palliative senza un energico cambio di passo culturale rispetto ai temi del valore della famiglia, della trasmissione della civiltà, dell’accoglienza della vita. Tutto va nella direzione opposta: ogni rilevazione certifica la paura dei giovani rispetto a legami forti, alle responsabilità, all’accoglienza di figli.
Anziché gioie o – come si diceva una volta – benedizioni del Signore, i nuovi nati sono ritenuti palle al piede. Impediscono la “realizzazione”, specie delle madri (dis)educate a considerare la maternità un incubo e un limite al pieno godimento della vita; i figli rendono più poveri, meno liberi per le vacanze, obbligano, sono “per sempre”. Tutte cose di cui ha orrore l’umano fluido postmoderno. Se una coppia desidera una famiglia numerosa – o almeno un paio di bambini – oltre alle difficoltà economiche e pratiche, troverà difficilissimo reperire un’abitazione in grado di ospitare chi nasce, a meno di non disporre di somme rilevanti. L’intera società è a misura di adulti giovani, sani, performanti, solitari.
La legge è orientata a consentire il suicidio di Stato degli anziani e dei malati e destina somme rilevanti a finanziare l’aborto, che è uno degli effetti del disinteresse per la vita nascente. Difficile immaginare un sistema più stupido, che paga per impedire la nascita di nuovi membri. Nei primi anni di denatalità, esisteva ancora la possibilità di politiche in grado di aumentare i consumi per compensare lo squilibrio tra fasce di età, che ha enormi ricadute economiche e danneggia il Prodotto Interno Lordo. Oltre un certo limite – che stiamo superando – ciò non è più possibile. Si sconvolge la composizione della spesa – privata e pubblica – aumenta in maniera insostenibile il costo della previdenza, della sanità e dell’assistenza mentre diminuisce la produzione. Mancanza di consumatori unita a carenza di manodopera.
L’unica soluzione immediata, se si vuole mantenere il livello di benessere e salvare il sistema, è l’immigrazione massiccia. Uno dei massimi responsabili di trent’anni di decadenza, Giuliano Amato, disse una volta che ben strano è l’atteggiamento degli italiani: non amano gli immigrati ma non fanno figli. Vero, ma che cosa ha fatto, da uomo di potere di lunghissimo corso, per invertire la tendenza? Adesso invoca una legge che legalizzi il suicidio dei malati. Morte prematura, nascite impedite o scoraggiate in una società che diffonde solo consumismo, corsa al piacere immediato, soddisfacimento di desideri e capricci.
Per dirla in termini economici, un figlio è un investimento a lungo termine: altamente sconsigliato nel tempo del profitto a breve termine, di “tutto e subito”, della vacanza come progetto di vita. Non resta che rassegnarsi ? No davvero. Innanzitutto perché non tutto è finito finché non è tutto finito (C. Malaparte); non possiamo perdere patria e civiltà senza batterci. Poi perché – ne siamo convinti – il mondo ha bisogno degli italiani. Diventerà più povero senza la nostra bellezza, la nostra arte e cultura, senza il senso della vita specificamente nostro, che non potremo trasmettere a chi ci sostituirà in questa lunga e stretta penisola tra le alpi e il mare una volta “nostrum”.
Eppure, dell’inverno demografico, dell’estinzione della nostra gente non sembra importare ad alcuno. O meglio, a uno importa: è Giorgio Agamben, il più prestigioso filosofo italiano, in disgrazia dal 2020 per le sue posizioni non allineate nel periodo pandemico.
Così scrive l’autore di Homo sacer su quodlibet.it . “Si è parlato di una fine dell’Europa, se non dell’Occidente, come dell’evento che segna drammaticamente l’epoca che stiamo vivendo. Ma se c’è in Europa un paese in cui alcuni dati permettono di certificare con sobria precisione la data della fine, questa è l’Italia. I dati in questione sono quelli della demografia. Tutti sanno che il nostro paese conosce da decenni un declino demografico che lo classifica come il paese europeo con il più basso tasso di natalità. Ma pochi si rendono conto che questo significa che il perdurare di questo declino condurrebbe in sole tre generazioni il popolo italiano verso l’estinzione. È per lo meno singolare che ci si continui a preoccupare di problemi economici, politici e culturali senza tenere conto di questo dato, che li vanifica tutti. Evidentemente come non è facile immaginare la propria morte, così non si ha voglia di immaginare una situazione in cui non ci saranno più italiani. Non mi riferisco ai cittadini dello Stato italiano, che un po’ più di un secolo fa non esisteva e la cui sparizione in fondo non mi preoccupa più di tanto. Mi rattrista piuttosto la possibilità perfettamente reale che non ci sia più nessuno per parlare italiano, che la lingua italiana divenga una lingua morta. Che, cioè, nessuno possa più leggere la poesia di Dante come una lingua viva, come Primo Levi la leggeva ad Auschwitz al suo compagno Pikolo. Questo mi rattrista infinitamente di più che la scomparsa della Repubblica italiana, che del resto ha fatto tutto quello che poteva per condurre a quella fine. Resteranno, forse, le meravigliose città, resteranno, forse, le opere d’arte: non ci sarà più il “bel paese là dove ‘l sì suona” . L’ ultimo spenga la luce.
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