La musica arriva a ondate poi silenzio improvviso stridore fruscii riprende chitarre batteria parole spezzate versi monchi. I cd rimasti sparsi alla luce alla polvere senza copertina o il lettore di modesta marca. Cristiano dorme cullato da ritmi distorti da urla luciferine da un universo ove le antiche armonie giacciono a frantumi disperse e sepolte da amplificatori tastiere cavi elettrici. Platone e Schopenhauer e Wagner e la Carmen di Bizet tanto cara a Nietzsche sono pensionati relegati su panchine solitarie in giardinetti di periferia. Ogni melodia è morta. Rifugio d’anime, dicevano. Forse lo era un tempo. Mio padre trascorreva le ore sui libri di storia e ascoltando la musica classica in radio. Io già mi facevo crescere i capelli indossavo pantaloni di velluto di un bel rosso vinaccia e m’ingruppavo per andare ai concerti e dei Rolling Stones e di Bob Dylan e Joan Baez. Nei pressi di Aquisgrana contro gli USA in Viet-nam. Il corpo e l’anima, l’idea delle belle forme, la kalòs-kai-agathìa, le vetrate dai colori rosso ed oro delle cattedrali gotiche. Ora, in vista dell’abbronzatura sulle spiagge, culi e tette e pancia da rassodare palestre altra musica sparata a raffica.
(Mishima Yukio, lo scrittore giapponese, si diede la morte con il tradizionale rito del seppuku, alla ricerca della coincidenza di ‘sole e acciaio’, dopo aver frequentato le palestre di culturismo e, al contempo, impratichitosi nell’arte della spada, il kendo. Rito che si tradusse in tragica imperfezione quasi a dimostrare come la modernità e la tradizione non possono fra loro coabitare, neppure nell’estremo istante…).
Ed io, qui, alla tastiera. Il tavolo ingombro di carte e penne e appunti e i libri. Oggetti desueti, relitti di un naufragio annunciato, rantolo, estremo spasmo. Io stesso, fra di loro, forse sono già carne putrescente, brulicare di vermi. Ho tirato fuori da dietro una pila di libri ammucchiati La confessione di Artur London, ed. Garzanti, che m’era stato dato, diversi anni fa, da Emilio insieme ad altri dopo la morte di Mila. Volume di oltre quattrocento pagine. Abbandonato per così lungo tempo. E, oggi, chissà per quale motivo, iniziato a leggere. E la dedica ‘A Leo con tanto amore’, a firma di Mila con la sua calligrafia rotonda e svolazzante, la data del 24 agosto del ’71.
(Penso. In quell’anno in quel mese di agosto, giravo la boa del tempo in cui misurai lo spazio tre metri per sei o ‘l’ora d’aria’ in un cortiletto affollato dai muri alti grigi e sporchi. Penso. Quante cose la vita degli altri, di persone che mi furono care, che si intrecciarono alla mia, tornano – per caso o per oscure finalità – per dirmi ciò che ho perduto e perduto per sempre. E quando s’è resa ricordi, l’è già finita).
La confessione, pubblicato appunto nel ’71, è quella dell’autore e di alcuni dei suoi compagni della Repubblica Cecoslovacca, tutti iscritti al partito comunista, molti di loro già nelle Brigate internazionali in Spagna, con ruoli di prestigio nell’apparato e nel governo, processati nel novembre 1952 – pochi anni dopo il ‘colpo di stato’ del ’48 – con l’accusa ‘di tradimento, sabotaggio, spionaggio, al servizio degli imperialisti americani e di tentativi di restaurazione del capitalismo’. Dei quattordici imputati undici furono condannati a morte e impiccati, tre finirono all’ergastolo, fra costoro l’autore appunto di questo libro – spietato e freddo e agghiacciante. Tutti avevano confessato i loro crimini, tutti erano innocenti. Un processo, fra i tanti, onda lunga di quelli che, in Unione Sovietica, avevano visto negli anni Trenta decimare i vertici del Partito delle Forze Armate degli intellettuali.
Lo scrittore ungherese Arthur Koestler, già vicino al comunismo, nel 1941 pubblicò a Londra, in lingua inglese, il romanzo Buio a mezzogiorno sull’arresto la detenzione e il processo e l’esecuzione di un alto funzionario sovietico. Libro divenuto celebre, quale denuncia non soltanto dell’eliminazione di eventuali oppositori a Stalin, ma di come, pur innocente, l’imputato finisse – ‘dovesse’ – ammettere reati mai commessi. Una sorta di parodia tragica di morale rivoluzionaria, di giustificazione della forza e della spietatezza del potere stalinista. E quei verbali, veline precostituite, ci parlano di uomini che finirono per credersi in colpa verso il Partito e gli ideali che in esso si incarnavano. Un romanzo, comunque, si disse…
Buio a mezzogiorno, pur con la forza d’essere simile a veritiera testimonianza, resta una narrazione con il ‘rischio’ e l’’accusa’ di esprimere sentimenti e scelte di campo del suo autore. Credo che tanta cretineria di sinistra si sia espressa in tal senso e per screditare libro e per isolare lo scrittore. Ne Il Dio che è fallito, fra gli intellettuali che vi scrissero, Koestler svela entusiasmo e disincanto della sua scelta. Non si può dire la medesima cosa per questa ‘confessione’. L’autore narra le sue vicende e dei suoi coimputati – tutti inossidabili ‘compagni’ –, con una forte carica di pathos, emozioni, sentimenti feriti increduli contrastanti, ma con documentazione di nomi e fatti – fra l’altro il processo fu reso pubblico – di facile confronto e verificabilità. Di più: egli è un militante comunista – né dissociato né pentito, si sarebbe detto negli anni bui del terrorismo nostrano. Sua moglie francese, comunista anch’essa, è solita ripetere ‘chi comincia a dubitare del partito cessa di essere comunista’…
Sarebbe facile fare della tragica ironia sulla ‘strage delle illusioni’ (Leopardi, il gobbo di Recanati dall’alito fetido il complesso verso le donne e i versi immortali, qualcosa di ancora vivo e attuale ci potrebbe insegnare) che vissero tanti comunisti tra essere fedeli al Partito e scoprire come si generasse una ‘nuova classe’ di burocrati feroci e privilegiati. Noi che abbiamo visto i carri armati del Patto di Varsavia sferragliare in Piazza San Venceslao a Praga o, in autostop, attraversare l’Ungheria e la Romania e risalire lungo la Jugoslavia, qualcosa abbiamo raccontato delle contraddizioni di quel mondo che voleva essere un paradiso e s’è reso un grigio triste inferno… Oggi, poi, i resti di quella illusione ridicoli e patetici quando lesti e sfrontati, sposati e dediti al più volgare e lucroso liberismo, negano d’essere mai stati attratti dalle icone falce e martello balletti dell’Armata rossa ‘le biciclette di Shangai’ (verso lapidario di Franco Battiato). Caro Giorgio Gaber, ci mancano i tuoi monologhi!
Sarebbe troppo facile – come sparare sulla Croce Rossa – ed anche triste, partendo da questo libro, scrivere dello sfacelo a cui abbiamo assistito, compreso il crollo del muro di Berlino. Da giovani, bastoni in mano, ci siamo scontrati con quei coetanei che si facevano, tronfi e faciloni, portatori dell’ideologia marxista (confondendo il più delle volte il pensiero di Marx e dintorni con la resa storica, la sua deriva). Poca cosa, si dirà, ma pur sempre ottima scuola di vita per strada… Facile e triste perché, comunque e nonostante tutto, vi furono milioni di uomini e donne, che in buona fede vi aderirono combatterono si sacrificarono. E, in nome di quell’utopia, inganno e mistificazione certo, accettarono ogni rinuncia ed anche ogni insorgere di domanda critica. Quando c’è di mezzo il proprio sangue versato, si può loro perdonare?
Non è mio intento, qui, ripercorrere quattrocento ed oltre pagine de La confessione – le pagine crude della sofferenza morale e fisica (alcune ci hanno riportato, senza pretesa di medesimo strazio, alle sbarre e chiavistelli di Regina Coeli); le pagine della sofferenza tra il conservare la purezza del cuore e il cedimento della carne che forte (altro che le chiacchiere vane e stupide dei dispregiatori del corpo) chiede più vita; le pagine di personaggi, molti spregevoli, che brulicano all’ombra sordida e viscida di ogni potere. Pagine di storia dimenticate lontane ormai simili a reperti primitivi. Non è mio intento, anche perché, ogni giorno e più sovente, mi sento d’appartenere, su altra sponda, a razza in via d’estinzione. E lo specchio mi s’è reso avverso.
La musica – è ancora tale? – imperversa dominante ed ignara. Voci frammenti ritmi richiami urla silenzi improvvisi e brevi. Come i ricordi. Effimere onde ad infrangersi sulla riva per poi risucchiate nella vastità del nulla. Così gli uomini, carne ossa sangue sudore sperma, avanzano si manifestano si intristiscono si disperdono. A chi dice La confessione qualcosa? E Artur London? Nel retro della copertina la fotografia rimanda un volto appassito dagli occhi spenti la calvizie ormai evidente. Una fotografia in sè vecchia, anch’essa segno di tempi perduti. Tutto sa di inutile, di sciatto…
(O forse, no, forse v’è altra angolazione. ‘Puoi tu scomparire?’, così il Buddha contro la prosopopea eterna del Brahma… E’, forse, quel Da-sein zum Tod di cui Heidegger insegnava. Scegliere per non essere scelti. Vivere, frammenti ritmi richiami voci e tanto basta. Poi, com’era stampigliato sulla prima tessera della mia adesione alla Giovane Italia ‘noi abbiamo ancora una bandiera da innalzare al sole e una canzone da gettare al vento’).