di FRANCO G. FREDA
Lo dice con chiarezza estrema Virgilio quali dovrebbero essere l’ambizione dell’arte e i suoi effetti nel mondo. La Bucolica VI introduce un personaggio del tutto antiretorico per insegnare la via ai poeti: Sileno, zampe di capra e membro colossale, ancora zuppo del vino con cui si era ubriacato la sera prima.
Eppure, appena il satiro comincia a cantare -e c’è tutto, nel canto, l’origine del mondo e il suo destino di trasformazione, odio, amore, il ritmo delle stagioni, i miti attraverso cui l’uo -mo può riconoscere se stesso (ovvero diventare quello che è) – seduce bestie e dèi, al punto che l’Olimpo intero si indigna quando scende la sera interrompendo i suoi versi.
La sera scende, sempre. Il miracolo non può mai essere quello che vorrebbe davvero: una palingenesi totale. Ma per il tempo che dura, le querce si spostano e i fauni e le fiere danzano insieme, e la pietas poetica vede tutto, riconosce tutto, come «intrecciato, incatenato, innamorato », esattamente allo stesso modo dello Zarathustra nietzschiano (che infatti si può comprendere mille volte di più attraverso Virgilio che attraverso Heidegger e gli altri scoliasti incapaci dei «pensieri-del-cuore»).
Così l’accadimento di proporzioni enormi, il furto del fuoco da parte di Prometeo, viene accostato all’accidente minuto, tenuissimo: il rapimento di un giovane da parte di una ninfa dell’acqua che se lo inghiotte nelle proprie correnti.
Il canto trascina il poeta e una piccola sventura può prendergli la mano per versi e versi, come quando racconta del folle amore di Pasifae, la moglie di Minosse, per un toro bianco. Tutto quello che Sileno, che Virgilio tocca si trasforma in oro. Più potente di un dio, il poeta: l’Olimpo è lì che ascolta trasognato, anche se il tempo continua a galoppare verso il baratro della notte.
La Bucolica VI ci insegna le accortezze necessarie quando parliamo di «grande stile», quando tiriamo fuori questo aggettivo pericolosissimo, odiatissimo, temutissimo: grande. Grande è anche il piccolo o il piccolissimo, se contemplato ad una certa altezza.
È inutile: il vero legislatore dovrebbe essere il poeta, che sa queste cose, a patto che fosse un vero (e completo) poeta, non un semplice scriba dalla vena musicale con gli occhi supini verso la falce di luna. Il languido Stil novo (ottimo titolo per un libro che raccoglie un mare di fuffa) lasciamolo a Matteo Renzi.
Occorre di più, per muovere le querce e far danzare le fiere, per scalzare tutto questo malaffare, per tappare i buchi trentennali che si aprono sul corso centrale di Avellino, per uscire dallo stallo annichilente della politica prosaica. Occorre lo slancio del poeta virgiliano, del filosofo greco, di chi sia capace di un fare vigilato dalle regole dell’arte e di volere oltre l’evidenza paralizzante dei guai attuali (mica anime belle – intendiamoci – anche se «il bello », per Rilke, «non è che l’inizio del tremendo»).
In esseri del genere doveva confidare il duro acume di Vilfredo Pareto, quando scriveva con amarezza e disincantata maturità: «Lo scopo è unico ed è di evadersi dalle ideologie democratiche della sovranità della maggioranza. A questa rimanga l’apparenza, poiché essa lusinga potenti sentimenti, ma vada la sostanza ad una élite, poiché è per il meglio oggettivamente».
Non penso proprio che il marchese Pareto avesse in mente questi surreali prestigiatori della finanza.
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