O bestie impotenti:/ per chi non ha denti/ è fatto a pennello/ un Giulio Giorello! È inutile: continua a venirti in mente, pagina dopo pagina, e devi scacciarla come una mosca, la canzonetta risorgimentale con cui Giuseppe Giusti sfotteva quell’altro campione di nerbo e schiena dritta, Carlo Alberto: Il Re Travicello. Oh comodo, oh bello/ un Giulio Giorello. No, così non si fa, il nostro Ipse è pur sempre un epistemologo, cioè un filosofo della scienza, illustre cattedratico all’Università di Milano e firma d’occasione del Corriere della Sera.
Giulio Giorello, con quell’allitterazione infantile e polposa, gi gi, e uno svagato sound anni ’30. Ora è in libreria la sua ultima fatica, Il tradimento (Longanesi), pacco (bomba? …) di 277 pagine, copertina noir, che, a dispetto delle apparenze, non è un’autobiografia.
Fa tanto bordello/ un Giulio Giorello? Eh, sì che ne fa. Eccome. Intende infatti sostenere questa tesi: che il tradimento non è la cosa orribile che credevamo. Che, anzi, il traditore è un paladino della spontaneità e tradire con puntualità ci evita di far inceppare il tapis roulant del progresso. Il tradimento favorisce le conquiste dell’umanità. È sintomo di libertà (era ora che esplicitassero il nesso subdolamente taciuto dai tempi della Grand Révolution). Senza il tradimento non ci sarebbe stato nemmeno il Cristianesimo (roba da mettersi a piangere a dirotto, mancava solo quella). E, naturalmente, cosa ti allega Giulio Giorello come dimostrazione paradossale della validità del proprio enunciato? Il codice sassone ripreso dalle SS: «Il nostro onore si chiama fedeltà». Di questa fedeltà – dice, con un sorriso sgamato – non ne abbiamo certo bisogno. Piuttosto, viva Giuda e viva Jago. Un fenomeno, lo Jago shakespeariano, il più creativo e brioso di tutti i traditori: l’unico che tradisca solo ed esclusivamente per il gusto di tradire, perché quel pivello di Bruto pugnalò invece Cesare solo per amore di Roma, non per genuina e gratuita delizia e sincero e radicale spirito di libertà… Se non avessi il libro tra le mani non ci crederei, ma tant’è. Giuro (senza incrociare le dita dietro la schiena).
Giulio Giorello l’amore è bello vicino a te? Ma proprio neanche un po’, dato che le corna sono come minimo assicurate. E la politica, orgia collettiva non meno complessa e delicata dell’amore, non ne parliamo. D’altronde, occorre ben dare una spintarella decisa a ’sto progresso, se si vuole che l’agnello possa dormire accanto al lupo e la palude ingoiare tutto, eleggendo infine come unico re (Travicello) il topo. Sennò si va avanti, sì, ma a velocità di crociera (magari con il comandante Schettino in plancia – e non si capisce perché sul libro di Giorello non compaia una dedica esplicita a questo eroe della Liberazione Assoluta). Basta con il complesso dell’8 settembre. Il nostro epistemologo vuole chiudere per sempre le pagine incresciose de La pelle di Malaparte, quelle riaperte con sarcasmo amaro da Romano Bracalini in Paisà, che se non ti fanno fremere di orrore non sei degno di dirti uomo. Evidentemente lui ha superato l’obsoleta condizione di uomo – l’uomo che lo vedi dalla parola, come il bue dalle corna. E via! Via tutti, filosofi e no, a rotta di collo verso il progresso dei progressi: l’entropia totale, la notte in cui tutte le vacche sono nere e i tori sono a farsi fare un’operazione a Casablanca.
O bestie impotenti:/ per chi non ha denti/è fatto a pennello/ un Giulio Giorello!
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