A qualcosa dovrà pur servire tutta questa roba che tanto vi incanta – fa una vocetta stridula fuori campo. Dico qualcosa di pratico, -aggiunge – di concreto. È sicuro che ci arrendiamo a lui, il demonietto. Che apriamo le braccia e ammettiamo che la sapienza e la bellezza, in fondo, non combinano proprio niente nel campo della materia. E invece no. A me basta aprire un vecchio catalogo Electa sull’arte giapponese e mi passa perfino il caldo. Meglio dell’aria condizionata. Dice Cristina Campo, addirittura, che una delle poche cose che vale la pena portarsi in galera per non impazzire sia un tappeto persiano, coi suoi mille simboli diventati arabesco. Non una scatola di ansiolitici. Buoni anche i tappeti tibetani antichi da preghiera, comunque.
Apri la finestra e senti il chiasso: la rabbia di gola del diesel, l’isteria dei clacson. Apri il catalogo d’arte giapponese e non senti più niente. Neanche te stesso; ed è per questo che le vendite dell’editoria sono in calo. Troppo individualismo, in giro, troppo narcisismo, troppa egolatria. Le vendite dei cosmetici non vanno mai giù: quelle dei libri precipitano. Certo, un po’ è anche che se ne stanno stampando di esageratamente indegni per non giustificare almeno in parte la disattenzione del lettore. Però non basta. L’imperatore di oggi, il popolo sovrano, tra la libreria e la profumeria manda a morte la libreria. E intanto soffre il caldo, suda e impreca.
L’imperatore giapponese, invece, era anche lui un poeta, come notava Abel Bonnard, già ministro dell’Istruzione nella Repubblica di Vichy, uno che di certe cose poteva proprio occuparsi data la quantità di elegia che ha ospitato in vita. Straordinario l’apologo che raccontava in un suo scritto: «L’imperatore Murakami volle sostituire un susino morto nel suo giardino. Ne vide uno che lo tentò, nel giardino di un poeta della corte, e lo fece trapiantare nel suo. Ma la figlia del poeta compose un poemetto, che lasciò attaccato a un ramo: “Poiché è l’ordine del Mikado, / obbedirò con la gioia più grande. / Ma che cosa risponderò / quando la capinera ritornerà / a chiedere della sua vecchia dimora?” Murakami rimase così colpito da quei versi che fece subito riportare l’albero al suo primo posto – e nulla è più giapponese di quest’aneddoto che riconnette l’uno all’altro: un susino, una fanciulla, una capinera e l’imperatore».
È inutile che, adesso, il termostato segni 31,5. Chi ci crede? Leggo un haiku: «Tre eravamo nella camera,/ una peonia, un usignolo, e noi due!» Si fa beffe di tutte le leggi della fisica, la bellezza! E vuoi mettere tra gli integratori salini e le dita d’oro del Buddha congiunte ad anello, a disegnare il simbolo che i matematici hanno assegnato all’infinito. I mandala: una vertigine concentrica. Le armature dei samurai, che se non sapessi cosa sono scambieresti per paramenti sacri (e lo erano, sacri, quando la guerra era ancora liturgia e non veniva affidata, com’è oggi, a prosaici bodyguard). L’acqua che fluttua intorno ai templi e alle pagode («Nobilissima è l’acqua» – echeggia uno dei nostri giapponesi, da leggere e rileggere, se possibile in originale: il greco Pindaro). L’acqua che scompone il mondo in miriadi di rifrazioni, mostrandocelo nella sua vera natura, effimera e fluttuante, e basta un colpo di vento a disperderlo. I fiori di ciliegio, miniature finissime sul codice della vita.
C’è uno schizzo fatto da Abel Bonnard che dice tutto di lui e tantissimo a noi. Raffigura tre barche a vela. Tre barchette quasi naïf, dolcemente in fuga nella brezza. Ah, trovargli un porto a quelle tre vele! Nessun archistar si offre per il progetto? (A proposito, piccolo dubbio non proprio fuori tema: ci va o non ci va l’apostrofo tra «nessun» e «archistar»? Sarà maschile o femminile? Chissà. Magari è un neutro, via.)