di Mario M. Merlino
Parigi, rue des Ecoles, in parallelo alla Senna, dove si affacciano gli ingressi della Sorbona e del Collège de France. Uno slargo con un giardinetto al centro, square (strano: si preserva il termine inglese) Paul-Langevin. Qui, nel 1933, fu collocata la statua di François Villon, opera applaudita dello scultore René Collamarini. Un giovane dai capelli mossi e spettinati, ricadenti sulla fronte, esile nel saio grigio, quasi proteso nell’ansia di andare oltre, chissà dove, chissà perché. Ben rappresenta il senso di inquietudine, l’insofferenza, una certa ira nascosta e pronta a dominarlo, la tensione di un corpo che gioca tutto se stesso in nome di un vivere disordinato e ribelle…
Il testamento di un condannato si apre con i seguenti versi: “A trentacinque anni – prigioniero come Villon, – incatenato come Cervantes, – condannato come Andrea Chénier, – prima dell’ora dei condannati, – come altri in altri tempi, – su questi fogli scarabocchiati – inizio il mio testamento”. Poesia datata 22 gennaio 1945, quindici giorni prima d’essere legato al palo nel forte di Montrouge e quivi fucilato, la sciarpa rossa al collo e la fotografia della madre sul cuore. Un testimone di quei giorni infami nella prigione di Fresnes, Parigi, ricorda come un annunciatore della radio la leggesse di notte dai finestroni delle celle, dando un momento di irripetibile e sincera commozione e di solidarietà a quella umanità avvilita eppur mai doma e ancora divisa con le sue storie e contrasti. L’autore è quel fratello il più caro, cioè Robert Brasillach.
Questo inizio ricorda tanto il Testamento del poeta François Villon (nato a Parigi nel 1431- sconosciuti l’anno e il luogo della morte, di sicuro dopo che la condanna a morte per impiccagione gli era stata commutata in un bando di dieci anni dalla capitale, in data 5 gennaio 1463). “L’anno che i miei trent’anni volge, – che l’onte mie ho tutte bevute, – non tutto savio, non tutto folle…”. Del resto uno dei maggiori critici francesi dell’800 lo considera una sorta d’incunabolo per la poesia moderna. Ed Ezra Pound, con l’ausilio della pianista Agnes Bedford, compose Le Testament de Villon(Londra 1920-’21), convinto che suo tramite si realizzasse un nuovo rapporto parole e musica oltre la notevole influenza esercitata soprattutto sulla poesia inglese.
Il primo poeta ‘maudit’, secondo alcuni (e non a torto, a mio parere, se il verso s’accompagna al vissuto) tipo di poeta maledetto tanto caro a figure del decadentismo, Baudelaire e Rimbaud in primis, e, successivamente, alla modernità tutta giocata su chiaroscuri ambiguità esistenze sofferte e in eterna contraddizione, ove di notte la luna e le stelle si riflettono nei rigagnoli dei vicoli malfamati delle città. In quei rigagnoli all’ombra dei portoni dietro i vetri sporchi e appannati delle bettole in stanze d’affitto maleodoranti dalle lenzuola rattoppate in letti disfatti. Eppure è in questo mondo dove sorgono misteriose creature, angeli decaduti in libera sfida con Dio in nome della pietas, e aleggia la visione del paradiso perduto.
“Tutti morimmo a stento – ingoiando l’ultima voce – tirando calci al vento – vedemmo sfumare la luce”… Dall’album dal titolo Tutti morimmo a stento, anno 1968, di Fabrizio de Andrè e volutamente eco de L’epitaffio di Villon, meglio conosciuta come Ballata degli impiccati. “Fratelli umani che ancora vivete, non abbiate per noi indurito il cuore, – … – la pioggia ci ha lavati e lisciviati, – e il sole disseccati e fatti neri; – le piche e i corvi gli occhi ci han cavati, – e strappato dal cranio e ciglia e peli. – Non ci è dato ristare un sol momento; – e di qua e di là, a mutar di vento, – senza posa balliamo a suo piacere…”.
(Non ricordo come mi trovai, probabilmente inseguendo una fanciulla dai capelli rossi e il volto sottile cosparso di efelidi, alla presentazione del LP alla libreria Rinascita, sotto la storica sede del Partito Comunista in via delle Botteghe Oscure. Nome sinistro e adatto per quel palazzo grigio massiccio blindato e acquistato con l’oro della Repubblica, i suoi misteri i suoi assassinati. E, per motivi, che ignoro, eravamo ben pochi ad ascoltare Fabrizio tanto che finimmo in una pizzeria nei paraggi a discutere intorno alla sua paura della morte, a François Villon e al film Il Settimo Sigillo del regista svedese, con giovanili simpatie nazi-, Ingmar Bergman. E, ancor oggi, sono tentato di inserire Fabrizio De Andrè in quella nobile scalcinata compagnia, a volte ben simile a L’armata Brancaleone, di cui mi onoro far parte senza blasone distintivo e medaglie).
Alcuni sospettano che dietro il cognome di Villon (preso in omaggio al cappellano che si fece suo protettore quando, alla prematura scomparsa del padre, François era ancora bambino, e che gli consentì di licenziarsi presso la Facoltà delle Arti di Parigi) si nasconda un intellettuale del tempo e che tanta parte della sua vita errabonda e malfamata, l’omicidio di un prete la sera del 5 giugno 1455 durante una rissa e, l’anno successivo, il furto nel collegio di Navarra, l’esperienza tetra delle prigioni, non sia altro che una esagerazione postuma.
Io rammento un film del 1936, probabilmente visto in televisione negli stessi anni dell’incontro con De Andrè, dal titolo La foresta pietrificata. E lo ricordo, direi quasi mi commosse (eh, già! anche noi, nichilisti, abbiamo un cuore!), in quanto una giovane Bette Davis legge la raccolta di poesie proprio di Villon e, nella scena finale, cita un verso dalla Ballata per Robert d’Estouteville, che cito a memoria: “nel campo tuo fiorirà la mia speranza”. In questo campo, magari vittima delle intemperie e dell’incuria, ma mai arido della fierezza e della speranza (guizzo, forse un po’ stronzo, ma so che mi volete bene e perdonate qualche ‘merlinite’ d’eccesso…), che tu mi lasciasti a testamento nella notte del 21 dicembre 1969…