8 Ottobre 2024
Animali Etica Livio Cadè

Fratello maiale – Livio Cadè

Prossimità dell’animale

I cercopitechi sono piccoli primati molto intelligenti. Secondo gli zoologi comunicano tra loro attraverso un linguaggio e una sintassi di sorprendente complessità. Il celebre naturalista A. E. Brehm racconta di aver un giorno sparato a uno di questi animali, che stava tranquillamente appollaiato su un ramo. La scimmietta cadde ai piedi dell’albero. Seduta, si tergeva il sangue che colava dalle ferite. Senza emettere alcun gemito, prima di morire fissò Brehm, e “c’era qualcosa di così umano, di così nobile e di così calmo nel suo sguardo” che il suo assassino ne fu profondamente commosso, al punto che da quel momento non poté più svolgere ricerche scientifiche che implicassero l’uccisione di scimmie. “Mi sarebbe parso di uccidere un uomo”.

Anche il maiale, secondo gli etologi, è un animale dotato di straordinarie capacità mentali, per alcuni il più intelligente dopo lo scimpanzé. Eppure, per soddisfare la richiesta crescente di pancetta e salsicce, ne macelliamo un miliardo e mezzo ogni anno. Sgozzati, appesi ad un uncino a testa in giù per farli dissanguare e immersi in un calderone d’acqua quasi bollente, senza curarsi se siano ancora vivi e coscienti. Ci pensavo, per contrasto, guardando la foto di un uomo che accarezza un maiale con atteggiamento amichevole e fraterno. Messaggio francescano, di riconciliazione tra l’uomo e la natura?

No, nessun ‘fratello maiale’ e nessun invito a mostrare più umanità o pietà verso gli animali. Secondo l’articolo che l’accompagna[i], tale immagine di fraternità avrebbe anzi qualcosa di perverso, rifletterebbe “un’ideologia apertamente nemica dell’uomo sino a volerne la morte”, “un odio di sé”, “un’etica rovesciata”, sarebbe patologica manifestazione di una società terminale. Il rispetto per gli animali viene presentato come complice di deliri gender e transumani nel provocare il disfacimento della civiltà, nel “traghettarci verso la fine”. Dovessi trarne una spiccia morale, direi che ammazzare gli animali è più giusto che amarli. Non possiamo vedere in loro un nostro ‘prossimo’ né includerli nel precetto di «non fare agli altri…» ecc.

L’Anticristo

Il rifiuto di considerare gli animali soggetti ontologicamente rispettabili è radicato nella nostra cultura cristiana. È nota la profezia di Solov’ëv, secondo cui l’Anticristo sarà pacifista, vegetariano, animalista. Non credo però che il filosofo russo ponga, come condizione per essere buoni cristiani, il dovere di mangiar carne e sganciar bombe sulla testa della gente. Bisogna infatti considerare che 1) il supposto Anticristo non potrà realmente amare la pace e gli animali, solo simularlo, 2) “l’Anticristo è animalista ergo gli animalisti sono degli anticristo” sarebbe come dire “il cammello è vegetariano, quindi i vegetariani sono cammelli”.

Se no, dovremmo pensare che anche la condizione di pacifica armonia con gli animali in cui Dio pone i nostri progenitori nell’Eden sia ‘anticristica’. Lo stesso Cristo potrebbe apparirci un Anticristo quando dice «vi lascio la pace, vi do la mia pace», quando offre come modello di vita l’essere “mite e umile di cuore” o quando gli ripugna vedere il Tempio trasformato in una “spelonca di briganti” dove si fa orribile mattanza di animali. Non possiamo sapere se Gesù avesse accolto la prassi essena del vegetarianismo, ma secondo alcuni teologi – tra cui Benedetto XVI – l’Ultima Cena fu celebrata secondo il rito esseno, che rifiutava l’uccisione dell’agnello. Per altro, san Paolo afferma che «tutto il creato geme e soffre nelle doglie del parto» e «anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria». Sarebbe logico desumerne che anche gli animali son compresi in un disegno cosmico di salvezza e santificazione.

Artificio polemico 

L’articolo sposa tutt’altra prospettiva, e questo è naturalmente ammissibile. Mi pare tuttavia che la sua impostazione critica soffra di una limitazione nei presupposti e nelle conclusioni. Si basa infatti sull’estrapolazione di alcune frasi di Singer, di cui enuclea i parossismi ideologici rendendoli di fatto rappresentativi dell’animalismo tout court. È un artificio polemico, sorta di sineddoche retorica che sostituisce il tutto con una sua piccola parte, un vasto e articolato discorso con una sua appendice contemporanea.

La nostra è un’epoca di derive: spiritualiste, orientaliste, ecologiste, ambientaliste ecc. Sarebbe quindi sorprendente se nell’animalismo di oggi non trovassimo estremismi e fanatismi. Potrei dunque convenire sul pericolo di una certa ‘alienazione’ animalista. Tuttavia, gli argomenti proposti nell’articolo restano in fondo estranei alla sostanza reale del problema, non trattano di quel rispetto in toto della vita predicato da Tolstoj, Schweitzer e altri pensatori cristiani, ma già compiutamente enunciato in Zoroastro, Pitagora, Plutarco ecc. E sembrano non sospettare minimamente che sia invece la nostra brutalità con gli animali a rivelare un’alienazione umanista.

L’autore infatti nega l’epiteto di “progresso morale” e giudica disumanizzante un’etica che intenda garantire diritti e protezione agli animali. E non trovando necessario fare una distinzione tra l’animalismo giainista e quello di Leonardo, G. B. Shaw, Singer, Rollin, Reagan o altri, sembra condannare in blocco un’unica filosofia, un pensiero che non esita a definire “la più compiuta regressione, la negazione di ogni anelito spirituale” o “una concezione dell’uomo bassa, volgare, negativa”.

Anti-animalismo cristiano

Il rispetto imparziale degli esseri, senza distinzioni di specie, è un’idea ricorrente nella cultura classica e nelle religioni ariane. È una concezione unitaria della vita nel cosmo e insieme la speranza – o l’illusione – di mitigare l’inveterata crudeltà dell’uomo. Questa problematica è invece quasi del tutto ignorata nelle religioni di ceppo semitico, e l’autore ha ragione di opporla a una tradizionale “visione cristiana”, come all’idea che l’uomo sia “misura di tutte le cose”.

Da parte mia, penso che il Tutto trascenda la capacità dell’uomo di misurarlo. Possiamo al massimo esser misura della nostra umanità, e a volte neppure di quella, ignari come siamo delle ragioni profonde che la costituiscono. D’altro canto, è indubbio che una certa tradizione biblica ha eclissato e osteggiato per secoli la questione del rispetto degli animali.

Questa visione anti-animalista è paradossalmente un’interpretazione ‘animalesca’ della vita, perché ratifica il diritto naturale della forza dandogli carattere religioso. Questa idea – essenzialmente antievangelica – si è storicizzata nel tipico ‘macho’ cristiano, dominatore del mondo in quanto essere umano, bianco, battezzato, dotato di attributi virili, e quindi chiamato a sottomettere chi – animali, donne, altre razze e religioni – difettasse di una o più di queste prerogative.

Ambivalenza e senso di colpa

Finché siamo legati a un contesto culturale e psicologico in cui la tenerezza e il riguardo verso gli animali rappresentano un attentato alla virilità e alla sovranità dell’uomo, in cui l’esser vegetariani è giudicato un’eresia, è logico che l’animalismo appaia un pericoloso capovolgimento di prospettiva, un’ideologia “tesa a colpevolizzare l’uomo e sconfiggere verità e natura”. In quest’ottica diventa impossibile per l’uomo riconoscere le proprie colpe. Non credo che i conquistadores provassero rimorso dopo aver massacrato uomini, donne e bambini indios. Potevano sempre trovare nella Bibbia un passo che li giustificasse. Così, non vediamo alcuna colpa nel trattare gli animali senza pietà, perché lo riteniamo conseguente alla nostra superiorità metafisica e naturale.

Il cristiano è perennemente in bilico tra l’etica della carità e le logiche del potere, tra Nuovo e Vecchio Testamento. Questa ambivalenza traspare anche nell’articolo, quando sostiene che l’animalismo sostituisce l’etica dei “legami propri dell’umanità” con un’etica degli attributi, una morale cioè che assegna un valore agli esseri in relazione agli attributi “di razza, intelligenza, sesso, capacità” che ciascuno di loro possiede. Ciò lo renderebbe “strumento ideologico di dominio”, portatore d’una tesi che è “la massima promotrice della violenza e dell’ingiustizia nella storia umana, giacché ha giustificato ogni sorta di prevaricazione”.

Dunque, l’autore sostiene il dovere di difendere i deboli dalla prepotenza dei potenti, mentre l’animalismo esprime secondo lui idee che “rappresentano infine la vittoria del più forte e del più cinico”. Non nego vi sia chi propone assurde misurazioni dell’imponderabile, come il chiedersi se un topo adulto sia più o meno razionale di un perfetto idiota, o se un maiale sia più intelligente di un bambino appena nato ecc., cercando di stabilire la rispettabilità e i diritti dei soggetti in proporzione ad alcune loro indefinibili facoltà. Ma un diritto che si fondi su una logica degli ‘attributi’, delle forze, è radicalmente contrario all’etica della tradizione animalista. È quel principio che viceversa il nostro umanesimo, nonostante le sue nobili dichiarazioni di intenti, ha sempre concretamente perseguito, con le conseguenze antiumane e anticristiane che ben conosciamo.

Supremazia dell’appetito sul pensato

Che l’animalismo voglia “costringerci a cambiare le nostre abitudini alimentari umane,  tradizioni e usanze” è vero in parte. L’animalismo non costringe nessuno, è una filosofia, non un decreto legge. Afferma però che i nostri consueti modelli di vita devono cambiare, perché causa di sofferenza e di ingiustizia. Non possiamo difenderli con irrazionale sentimentalismo, senza riconoscere quanto vi è in essi di sbagliato o di orribile. Il problema è che cambiarli ci spaventa. E non è casuale che l’autore metta al primo posto, tra i valori minacciati, “le nostre abitudini alimentari”. Questa, per quanto possiamo dissimularla o sublimarla, resta infatti la grezza sostanza dell’anti-animalismo.

La violenza sugli animali, prima che da ragioni religiose o culturali, dipende dall’incoercibile tradizionalismo dello stomaco. Le forme di ritualità con cui assumiamo gli alimenti evocano e assicurano la continuità dell’esistere, rappresentano i legami con i nostri istinti più profondi. Noi attribuiamo un’inconscia sacralità all’atto del mangiare. È quindi inutile portare motivazioni etiche per indurre qualcuno a una conversione alimentare, per esempio rinunciando alla carne cui è avvezzo. Le pulsioni gastriche prevarranno sempre, guidando oscuramente i nostri pensieri e sentimenti,  più indomabili delle stesse pulsioni sessuali. Si trasformeranno in razionalizzazioni e resistenze – obiezioni mediche, filosofiche, religiose, economiche ecc. – che sono in realtà un riflesso fisiologico, un automatismo difensivo rivolto contro chi vorrebbe contraddire i nostri gusti trofici e le abitudini del nostro apparato digerente.

Una superiorità controversa

Non penso invece che l’animalismo voglia abolire “la concezione che l’uomo ha di sé stesso come essere radicalmente diverso dagli altri viventi”. Non desidera “equiparare l’uomo e il verme” o “animalizzare l’uomo”. Noi condividiamo con tutti gli altri esseri senzienti l’esperienza del dolore e del piacere, ma ogni vita esprime una diversa organizzazione della coscienza e necessità peculiari. L’animalismo non vuol certo concedere agli animali il diritto al voto o all’istruzione ma solo proteggerli dalla barbarie degli uomini.

Poiché questo è ovvio e banale, immagino che l’autore intenda con “essere radicalmente diverso” un’esclusiva peculiarità metafisica, “condizione di esseri razionali”, un requisito sottile che permette la nostra “apertura all’infinito, al trascendente”. L’uomo sarebbe dunque una sorta di eccezione preternaturale: solo lui ha un’anima immortale, è cosciente di sé e di Dio. Sovrasta gli animali perché titolare di uno speciale statuto ontologico, è loro superiore in modo assoluto e incommensurabile, e questo giustifica il suo dominio. Ma questa idea non rappresenta infine “la vittoria del più forte”, non assicura all’uomo diritti e privilegi secondo una “logica degli attributi”?

Infinità dell’uomo e nullità dell’animale

Inoltre, sembra indubbio che anche gli animali possano ragionare – qui la differenza con l’uomo, per quanto enorme, è di grado, non di sostanza. Dopo tutto quello che la tradizione ci ha trasmesso, che l’osservazione ci rivela e che la stessa scienza ha confermato, considerarli esseri irrazionali sarebbe irrazionale. E crederli senz’anima è un chiaro arbitrio metafisico, o il residuo di proposizioni dogmatiche. Trovo inoltre contraddittorio pensare che solo l’uomo sia aperto “all’infinito, al trascendente”. Significherebbe porre un evidente limite all’infinito e al trascendente, subordinandoli alle nostre misure umane. Ma anche ammettessimo questo limite nell’animale, il motivo di fondo dell’animalismo non ne verrebbe pregiudicato. Il principio su cui si regge è infatti il rispetto della vita, la compassione per chi patisce violenza. È una risposta al dolore, non una richiesta di titoli metafisici, attestati di razionalità o di trascendenza.

L’articolo teme che un’etica animalista possa distruggere “i confini tra le specie che legittimano il primato sugli animali”. La conseguenza di questo ‘primato’ è che, ponendo la dignità dell’uomo a distanza infinita da quella dell’animale, la stessa insensibilità dell’uomo per il destino delle altre creature diviene infinita. È giusto quindi restare indifferenti se ogni anno centinaia di milioni di cani, scimmie, maiali ecc. vengono sottoposti agli orrori della vivisezione, se miliardi di animali vengono imprigionati in orribili gabbie, costretti a una vita d’inferno e infine brutalmente ammazzati. Cos’è il dolore di un animale, per quanto atroce, in confronto al più piccolo beneficio o piacere umano? Se la differenza tra noi e loro è infinita, quel dolore è nulla.

Contraddizioni simboliche

Questa incolmabile distanza è l’effetto delle operazioni simboliche più o meno consapevoli con cui cerchiamo di decifrare il mondo. Dovremmo quindi interrogarci sulle ragioni di un pensiero astratto che può occultare, distorcere o surrogare la realtà. Chiederci perché non notiamo alcuna incoerenza nel condannare l’aborto di un feto umano o nel querelare qualcuno per uno schiaffo, e poi non trovare nulla di riprovevole nel torturare e sterminare gli animali. Riflettere sui motivi che portano tanti a compatire un’orsa e intanto restare indifferenti alla strage quotidiana di vitelli e maiali.

Incuranti di antinomie e dissociazioni cognitive, possiamo fare dell’animale il simbolo di valori che vanno rispettati e difesi dalla violenza del potere, farne l’oggetto di attenzioni amorose e insieme collocarlo in una dimensione simbolica che lo priva d’ogni dignità e tutela. L’animalismo è un tentativo di rettificare gli apparati simbolici e i pregiudizi che determinano il carattere prevaricante dei nostri rapporti con gli animali, o almeno di portarli alla coscienza. È dunque logico che l’autore lo consideri un’arma “con cui espropriarci della nostra specifica dignità e della responsabilità nei confronti della natura”, perché minaccia l’establishment simbolico di un umanesimo che è per lui “premessa della giusta protezione verso animali e creato”.

Ma io temo che questo umanesimo sia appunto solo una teorica premessa, un’astrazione destinata a non tradursi mai in un fatto. Quando mai l’Occidente è stato protettivo nei confronti degli animali? Quando mai ha dimostrato – non solo a parole – una reale responsabilità nei confronti del creato? Ed è vero che abbiamo una “nostra specifica dignità”. Ma ci è stata espropriata da tempo e non certo dagli animalisti. Sono le nostre logiche di potere che hanno reso gli uomini ipocriti e servili. Solo degli esseri liberi – come quella scimmia morente – potrebbero  ricordarci cos’è la dignità.

Un vuoto fondamentale

Nell’insieme l’articolo comunica una fredda noncuranza per il dolore degli animali. Non ne parla affatto, assume atteggiamenti razionalistici con l’aria di chi ignori la pietà. Non ricorda neppure una volta i tormenti degli animali, parla quindi di ‘animalismo’ senza menzionare la sua stessa raison d’être. Il discorso è così svuotato del suo midollo, circoscritto in considerazioni cerebrali che lasciano da parte il cuore problema. Vi difetta il senso dell’incarnazione, dei corpi che sanguinano, spasimano e muoiono. Mancano le catene, i lamenti, le agonie.

Questo è per altro coerente con un’impostazione di fondo che definisce e difende l’umanesimo proprio in quanto distacco e sprezzatura dell’animalità, alta concezione della vita che non può abbassarsi al dolore di creature umili, inferiori, senza perdere la sua nobiltà. L’amore portato agli animali sembra in conflitto con quello dovuto agli uomini. Perciò le loro sofferenze vanno rimosse. Anche perché non potremmo osservarle con freddezza senza ammettere di approvare la crudeltà e l’orrore. L’animalismo è così sradicato dal suo centro, che è morale e affettivo, e portato in una periferia di problemi incorporei. Non dobbiamo piegarci a curare le piaghe degli animali ma denunciare le ferite dell’umanesimo, la sua nobiltà oltraggiata.

Oltre l’umanesimo

È questa idea di ‘umanesimo’ che va superata. Io credo in un paradosso: l’uomo diviene pienamente umano solo se trascende la propria umanità. Ed è forse questo che lo rende “radicalmente diverso”. L’uomo è l’unico animale che può esser animalista. Non possiamo dire: «il ragno mangia la mosca, il leone la gazzella, è l’ordine immutabile delle cose» e con ciò credere d’aver illuminato il senso della vita e confutato ogni romantica illusione di non-violenza. In realtà la vera illusione è il pensare che “non siamo noi crudeli, è la natura”. Perché forse il ragno non ha coscienza della propria ‘ragnità’ né il leone della propria ‘leonità’, forse l’uno è inguaribilmente aracnocentrico e l’altro leocentrico, mentre l’uomo può uscire dal suo antropocentrismo.

Io posso vedere dentro e oltre la mia umanità, sentirmi parte di un disegno comune e di un destino che affratella uomini e animali. Quando comprendo che tutto ciò che vive è chiamato alla libertà e incluso in uno stesso piano di salvezza, mi sento chiamato a rispondere della vita, a difenderla e accudirla in tutte le sue espressioni. Mi apro a una trascendenza che non è un privilegio umano ma un patrimonio condiviso e universale. Quello che sta conducendo rapidamente la civiltà occidentale alla dissoluzione, alla necrosi dei suoi valori spirituali, è proprio la chiusura nel suo umanesimo, l’aver tratto le estreme conseguenze dalle sue premesse etiche e teologiche, dai suoi modelli egemonici, dalla sua visione dell’uomo come essere opposto alla natura.

Utopia e profezia

Eresia, ideologia anti-umana e contro-natura, sintomo di una civiltà agonizzante e farneticante, questo è in sintesi l’animalismo dell’articolo. Per me[ii] è invece un’antica utopia, il viatico d’una vita migliore. È la speranza di purificazione e liberazione dalla colpa atavica dell’assassinio, ricerca di una soluzione pacifica al problema della convivenza tra gli esseri che abitano il pianeta. Non è l’incubo di una società terminale ma il sogno di una civiltà germinale, ricca di nuovi fermenti. È la nostalgia e il desiderio di un giardino ideale dove uomo e animali possano ritrovare l’originaria amicizia.

Noi non potremo assaggiarne i frutti, né i nostri figli o nipoti. Ci vorrà molto tempo ancora prima che l’umanità vomiti il frutto avvelenato del suo umanesimo, della sua conoscenza del bene e del male. Ma un giorno impareremo a riconoscere l’essenza spirituale – atman, soffio divino – di tutto ciò che respira, e a onorarla. Allora anche in un maiale potremo vedere un fratello, un membro di un’unica immensa famiglia, perché nel suo sguardo, come nella povera scimmia di Brehm, c’è l’abisso dell’anima. E concederemo un po’ di pace a questa terra martoriata.

[i] Roberto Pecchioli, “Le ideologie antiumane dell’occidente terminale”

[ii] Cfr. “Uomini e animali” e “Ma non c’è un Dio?”

39 Comments

  • Paola 21 Maggio 2023

    Per come la penso, condivisibile dalla prima all’ultima parola. Grazie per questo pezzo eccellente, che dà voce anche ad altri (incapaci, come la sottoscritta, ahimè, di esprimere il medesimo sentire a tale livello. Che altro aggiungere? Nulla. È stato detto tutto.

    • Paola 21 Maggio 2023

      …tranne il fatto che non ho chiuso una parentesi…;)

    • Livio Cadè 21 Maggio 2023

      La ringrazio. In realtà, ci sarebbe ancora molto da dire, ma si uscirebbe dai limiti di un articolo. E infine, resterebbe ancora tutto da fare. Ma su questo non nutro molte speranze. Oggi soprattutto si dirà sempre che c’è ‘ben altro’ di cui occuparsi che delle condizioni di vita degli animali. C’è persino una normativa europea sul “benessere animale”. Siamo tranquilli. I maiali, in gravi condizioni di sofferenza fisica e psichica, si mordono la coda, procurandosi sanguinamenti e infezioni. Quindi, per risolvere il problema, l’allevatore taglia la coda ai maiali. Pratica barbara, ma niente paura. Interviene l’Unione Europea e vieta il taglio della coda. Così il maiale starà come prima, ma almeno potrà continuare a mordersi la coda.

      • Francesco Maggi 22 Maggio 2023

        Mi meraviglierebbe riscontrare in una qualunque disposizione UE un autentico spirito di elevazione e miglioramento. Tutto ciò che proviene da questa Orwelliana costruzione giuridica è finzione e capovolgimento morale.

        • Paola 22 Maggio 2023

          Eh…detto elegantemente…

        • Livio Cadè 22 Maggio 2023

          Però, in fondo, bisogna riconoscere che alla UE il benessere animale sta a cuore quanto il benessere umano, cioè non gliene frega niente né dell’uno né dell’altro.

          • Paola 22 Maggio 2023

            Preferirei che non gliene fregasse nulla. A volte (?) ho il dubbio (?) che se ne occupi a modo suo.

          • Livio Cadè 22 Maggio 2023

            Sì, ha ragione. Anch’io talvolta (?) ho l’impressione (?) che le stia a cuore il nostro malessere (nel senso che gode nel danneggiarci).

  • Claudio Murru 22 Maggio 2023

    La condizione dell’uomo, dallo stato edenico e primordiale ad oggi, è profondamente cambiata.
    Siamo alla fine di un ciclo.
    Anche l’alimentazione è cambiata.
    L’ultima Tradizione di questo ciclo, l’ Islam, prevede (secondo il Corano e la Sunna cioè l’imitazione del comportamento del Profeta Muhammad) che l’uomo possa anche alimentarsi di carne animale, purché macellata ritualmente, rendendola halal, cioè pura e lecita.
    Una studiosa e ricercatrice ha voluto controllare, tramite encefalogramma ed elettrocardiogramma, le reazioni dell’animale mentre veniva macellato ritualmente e quest’ultimo risultava essere calmo e tranquillo al di là di certe reazioni fisiche.
    Detto questo, ognuno è libero di seguire l’alimentazione che crede, però l’articolo, su alcuni punti, mi lascia decisamente perplesso perché si inserisce in un quadro che il suo stesso autore ha delineato citando Solovev.

  • upa 22 Maggio 2023

    L’empatia e la compassione sono sentimenti nobili che implicano una certa inclinazione a uscire dalle forme per rinvenire l’essenza; e mentre le forme sono tutte diverse, l’essenza, che poi è la vita, è partecipata da tutto ciò che esiste, e l’uccisone di un animale è sentita come una propria esperienza e valutata intimamente come la propria morte.
    Chi non ha questa sensibilità, non può cogliere il dolore che prova chi la possiede, e valuta tutto come un costrutto ideologico senza fondamento.
    L’errore dell’impostazione morale è che si cerca un algoritmo di comportamento che ci eviti di scegliere il dare la morte o non darla in funzione di regole prescrittive che non possono esistere, perché non è l’atto in sé da giudicare ma il fine a cui sottende.
    Se uccido per non morire di fame, l’atto è nobile, mentre se uccido per diletto, il fine è ignobile, e bisognerebbe domandarsi se tutte le bistecche mangiate hanno il fine giusto o quello sbagliato.
    Se il fine è giusto, sicuramente non implicherebbe la mattanza miliardaria di animali, che invece è relativa al fine ignobile di esagerare la nutrizione, che alla fine provoca malattie come giusta ricompensa
    “Stipendium peccati mors”..
    Ovviamente, questo problema, esperienziale e non morale, può essere valutato solo da chi possiede empatia, e chi non la possiede è costretto a seguire le regole della società in cui vive, e contestarle se vengono cambiate, perché le sue radici sono tutte in Terra o sottoterra e non in Cielo.
    Inutile fare disquisizioni morali che non implicano la sensibilità ai fini perseguiti, perché ognuno considera i propri fini come superiori teorizzandoli mentalmente alla bisogna.
    E se la ragione superiore non ci arriva, allora sarà il tempo a porvi rimedio..e l’uccisore incosciente verrà ucciso dalle stesse sostanze che ha evocato o mangiato.
    Mangiare un seme di grano è come far abortire la spiga, si impedisce che il seme diventi pianta..e anche in questo caso verremo puniti, se l’uccisione non è legittima, con malattie diverse dall’ingestione di carne ma pur sempre disagi che possono uccidere chi opera senza criterio.
    Insomma, alla fine dovremo sempre interrogare il buonsenso che riflette il “senso superiore”..e chi il buonsenso non ce l’ha. è condannato..come chi ce l’ha e non ha la forza di seguirlo.
    Cos’è la vita, se non una lotta per affermare la verità che il “mentitore” ci tenta a sopprimere?
    Con le discussioni non ne verremo mai a capo, perché il Diavolo è un ottimo teologo..ma se trascendiamo la mente e lasciamo parlare la compassione, allora tutto sarà più chiaro…ma quanti sono in grado di farlo? Ma a noi cosa interessa? Ogni uomo è un Universo, e ognuno può aspirare a perfezionare il proprio, senza venir distratto dagli universi altrui che sono infiniti.

    • Paola 22 Maggio 2023

      Ben ritrovato, Upa.

    • Natascia 23 Maggio 2023

      Condivido il suo pensiero. Credo tuttavia che nell’attuale animalismo domestico ci siano degli atteggiamenti egoistici e regressivi che non hanno nulla di empatico con l’animale stesso e che isolano sempre più le persone fino all’odio verso l’umanità. Trovo che questi siano degli argomenti approfonditi e divulgati al fine di sensibilizzare gli umani tra loro perché non può’ esserci empatia univoca verso gli animali senza sospettare l’abuso.

      • Livio Cadè 23 Maggio 2023

        Lei può aver ragione. Ci sono degli eccessi. Però non si può generalizzare e dire che “chi ama gli animali non ama gli esseri umani” o – colossale sciocchezza! – che “le coppie non fanno più figli perché preferiscono cani e gatti”. Ho l’impressione che le obiezioni all’animalismo siano in genere un pretesto per evitare il problema vero, ovvero la crudeltà motivata da ragioni di profitto e di piacere, o per giustificare – teoricamente, metafisicamente ecc. – la propria scelta carnivora.

    • Livio Cadè 23 Maggio 2023

      Sì, è un problema di empatia, compassione, legato alla propria esperienza interiore. Questo non toglie che vi sia in ogni società una elaborazione formale dei sentimenti – cioè una morale, un’etica condivisa – che influisce sulla nostra percezione della realtà. In questo senso la nostra tradizione morale ci porta a considerare legittimo uccidere o torturare gli animali. Per questo vi sono filosofi, pensatori, che cercano di introdurre in questa moralità elementi nuovi, razionali oltre che affettivi, che contemplino anche il rispetto delle altre specie viventi.

      • Livio Cadè 23 Maggio 2023

        …in risposta a upa.

        • upa 23 Maggio 2023

          Bè…l’elaborazione concettuale e morale attecchisce verso chi è già predisposto ad accettarne i fondamenti, essendo dotato di compassione, ma risulta indigeribile per chi è pronto ad accusare di “reductio ad animal”chi osasse pensare di avere qualcosa in comune con questi esseri, oltre la semplice esistenza, svuotata del suo significato essenziale.
          Per la persona sensibile, l’uguaglianza con l’animale riguarda la partecipazione al Principio, anche se in forma inconscia; rinvenire lo stesso amore per la vita, e il dolore che provoca strapparla dalla carne..mentre il “tradizionalista” vede l’abbassarsi dell’uomo nella solidarietà tra inferiori e l’abbassamento nell’ordine gerarchico voluto da Dio, gerarchia fondata sul “potere” e non sull'”essere”, che poi è il vero nodo della percezione più o meno empatica.
          Le morali vengono sempre imposte dal potere, essendo il popolo incapace di elaborarne una propria, e per popolo non intendo chi non comanda ma chi è disposto naturalmente a farsi comandare.
          In India c’è un grande rispetto per gli animali perché è stato imposto dall’induismo, mentre da noi chi li rispetta è accusato di apostasia e adesso pure di fare il gioco delle forze sataniche e transumaniste.
          Il saggio non sa dove posare il capo, che arriva la condanna di empietà….e il detto che il silenzio sia d’oro, acquista un fascino sempre più convincente, anche se di difficile realizzazione per naturale disprezzo degli appetiti che volano bassi..ma che pur ci devono essere nella distinzione tra le genti.

          • Livio Cadè 23 Maggio 2023

            “In India c’è un grande rispetto per gli animali perché è stato imposto dall’induismo”. È questo che intendevo. Al di là dei sentimenti personali di compassione ed empatia, è possibile un’etica condivisa, basata su presupposti filosofici e religiosi. Sappiamo che da noi questi presupposti non esistono, ma non è impossibile, nel tempo, crearli…

  • Claudio Murru 24 Maggio 2023

    Qualsiasi forma tradizionale ha rispetto per gli animali anche se non li pone sullo stesso livello dell’uomo.
    A partire dall’ Induismo, l’erede più diretto della Tradizione primordiale, sino all’Islam, forma ultima e Sigillo della Tradizione, vi è un totale rispetto per gli animali.
    Come, del resto, vi è un totale rispetto per la Manifestazione di cui gli animali, appunto, fanno parte.
    La decadenza antitradizionale non può che portare allo sfruttamento sconsiderato della natura e perciò anche degli animali.
    Ci sarebbe da auspicare un ritorno al Sacro ma, al punto in cui siamo, ci si può attendere solo una catastrofe e su questo le Tradizioni sono unanimi: il ritorno al Sacro ci sarà ma, purtroppo, in forma traumatica.

    • Paola 24 Maggio 2023

      “…ritorno al Sacro…ma in forma traumatica.” Cosa intende? Mi interessa e non so se ho compreso correttamente. Grazie, se mi risponderà.

      • Claudio Murru 24 Maggio 2023

        Semplicemente che le varie Tradizioni, da quella indù a quella islamica, da quelle degli Indiani d’America a quelle degli Aborigeni australiani, prevedono, per i tempi ultimi, avvenimenti di portata catastrofica.
        Bisogna tuttavia precisare che, anche se le dottrine escatologiche destano interesse e curiosità, non bisogna farsi sopraffare da tali aspetti, tenendo sempre ben presente che, la nostra vita, può terminare da un momento all’altro ed allora sapere che questo mondo finirà nel 2030 oppure nel 2050, non ci sarà di alcun aiuto.
        In ogni caso, ciò che in alcune Tradizioni è designato come il ritorno di Gesù, è in realtà un avvenimento di portata generale, interessando quella ristretta minoranza di uomini, a qualsiasi Tradizione appartengano, che qualcuno, giustamente, considerava come i germi del ciclo futuro.
        In realtà il discorso dovrebbe essere maggiormente esaminato e specificato ma, preferirei non andare oltre…

  • Claudio Murru 24 Maggio 2023

    Gli aspetti escatologici appassionano molti che poi si dedicano ad approfondire queste tematiche, a volte, in maniera quasi ossessiva.
    Sapere che il ciclo, e quindi questo mondo, termini nel 2030 o nel 2050, non ci serve a progredire spiritualmente.
    Dovrebbe invece essere sempre presente la consapevolezza che la nostra vita può terminare da un momento all’altro.
    Comunque, tornando alla “fine dei tempi”, mi pare che ci sia un accordo unanime, fra le varie Tradizioni, nel prevedere avvenimenti molto pesanti e di portata planetaria: che si tratti della Tradizione indù o di quella islamica, delle Tradizioni degli Indiani d’America o di quelle degli Aborigeni australiani, esiste un comune denominatore che è la durezza traumatica dei tempi finali.
    Eppure, nonostante tutto ciò, esisteranno uomini in grado di sacrificarsi (proprio nel senso etimologico del termine) e quindi di seguire la rimanifestazione di quella Realtà spirituale che, in alcune Tradizioni, è designata come il ritorno di Gesù ma che trova un perfetto equivalente anche nelle altre.
    Pensare di poter stabilire, a priori, cosa accadrà, quando accadrà e dove accadrà, rientra nelle tentazioni del temibile orgoglio che ogni uomo dovrebbe strenuamente combattere.
    Apparteniamo a Dio e a Lui facciamo ritorno.

  • Claudio Murru 24 Maggio 2023

    Ho inviato due interventi analoghi, quindi mi scuso

  • Livio Cadè 25 Maggio 2023

    La tradizione indù non prevede una fine dei tempi ma un andamento ciclico legato alla rotazione del Sole (ossia del Sistema solare) intorno a un grande centro detto Visnunabhi, che sarebbe sede di Brahma, nucleo di potere e di intelligenza universale. Questa rotazione si compie in 24.000 anni terrestri. Ogni 12.000 anni il Sole tocca il punto più vicino al Centro, per poi allontanarsene gradualmente e toccare, dopo altri 12.000 anni, il punto più lontano. La vicinanza del Sole (e quindi della Terra) alla sede di Brahma produce un’umanità spitualmente illuminata, dotata di grande conoscenza, grande armonia e pace, grande virtù morali e intellettuali. Viceversa, la lontananza, determina periodi oscuri, materialistici, di ignoranza, sofferenza e violenze. Il ciclo di 12.000 anni (Daiva Yuga) può in questo senso essere crescente o decrescente. Disegna un percorso ‘stagionale’, suddiviso in 4 periodi (yuga): Kali yuga è il più oscuro e lontano dal Centro, e dura 1.200 anni. Segue Dvapara yuga (2.400 anni), poi Treta Yuga (3.600 anni) e infine Satya Yuga (4.800 anni), che è il periodo più luminoso (la cosiddetta Età dell’oro). Terminato il Daiva Yuga ascendente comincia quello discendente, cioè il sole si allontana dal Centro. Questo ciclo è l’esatto contrario del precedente. Riprende da Satya Yuga (il quale ha dunque una durata complessiva di 9.600 anni), poi Treta ecc. sempre in fase calante, fino a tornare al Kali yuga (il quale ha pure lui, come Satya yuga, le due fasi contigue, quindi dura 1.200+1.200 anni). Inoltre, all’inizio e sul finire di ogni yuga v’è un periodo di transizione che è, in proporzione alla maggior durata dello yuga in corso, di 100, 200, 300 e 400 anni. Questa processione cosmica è basata sul calcolo degli equinozi. Tuttavia non c’è unanimità sulla definizione delle date. Secondo alcuni studiosi della Tradizione, il punto più basso del Kali Yuga è stato toccato nel 500 d. C.. Da lì è iniziato il Kali Yuga ascendente che dunque sarebbe finito nel 1700 (dopo un periodo di transizione di 100 anni tra ‘600 e ‘700 che corrisponde al primo fiorire della ricerca scientifica). A quel punto è cominciato il Dvapara Yuga, ovvero la sua prima fase transitoria di 200 anni. Noi ci troveremmo adesso, più o meno, nel 323esimo anno del Dvapara Yuga. Quindi, siamo in una fase ascendente, ma prima di ritornare all’Età dell’oro ci mancano ancora più di 5.600 anni… Il ritorno al Sacro si prevede molto lento e faticoso…

    • Paola 25 Maggio 2023

      Claudio M., Livio C.

      Grazie a entrambi per gli approfondimenti.

  • Livio Cadè 25 Maggio 2023

    …”ma prima di ritornare all’Età dell’oro ci mancano ancora più di 5.600 anni” si riferisce all’inizio del prossimo Satya Yuga. Se invece ci riferiamo al culmine del processo ascensionale, quando cioè l’umanità toccherà il suo massimo splendore spirituale, mancano ancora più di 10.000 anni… Ci vuole pazienza…

    • Livio Cadè 25 Maggio 2023

      P.S.: come ho detto, i periodi relativi ai quattro yuga sono controversi. Di fatto la precessione degli equinozi dura circa 26.000 anni terrestri, non 24.000. Se dunque ci basassimo su quel ciclo la durata gli yuga ne verrebbe un poco allungata, pur mantenendo la loro durata relativa (che è 4, 3, 2, 1). Ma vi sono anche quelli che ripartiscono i quattro yuga su un periodo ancora più lungo. Dunque potremmo non essere usciti dal kali yuga ma esserci ancora dentro… L’altro problema fondamentale è stabilire l’inizio del ciclo. Perciò è così difficile fare previsioni – e forse inutile. Quel che rimane, purtroppo, è la realtà del mondo in cui viviamo. Non so a che punto siamo, se siamo alla fine dell’età del ferro o all’inizio di quella del rame o altrove, ma sicuramente siamo lontanissimi da quella dell’oro…

  • Claudio Murru 25 Maggio 2023

    La Tradizione indù prevede la fine dei tempi o meglio del tempo.
    In questo Kalpa il tempo è una delle condizioni determinanti.
    Nel 1937 René Guènon scrisse un interessante articolo “Alcune considerazioni sulla dottrina dei cicli cosmici” che in seguito diventerà un capitolo del libro “Forme tradizionali e cicli cosmici”.
    Ritengo che valga la pena di leggerlo con attenzione.
    Giacché ho citato Guènon, che è morto nel 1951, vorrei evidenziare come, da allora ad oggi, in una settantina d’anni, la situazione sia spaventosamente degenerata in maniera sempre più rapida ed il peggio deve ancora venire.
    A mia conoscenza, Sapienti indù e musulmani si sono espressi in modo netto ponendo l’accento su una catastrofe incombente.
    Del resto gli Ahadith sulla fine dei tempi e le descrizioni contenute nei Purana, non lasciano dubbi…
    Come si possa quindi affermare che attualmente ci troveremmo nel Dwapara-Yuga e che, per giunta, la direzione sia quella del miglioramento è veramente incomprensibile e grottesco: oggi è percezione comune che ci sia un satanico peggioramento ad ogni livello e grado, non occorre essere dei Santi per rendersene conto.
    In ogni caso, lo ripeto e lo sottolineo, non si tratta del mio parere.
    È buona norma cercare esponenti qualificati di una Tradizione e rifarsi al loro insegnamento, evitando accuratamente bizzarre illazioni tipiche degli occidentali che reputano di comprendere tutto sviando sè stessi e coloro che danno credito a teorie senza fondamento.
    In una Via spirituale è basilare una profonda modestia.
    E Dio è più Sapiente…

    • Livio Cadè 25 Maggio 2023

      Signor Murru, la mia considerazione sulla ‘fine dei tempi’ intendeva porre una distinzione tra la visione escatologica del cristianesimo, basata su un tempo lineare, e quella ciclica della tradizione orientale. La datazione cui mi riferisco è ricavata da alcuni testi della tradizione induista e non da “bizzarre illazioni tipiche degli occidentali”. Ho precisato che queste datazioni sono problematiche e non unanimi. Se poi sia incomprensibile e grottesco considerare questi tempi l’inizio di un Dwapara-Yuga francamente non lo so. Anch’io sono perplesso. È vero che a noi tutto sembra peggiorare e certo vien più spontaneo parlare di Kali Yuga e di fine dei tempi. Ma anche in questo occorre modestia, perché la nostra visuale è estremamente ridotta. Certe malattie guariscono in modi per noi incomprensibili. E nemmeno si può prendere Guénon come la Verità. “Dio sa”.

      • Paola 25 Maggio 2023

        Premetto, riferito a me stessa: “Sutor, ne ultra crepidam!”…ma l’accelerazione sembra spaventosa.

        • Claudio Murru 25 Maggio 2023

          Concordo totalmente…

      • Claudio Murru 25 Maggio 2023

        Ho debitamente evidenziato come sia, non semplicemente auspicabile, ma decisamente necessario contattare esponenti qualificati appartenenti ad una forma tradizionale per avere, se ci reputano degni, commenti e spiegazioni dottrinali.
        Non nego che un semplice studioso possa avere felici intuizioni ma, la regola ovverossia l’atteggiamento ortodosso, per chi vuole seguire una via spirituale, è quello di avere un approccio con veri e riconosciuti Maestri spirituali.
        Avendo, con delicatezza e cautela, provato a chiedere chiarimenti, la risposta è stata univoca, pur venendo da ambiti diversi: siamo alla fine…
        Non ho mai detto , e nemmeno lo penso, che si possa prendere tutto quello
        che ha scritto Guènon come identificabile totalmente alla Verità: non mi attribuisca cose che non ho scritto…
        Proprio perché “la nostra visuale è estremamente ridotta” diventa necessario aderire ad una forma tradizionale vivente (lo sottolineo, vivente) praticandola ritualmente e, nel caso esistano le necessarie qualificazioni, cercare di ottenere un ricollegamento iniziatico cercando di seguire un vero Maestro spirituale.
        Su questo Guènon ha totalmente ragione non avendo fatto altro che far conoscere la corretta dottrina al riguardo presente nella Tradizione islamica ed in quella indù.
        Chi cerca soluzioni differenti (alla Evola, tanto per intenderci) si pone al di fuori da ogni ortodossia con tutti i rischi che ne conseguono.
        Riguardo a quello che ho scritto precedentemente, devo ancora ripetermi: non è farina del mio sacco.
        Sicuramente Dio sa…

        • Livio Cadè 25 Maggio 2023

          Non ho detto che Lei prenda Guénon come verità. Ho letto i libri di Guénon, compreso il saggio sui cicli cosmici, e insieme a quelli altri testi, non di ‘studiosi’ ma di Maestri della Tradizione. Il problema degli yuga non si risolve facilmente e gli stessi calcoli di Guènon a riguardo, per quanto interessanti, mi paiono congetturali, non necessariamente “la corretta dottrina”. A noi ovviamente sembra che tutto vada peggio, che vi sia, come dice Paola, un’accelerazione spaventosa. Ma la nostra prospettiva (pochi anni o decenni) può essere inadatta a giudicare la natura di un processo che dura millenni, a prevederne le possibili evoluzioni. A volte, nelle medicine naturali, il peggioramento dei sintomi è già segno d’una incipiente guarigione, di una risposta positiva alla terapia. Ci saranno eventi traumatici, catastrofici? Può darsi, ma anche questo andrebbe visto in un’ottica più ampia, forse terapeutica.

  • upa 25 Maggio 2023

    Secondo Guénon, siamo nella parte finale del Kali Yuga,( lo diceva negli anni cinquanta del secolo scorso), e tralasciando le datazioni che espone per non farci venire il mal di testa, si può intuire che siamo nel periodo della sovversione che segue la deviazione, e precede il capovolgimento finale che vedrà l’instaurarsi del Regno dell’Anticristo.
    Esiste una struttura, un algoritmo di sviluppo chiaro, ma le pedine che lo formano sono mosse con variabilità imperscrutabile, e lasciano visibile solo la trama nascosta dei fini, che andando nella stessa direzione, si camuffano nella molteplicità dei fatti concreti apparentemente scollegati tra di loro.
    E se fosse tutto solo uno schema per soddisfare la mente avida di conoscenza teorica?
    Se i cicli fossero solo un aiutino a renderci tutto può comprensibile a fronte di un Universo incomprensibile?
    Se esistesse solo un grande punto interrogativo, non da sciogliere ma da
    accettare senza l’ansia di venirne a capo con prepotenza ?
    Invecchiando mi ritrovo più dubbioso che in gioventù, e la “pax profunda” la vedo più amica di un abbandono delle certezze teoriche per quanto “tradizionali” e un cullarci con una dolce ignoranza come un bimbo tra le braccia della madre.

    • Livio Cadè 25 Maggio 2023

      Anch’io invecchio nei miei dubbi e mi ritrovo sempre più privo di certezze teoriche… anzi, sempre più disinteressato a questo tipo di certezze.

      • upa 26 Maggio 2023

        Nondimeno la mente è come l’occhio, e vuole la sua parte..e allora diamogliela!
        Partiamo da un modello base che consideriamo il più adatto al nostro sentire, tipo l’impianto guénoniano, e poi lo modifichiamo se entra in conflitto con la nostra percezione interiore.
        Il modello base è importante per non disperderci nelle sirene dei pensieri dominanti e ci salva da pericolose derive menefreghiste di stampo asurico.
        La cosa importante è comprendere che lo stato edenico possa essere riconquistato, e questo è una specie di dogma insopprimibile pena la nullificazione in una vita miserabile; ma la montagna per accedervi non è per niente stabile, muta come noi mutiamo le mappe per ascenderla, e la via che ci sembrava visibile anni addietro, col tempo diventa impraticabile e si rivelano altri appigli.
        Le teorie metafisiche sono gli appigli mentali che disegniamo lungo la strada; mutano con la strada fatta e con l’acume della vista interiore, che può anche appannarsi per nostra imperizia o debolezza nell’Opera.
        Insomma, nel taschino ci sono tante mappe della stessa montagna, alcune fatte da altri e alcune modificate da noi..e vanno usate al momento giusto, trovando la forza di riporre quelle che ci hanno servito in passato ma inutili o controproducenti nel presente.
        La mente va riposta, ma solo quando i nostri piedi poggiano sulla piazzola ben salda del'”io esisto” e l’Eden può aspettare i nostri comodi, ma non per sempre..che il tempo non è infinito.

        • Livio Cadè 27 Maggio 2023

          …”e questo è una specie di dogma insopprimibile pena la nullificazione in una vita miserabile”… Pienamente d’accordo.

  • Claudio Murru 25 Maggio 2023

    La ikraha fi-d-Din
    Non vi è costrizione nella Religione

    • Paola 25 Maggio 2023

      Claudio M.

      Sono ignorante (completamente) in materia. Ma ho visto il Blagaj Tekija. Luogo straordinario. Lascia attoniti.

  • Paola 25 Maggio 2023

    Sui tempi che stiamo vivendo…alleggeriamo…

    – a Cesena hanno urlato plaudenti: “grazie Ursula!!!”

    -il figurante scazonte ci delizia con altissima teologia sui combustibili fossili.

    Ci ridiamo sopra? O no?

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