Eccoci finalmente giunti alla lettura critica della seconda avventura avente come protagonista il nostro giramondo e italianissimo uomo d’azione, Avventure polari di Romano – Il deserto bianco, scritta e disegnata con la consueta maestria e precisione tecnico/realistica dal maestro Kurt Caesar. L’episodio fu pubblicato in 31 puntate consecutive settimanali (dunque una in più della storia inaugurale, Il Legionario del 1938) sul periodico per ragazzi “Il Vittorioso”, dal n. 12 (a. III) del 25 marzo al n. 42 (a. III) del 21 ottobre 1939 – XVII E.F. ; il giornale era pubblicato dalla cattolicissima AVE (che non era l’inizio di una preghiera, ma un acronimo che stava per “Anonima Veritas Editrice”). Tutte le tavole sono a colori, visto che la testata puntava molto sul personaggio – graditissimo ai lettori – riservandogli sempre l’onore della copertina (che coincideva con la prima pagina secondo l’uso dell’epoca).
Alcune “curiosità” editoriali saltano subito all’occhio del lettore attento: inconsueta innanzitutto la definizione Avventure polari di Romano, che precede il titolo e accompagna tutta la sequenza… forse un escamotage per distinguere nettamente questa nuova storia – ambientata per intero in climi e panorami glaciali – da quella di esordio, che si svolgeva invece nella caliente terra iberica (a onor del vero, nella prima puntata del 23 aprile 1938 si poteva leggere, anche lì e solo lì, una definizione, Cineromanzo della guerra di Spagna); rispetto al Legionario, l’episodio di cui andiamo a parlare rinuncia inoltre ai brevi riassuntini (inseriti di volta in volta nella “testatina”) e, a partire dalla 20a puntata del 5 agosto 1939, vengono pubblicati “titolini” diversi per ogni puntata (abbiamo così, nel dettaglio: La tragica sfera, Il motoscafo del futuro, Strappati alla morte, Radiogramma urgente, La pesca elettrica, Lo Zeppelin, Le luci del Nord, Finalmente al Polo!, Mare di fiamme, Il volo umano, Ritorno alla baia e Verso la Patria).
Da un punto di “tecnica fumettistica” notiamo che, in ottemperanza alle direttive del Ministero della Cultura Popolare della fine del 1938 (originate da un Congresso Nazionale per la Letteratura Giovanile e Infantile che si era tenuto a Bologna nel novembre di quell’anno, sotto la presidenza di Filippo Tommaso Marinetti), le “nuvolette” tramite le quali “parlano” i personaggi del fumetto scompaiono totalmente per tutta la prima metà della sequenza (puntate da 1 a 16) e possiamo altresì rilevare che i testi delle didascalie sono a caratteri tipografici (con il risultato di dare un aspetto più “pulito”, ma sicuramente più “freddo”, alla tavola) fino alla 17a puntata del 15 luglio 1939: è qui che i balloon tornano – seppur a sprazzi e con estrema cautela; la settimana seguente, con la 18a puntata, riappare anche il tradizionale lettering eseguito a mano, più tradizionale, “caldo” e “morbido”.
Paura al Polo
Romano ha raggiunto sulla baleniera “Gondar” la costa orientale della Groenlandia. La nave è ormeggiata ad un banco di ghiaccio che pare molto favorevole per lo sbarco degli ingenti materiali della spedizione. Tutto sta svolgendosi con regolarità quando, all’improvviso, s’ode un enorme boato, come quello d’una esplosione. Un brivido attraversa Romano.
Già con la prima didascalia è possibile notare una delle caratteristiche principali del fumetto seriale di quegli anni: una tavola alla settimana e una storia molto diluita nel tempo (sette mesi), ma tutto sommato breve (31 tavole composte da una media di 6 vignette ciascuna corrispondono, per fare un esempio dall’attualità, a meno di un terzo di un albo standard della Sergio Bonelli Editore, come potrebbe essere un “Dylan Dog”), esigeva un costante livello d’azione, fin dalle battute d’apertura, per tenere sempre vivo l’interesse del lettore.
E così, in un succedersi incalzante di colpi di scena, disastri, scontri e pericoli di ogni sorta e provenienza ecco… una nave intrappolata fra i ghiacci, un aereo attaccato da uno stormo di uccelli marini, una slitta trainata da cani piena di esquimesi affamati, un atterraggio ai limiti del suicidio, un feroce orso bianco, una motoslitta che precipita in un crepaccio, battute di caccia tradizionali alla balena e alle foche – oppure di “pesca elettrica”, disperate missioni di salvataggio sui ghiacci o in alto mare, esperimenti scientifici e meteorologici, un prete missionario che usa l’aereo per evangelizzare gli Inuit, la rievocazione della storica impresa polare dello svedese Salomon August Andreé e dei suoi compari (morirono nel 1897 durante il tentativo di raggiungere il Polo Nord e i corpi furono ritrovati solo nel 1930), pattuglie navali internazionali di avvistamento-iceberg, naufragi di ogni genere, soccorsi via aerea tramite dirigibili o con moderni autogiro, spettacolari aurore boreali, schianti di aeroplani in fiamme, corse in motoscafo, fughe in dirigibile, e via dicendo. I nostri “riconquistano” il Polo in nome dell’Impero, in un certo senso vendicando, un decennio dopo, l’impresa di Umberto Nobile e del dirigibile Italia.
Mezzi di aria, di terra e di mare… del passato, del presente e del futuro
Abbiamo visto commentando Il Legionario come per Caesar fosse essenziale il realismo (talvolta al limite del didascalismo) nella sua narrazione grafica; l’artista era soprattutto interessato agli aeromobili (visto che Romano è un asso dell’aviazione), con i quali dimostrava la sua incredibile erudizione tecnica e il suo costante tenersi aggiornato sugli ultimi modelli e scoperte; e questo fu tanto vero che talvolta Caesar andava anche “oltre la realtà”, peccando di un sincero ottimismo e patriottismo, facendo solcare i cieli ad aerei che ancora non esistevano, essendo all’epoca solo in fase di cianografiche, o che mai sarebbero esistiti (perché magari i loro progetti sarebbero stati destinati alla mancata realizzazione, per la guerra o per altri intoppi di minor portata).
Il primo mezzo di trasporto ad apparire sulle pagine del Deserto bianco è la baleniera Gondar, in pericolo nella puntata numero uno; singolare come il nome “Gondar” fosse già stato attribuito a un sommergibile italiano, entrato in servizio nel febbraio del 1938, e dunque circa un anno prima che Caesar iniziasse a disegnare la seconda avventura di Romano; non ci è però dato sapere se per il nome della baleniera il disegnatore si fosse ispirato al sottomarino oppure – con maggiore probabilità – all’antica città monumentale dell’Etiopia conquistata dall’Italia nel 1936.
Ecco poi Romano alla cloche di un biplano M.F. 6, ovvero un idrovolante a scafo centrale (usato soprattutto per gli addestramenti) prodotto dalla norvegese Marinens Flyvebaatfabrikk dal 1920 al 1940; la sigla “MF” era anche un tributo alla francese Maurice Farman, i cui modelli MF.7 e MF.11 servirono come base per lo sviluppo dei primi velivoli della fabbrica scandinava.
Sulle pagine del “Vittorioso”, continuando a leggere, troviamo introdotta la misteriosa motoslitta Breda, che viaggia a 160 km/h sulla neve: si tratta di un modello (molto probabilmente di fantasia, anche se somiglia a più di una macchina realmente esistita) di aeroslitta o aerosan (termine russo) utilizzata durante la Seconda Guerra Mondiale da svariati eserciti (sovietico, germanico, finlandese…) nelle zone artiche o adiacenti; la maggior produttrice, negli anni del Deserto bianco, era l’URSS, con i progetti di svariati ingegneri; l’aeroslitta ANT-V (dove ANT sta per Andrei Nikolayevich Tupolev) montava per esempio un motore FIAT.
Appare indi in volo e a terra sui ghiacci uno straordinario esemplare di Magni Vale modificato con i pattini da neve e con un diverso “muso”: si tratta del P.M. 3-4 Vale, costruito dalla fabbrica milanese Pietro Magni Aviazione nel 1930, con le sue caratteristiche ali lisce e “curve”.
Più avanti vediamo un Caproni dell’aeronautica militare svedese (si riconosce anche la coccarda dell’arma aerea, con le tre corone) e poi ritorna dalla Spagna un classico di Caesar, il prototipo del 1937, con coda monoderiva, del Breda Ba.88a (che invece, nel modello definitivo, ebbe una coda bideriva); come ulteriore modifica il disegnatore appone al velivolo un paio di pattini da neve.
L’apparecchio anfibio del Padre Volante (un missionario tedesco che usa l’aereo per spostarsi da un punto all’altro delle vastità artiche) è un Dornier Do-12 tedesco, o Dornier Libelle III, sviluppato dalla Dornier-Metallbauten GmbH; il modello che si vede nei disegni di Caesar ha un nome, Das Fliegende Kreuz (“La croce volante”). Non è un caso. Padre Paul Schulte non è un personaggio di invenzione, ma è veramente esistito: nato nel 1895, acquisì il brevetto di pilota civile (che gli valse appunto il nomignolo di Der fliegende Pater) e per decenni operò per rifornire le missioni cattoliche internazionali di mezzi di trasporto di ogni genere; durante la Prima Guerra Mondiale servì in un reggimento di granatieri prussiano; nel 1936, durante un viaggio verso gli USA, celebrò messa a bordo del dirigibile Hindenburg, aeromobile di cui parleremo più avanti; nel 1950 uscì il libro Der Fliegende Pater bei den Eskimos, che raccontava delle imprese polari di Schulte; il prete morì nel 1975 in Namibia.
Unicamente a titolo di curiosità (e tanto per parlare di “coincidenze significative”) segnaliamo che nel 1951 il celebre cineasta americano Stanley Kubrick (che avrebbe firmato i capolavori di Arancia Meccanica e 2001 odissea nello spazio) girò il documentario The Flying Padre, che parlava di un altro missionario cattolico di origini tedesche, Fred Stadtmüller, che, per spostarsi nella sua immensa parrocchia del New Mexico, negli Stati Uniti, usava un Piper.
Interessante è poi il “motoscafo del futuro” che dà il titolo alla 21a puntata del 12 agosto 1939.
Si tratta di un rapido, piccolo aliscafo (o idroplano) che, prendendo velocità, si solleva sul pelo dell’acqua grazie a un archetto di metallo montato sotto lo scafo; i primi progetti furono firmati dall’italiano Enrico Forlanini, pioniere dei dirigibili tricolori, negli anni ’10. Quello illustrato da Caesar nel Deserto bianco è un prototipo, come ne esistevano negli anni ’30 e ’40: la produzione di questo genere rivoluzionario di natanti partirà solo dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Arrivati alla 22a puntata vediamo poi una scialuppa di salvataggio di forma perfettamente sferica, assolutamente futuribile, del tutto analoga a un prototipo cinese del XXI secolo.
Protagonista assoluto delle settimane 25a e 26a è invece il dirigibile germanico Zeppelin LZ 129, gioiello della tecnica: si tratta di un omaggio al gigante dell’aria e di un voluto anacronismo, in quanto lo “Hindenburg” (questo il nome) fu completamente distrutto in uno dei più noti e spettacolari incidenti aerei della storia, il 6 maggio 1937, durante un tentativo di attracco al pilone della stazione di Lakehurst in New Jersey.
Nella puntata n. 27, quando i Nostri riescono finalmente a raggiungere il Polo, ecco invece comparire nei cieli di ghiaccio un titanico quadrimotore americano, descritto da Caesar come fortezza volante, con quello che potrebbe essere un ovvio riferimento al bombardiere Boeing B17 Flying Fortress, nato nel 1937.
Si tratta in realtà, guardando bene i precisissimi disegni del grande Kurt, di un precursore del B17, lo XB-15, rimasto un prototipo mai prodotto in serie.
Questo colosso volante a stelle-e-strisce si schianta miserevolmente al suolo e Romano salva un superstite atterrando sul luogo del disastro grazie a un “elicottero a zaino”, precursore dei jetpack; nel 1939 dell’avventura si parlava solo di progetti per questo genere di apparecchi individuali a elica, che sarebbero stati sviluppati con un certo successo nella prima metà degli anni Quaranta, arrivando per esempio alla produzione dello Heliofly dell’austriaco Paul Baumgärtl.
La Groenlandia
Fanno da cornice alla vicenda polare di Romano la geografia e le popolazioni delle vastità glaciali groenlandesi.
Gli strani spiccioli bucati che appaiono alla 15a puntata sono centesimi di Corona della Groenlandia; Thule-Kap York – il nome che vi appare inciso sopra – era una stazione di scambio, fondata nel 1910 da Knud Rasmussen, che batteva moneta (prodotta in Germania usando l’alluminio) dal 1914 al 1937, con la data dell’anno di fondazione; ciò non desti eccessivo stupore poiché la Groenlandia ha avuto una moneta indipendente rispetto alla Danimarca fino agli anni Sessanta;
semmai bizzarro fu l’uso dell’alluminio nei climi artici, metallo che alle bassissime temperature tende a sgretolarsi. Di grande interesse, da un punto di vista antropologico, l’apparizione a più riprese delle popolazioni eschimesi; a proposito di tale appellativo etnico di quelli che sono stati anche chiamati gli “iperborei americani”, come scriveva il Biasutti nel suo Razze e popoli della Terra (vol. IV, pag. 373, ultima edizione), il nome adottato dagli Europei viene, a quanto pare, da un dialetto algonchino e significa “mangiatori di carne cruda” (in chippewa: Ashkimeq), mentre essi stessi si dicono Inuit, cioè “uomini”. Enormemente suggestivo il passaggio che vede impegnati gli eschimesi mascherati con pellicce nella sacra Danza della Volpe, mammifero artico protagonista di numerose loro leggende; fin dai tempi più antichi tali popolazioni glaciali si esibivano in balli dove i partecipanti si mascheravano nella foggia degli animali caratteristici dei loro luoghi (le foche, gli orsi, i lupi, le volpi, etc.) in qualche modo assumendo insieme all’aspetto, la forza e lo spirito della bestia raffigurata nel travestimento.
Dunque Caesar, con queste incursioni nell’etnografia, non è più solo il “poeta delle macchine volanti”, bensì delle diversità dei popoli umani.
Francesco G. Manetti