11 Ottobre 2024
liberismo

GAFA: il monopolio radicale – Roberto Pecchioli

La parola chiave del liberismo è concorrenza. Corre l’obbligo di competere per ogni cosa, in alto e in basso. Si invera l’apologo africano del leone e della gazzella: entrambi si svegliano e prendono a correre, per motivi opposti. Tutti contro tutti, prede e predatori, lupi ed agnelli, la vita come gara e campo di battaglia. L’esperienza ci insegna che l’antagonismo è per noi, trasformati in nemici reciproci, il monopolio è per lorsignori. E’ il contrario del liberalismo, che ha perso due lettere e ha gettato la maschera: liberismo sive monopolio. Secondo un maestro del pensiero economico liberale, Friedrich Von Hajek, il mercato, per essere tale, deve essere aperto. Tutto il contrario della realtà. L’ economista austriaco pronunciò una sentenza nei confronti del collettivismo che oggi possiamo applicare al liberismo monopolista: chi possiede tutti i mezzi, determina tutti i fini. I due monopoli più potenti sono quello finanziario, la creazione e gestione della moneta attraverso l’arma del debito, e quello tecnologico, che ha invaso rapidamente tutti gli ambiti economici, culturali, di costume, assumendo il controllo capillare delle nostre vite. I super giganti sono essenzialmente quattro, Google, Amazon, Facebook, Apple, tutti americani, uniti nell’acronimo GAFA. Nel prossimo futuro è probabile si aggiunga un altro temibile attore globale, il cinese Huawei, in possesso della decisiva tecnologia di telecomunicazioni ad altissima velocità 5G. Intaccare la potenza del monopolio globale da essi esercitato è l’impresa più complessa dei prossimi anni, resa ancor più ardua dal legame inestricabile con il deep State, ovvero agenzie riservate e struttura militare degli Stati Uniti.

Siamo precipitati nel monopolio radicale descritto da Ivan Illich, che non ebbe il tempo di conoscere del tutto il monopolio fintech che penetra nella vita intima e colonizza le coscienze: “Con questo termine io intendo non il dominio di una marca ma la necessità industrialmente creata di servirsi di un tipo di prodotto. Si ha il monopolio radicale quando un processo di produzione esercita un controllo esclusivo sul soddisfacimento di un bisogno pressante, escludendo la possibilità di ricorrere, a tal fine, ad altre attività non industriali.” Un discorso che trova la sua declinazione in tutte le branche dell’industrializzazione e tecnicizzazione, in particolare a quella dei servizi. Si può rinunciare all’iPhone, non si può rinunciare ad essere reperibili, si può evitare l’automobile, ma la mobilità è un obbligo quotidiano quanto la connessione alla grande rete. Aggiungeva il prete di Cuernavaca “quando il monopolio radicale viene scoperto, in genere è troppo tardi per liberarsene”.

Proprietari di fatto delle nostre esistenze, è nelle loro mani la libertà individuale e collettiva. La lotta va condotta sul piano culturale, etico e naturalmente politico-ideologico. Se concorrenza è la parola magica neoliberista, il monopolio radicale va smantellato a partire dai fondamenti. Regolare finalmente i GAFA è una priorità che deve entrare nell’agenda politica di Stati e movimenti politici. Qualcosa sembra muoversi negli Usa, dove il sistema giuridico non è del tutto asservito alla logica monopolistica. Cinquanta procuratori generali degli Stati federati hanno annunciato l’apertura di un’inchiesta comune nei confronti di Google. Il colosso di Mountain View è al centro di una holding il cui nome è Alphabet, a significare la presenza in settori economici che includono tutte le lettere dell’alfabeto. Il dominio di Google come motore di ricerca pressoché unico è noto, ma non è l’unico gigante entrato finalmente nel mirino dei giudici americani. Il ministero di giustizia sta indagando su Apple, che domina il mercato degli apparati informatici e dei sistemi operativi e sulla stessa Google. L’agenzia per le telecomunicazioni FTC, investiga su Facebook ed Amazon, il monopolista globale delle vendite online. Uso e abuso della rete, sono le accuse nei confronti dei padroni della Tecnopolis planetaria. Tre sono le direttrici dell’indagine, e ciascuna affronta il nocciolo del problema. Una riguarda quali messaggi sono visibili sulla rete, chi li sceglie e li modera. Conosciamo ormai sulla nostra pelle la potenza della censura privatizzata di Facebook, unita all’impossibilità di adire autorità in grado di imporre regole a giganti deterritorializzati che agiscono fuori dal controllo di qualsiasi potere pubblico.

La seconda è l’abuso di posizione dominante, ovvero il monopolio conseguito cacciando dal mercato i concorrenti o fagocitandoli. Il terzo elemento all’attenzione degli investigatori è il monopolio nella raccolta pubblicitaria, che ha un immenso valore economico, ma soprattutto consente di avere in mano i mezzi di comunicazione di massa, cioè la formazione dell’opinione pubblica mondiale, in definitiva la stessa democrazia. Negli Stati Uniti, Google, Amazon e Facebook si dividono il 70 per cento della pubblicità online. Nel resto del mondo, i dati si stanno avvicinando pericolosamente a quelli americani. Si tratta di un monopolio decisivo per la sorte di tutti noi, non solo per quella dei mezzi di comunicazione coinvolti nel ciclone GAFA. Per la stampa, la radio e la televisione, l’affare consisteva nel “generare” lettori e ascoltatori per venderli agli investitori pubblicitari. Il loro prodotto erano la tiratura, per i giornali, l’audience per radio e TV. Oggi, la pubblicità in rete muove più denaro di quella televisiva e ha praticamente divorato quella della stampa scritta. Il monopolio non può essere scalfito: le grandi piattaforme possiedono i dati personali di miliardi di persone, sanno di me – gusti, idee, propensioni, scelte- più di quanto io stesso sappia. Sono in grado di selezionare reddito, zona geografica, età, idee politiche, abitudini intime e interessi dei consumatori. Abbiamo fornito noi stessi, con la navigazione, gli acquisti, i messaggi, persino con le modalità di pagamento scelte, ogni notizia utile a fini commerciali. Naturalmente, le informazioni, i metadati aggregati, possono essere utilizzati per ogni altro fine, politico, ideologico e di potere. E’ sempre più urgente ristabilire la forza delle istituzioni pubbliche per contenere l’immenso dominio delle nuove oligarchie tecnologiche.

I loro affari lambiscono oramai il santuario della finanza. Facebook ha lanciato di recente il progetto della criptomoneta elettronica Libra; l’irruzione di Silicon Valley desta grande preoccupazione in ampi settori del mondo bancario. Il Banco di Spagna ha chiesto ufficialmente alla BCE di intervenire affinché alle attività finanziare di Amazon, Facebook e Google sia attribuito, quanto meno, lo stesso trattamento giuridico del sistema bancario. Le multinazionali tecnologiche, afferma, sono in grado di offrire almeno cinquanta servizi finanziari diversi, e si dice preoccupato per l’assenza di “barriere protettive” contro l’invadenza fintech. Uno sconcertante contrappasso per i massimi promotori del laisser faire, laisser passer.   E’ significativo, per la mappa del potere, che i banchieri non si siano rivolti agli Stati nazionali, ormai esautorati, ma neppure all’UE. La dimensione statuale è completamente assente dai campi ove si combattono le battaglie decisive. Il credito è una ricca prateria in cui le banche devono comunque seguire alcune regole ed osservare norme di legge. Il mondo fintech (finanza più tecnologia) avanza a tutta velocità senza ostacoli. Un alto dirigente bancario mette il dito nella piaga: “il principale patrimonio delle banche sono i dati, e li abbiamo messi a disposizione gratuitamente degli attori digitali, nessuno dei quali è europeo”. Aggiunge una critica all’UE, definita incapace, lenta. “Noi non possiamo accedere ai dati di Amazon, loro sono in grado di controllare i nostri. Le banche avrebbero dovuto dare un valore a questi attivi, o almeno ottenere più aiuti pubblici per questo”. La musica non cambia: il bue dà del cornuto all’asino e chi paga il conto è sempre Pantalone. E’ sempre più vero che chi ci fornisce qualcosa gratis, in realtà sta vendendo noi, che si chiami sistema di comunicazione, intrattenimento, banca o giganti fintech.

L’Unione Europea, come sempre quando i temi sono davvero sensibili, brilla per la sua assenza. Le misure fiscali nei confronti dei GAFA, la cosiddetta Google Tax, sono state rinviate per i disaccordi alimentati dalle lobby. L’OCSE, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, sta preparando un’imposta “digitale” sulla quale ottenere il consenso dei trentasei paesi aderenti. Non sarà semplice, poiché gli Usa hanno già minacciato ritorsioni daziarie nei confronti di chi adotti misure fiscali. Per ora, si tratta della Francia e della Spagna. La proposta, in sede europea, si arenò sull’ipotesi di un’’aliquota del 3 per cento sul fatturato delle imprese tecnologiche. Un balzello modesto, ma un grande passo avanti rispetto al quasi nulla di oggi. In Francia, Facebook paga all’erario poco più dello 0,3 per cento di imposte rispetto al giro d’affari. La difficoltà, per ogni Stato, è colpire i redditi effettivamente prodotti nel proprio territorio, impresa complicatissima nell’era dell’economia digitale mondializzata. La soluzione francese prevede che siano tassate le imprese il cui fatturato è superiore, nel mondo, a 750 milioni, dei quali 25 in Francia. Il governo spagnolo intende estendere l’imposta alle aziende il cui volume d’affari superi i 3 milioni. I servizi colpiti sono la pubblicità online, l’intermediazione su siti di compravendita e la commercializzazione di dati.

Sottoporre a regole un settore potentissimo, che agisce possedendo pressoché per intero le tecnologie e la rete, per di più protetto dal governo americano, sarà impresa difficile. Riuscire a dividerle, farne, come si dice, spezzatino per limitarne le attività ancor più. E’ tuttavia urgente e necessario. Qualche problema, peraltro, cominciano ad averlo anche i GAFA. Facebook è impegnata su diversi fronti a discolparsi per aver venduto i nostri dati personali, Google scopre con orrore che qualcuno ha realizzato un’applicazione su Android per fornire foto di minori a gruppi pedofili. Significativa, anche per i risvolti rispetto alle censure di Zuckerberg, è una polemica che ha appena investito Youtube, la piattaforma di contenuti multimediali della galassia Google, il secondo sito più visitato al mondo, dopo la stessa Google. Tre scienziati informatici di Harvard hanno dimostrato che l’algoritmo principale di Youtube crea e distribuisce liste di video per pedofili. Ovvia la reazione dei gestori: ciascuno può postare video come privati, non è colpa loro l’uso che se ne fa, provvederanno a rimuovere i contenuti e ridefinire le regole.

Esplosioni e videogiochi violenti restano, in compenso sono all’indice i capezzoli, mentre i cosiddetti “contenuti di odio” vengono rimossi solo se riferiti al nazismo o al fascismo. In America le reazioni non si sono fatte attendere, giacché non si è posto limite alcuno ai post violenti o insultanti di estrema sinistra. Qualcuno, di là dell’oceano, tiene ancora alla libertà di espressione e considera censorio il comportamento di Youtube. Il fatto è che la società usa argomenti difensivi contraddittori. Quando la si accusa di prestarsi al gioco dei pervertiti, afferma di essere un semplice intermediario, estraneo a ciò che la gente carica sui suoi server. Il discorso cambia allorché a lamentarsi sono gli investitori pubblicitari, che vedono i loro annunci in mezzo a propaganda politica estremista, oscenità e altro. Allora, e solo allora, riunisce gli organi direttivi, dirama regole sui contenuti, affermando virtuosamente di voler bloccare, cancellare e vietare tutto ciò che “offende la sensibilità della società”, intendendo come società gli interessi dei suoi clienti pubblicitari. Il potere fintech è maestro anche nel confondere la realtà. O si tratta di semplici imprese di telecomunicazioni (common carrier, nella lingua di legno anglofila obbligatoria) meri trasportatori di dati, nel cui caso non possiamo renderli responsabili di ciò che accade tra i miliardi di pagine. Ma se sono piattaforme di contenuti il cui fine economico è mettere in contatto investitori paganti con gruppi demografici specifici attraverso la creazione di una serie di algoritmi, allora sono imprese di telecomunicazioni. La distinzione è cruciale, poiché ovviamente le regole per i due modelli sono ben diverse e definiscono diversi livelli di responsabilità.

Finora, i GAFA hanno risposto a questa distinzione con ambiguità, utilizzando il loro immenso potere di fatto e sfruttando il vuoto legislativo delle istituzioni pubbliche, statali e transnazionali per agire senza controllo. Di qui scandali come la vendita di dati personali e le recenti censure che hanno colpito in Italia forze politiche e privati cittadini. Negli Stati Uniti il dibattito politico si è fatto acceso. Importanti membri del Congresso hanno chiesto di dividere le grandi compagnie fintech per il loro monopolio tra i mezzi di comunicazione. Le note che precedono dimostrano l’enorme portata dei problemi che riguardano il ruolo planetario della galassia dei giganti tecnologici sotto distinti aspetti: l’enormità del potere conseguito in pochi anni sotto il profilo economico, finanziario, del costume, il controllo capillare della società e dei singoli, la distruzione di migliaia di imprese, la perdita della privacy, il traffico di dati sensibili, l’asfissia della dimensione pubblica non in grado di controllare o arginare la rete, l’immensa elusione fiscale, la privatizzazione della circolazione delle idee, con gli effetti censori che sperimentiamo. E’ una dittatura felpata come le magliette dei guru alla Zuckerberg e Jeff Bezos.

A proposito del tycoon di Amazon, un ulteriore fronte si va aprendo in queste settimane. Il Wall Street Journal, non certo un covo di oppositori del sistema liberalcapitalista, ha accusato il colosso delle vendite online di avere modificato gli algoritmi di ricerca affinché mettano in evidenza i prodotti da cui l’impresa ricava i maggiori profitti. La smentita di Jeff Bezos assomiglia molto a un’ammissione di colpa: “si tratta solo di una metrica (sono forse poeti? N.d.R.), non è un fattore chiave per decidere ciò che mostriamo ai clienti.” Sembra che i prodotti di uso più comune e quelli più venduti siano stati sostituiti, nelle prime pagine di ricerca, da quelli che generano il margine più elevato per la multinazionale di Bezos. Ovvia l’enorme implicazione per una moltitudine di aziende, fornitrici- per amore o per forza- di Amazon. Se lo scoop del Wall Street Journal corrispondesse al vero, si tratterebbe di pratiche di distorsione del mercato di eccezionale gravità, destinate a influire sulla sopravvivenza di migliaia di imprese. Sappiamo tutti che l’ordine in cui appare un prodotto- come un qualunque risultato di ricerca – su Google o su piattaforme di vendita come Amazon esercita un’influenza determinante sulle scelte finali degli acquirenti, poiché la stragrande maggioranza degli internauti limita la sua attenzione ai primi risultati che appaiono sullo schermo.

La conclusione è sconsolante. Da qualsiasi angolazione si valuti l’operato delle grandi imprese tecnologiche, si constata l’abuso del potere conseguito, lo strangolamento di ogni attività concorrente – ormai l’intero sistema economico, produttivo e adesso anche finanziario- la sovrapposizione ai poteri pubblici, l’impressionante capacità di orientare comportamenti di massa, controllare in modo ferreo e capillare le vite di ciascuno, generare profitti immensi pressoché esentasse, sostituirsi di fatto alle leggi degli Stati. In Italia, come sempre, abbiamo accumulato ritardi intollerabili nel comprendere la portata dei problemi; ancor più nel predisporre misure di difesa della sovranità, della libertà pubblica e privata, degli interessi legittimi di imprese, istituzioni, cittadini. Alla presentazione del nuovo governo, abbiamo ascoltato la solita promessa di lotta all’evasione fiscale. Conte e la sua compagnia di giro, sinistra nel nome e nei comportamenti, agisca davvero, non si occupi di barbieri e idraulici, ma imiti i governi francese e spagnolo, anticipi il sonno colpevole dell’UE e istituisca, per la prima volta, una tassa giusta e popolare sulle attività di Facebook, Amazon, Google, Apple, Airbnb, Uber e delle altre piattaforme tecnologiche. Sarà un piccolo primo passo per intaccare, dopo anni di inerzia e complicità, il monopolio radicale.

 

Roberto Pecchioli

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