Nella sua opera Breve storia dell’euforia finanziaria, l’economista statunitense John K. Galbraith analizza i maggiori crack finanziari della storia e rileva come i fenomeni speculativi si verifichino a intervalli più o meno regolari, con premesse e risultati pressoché identici. Essi si presentano come il frutto dell’avidità e della stupidità umana, i cui effetti sono bruschi arresti della vita economica e impoverimento generalizzato. L’iter è il seguente: dapprima si individua una novità sulla quale focalizzare l’interesse del pubblico –i tulipani, l’oro della Louisiana, il concetto di società per azioni-, qualcosa che possa alimentare grandi aspettative o possa essere presentato come un’innovazione capace di generare ingenti profitti per periodi infiniti. I capitali cominciano così a riversarsi su tali prodotti, gonfiando i corsi delle azioni o i prezzi delle merci, che smettono di rappresentare il valore oggettivo del bene e incorporano l’aspettativa dei guadagni futuri; per rincorrere l’investimento si fa largo uso della leva finanziaria, generando situazioni di forte indebitamento. Quando il processo smette di autoalimentarsi, i prezzi calano vertiginosamente, i debiti contratti diventano inesigibili e si assiste al fallimento dei finanziatori, ossia delle banche.
I governi sono “costretti” a intervenire per salvare gli istituti di credito e a sostenerne i costi sarà la popolazione, in termini di bilancio statale, perdita di posti di lavoro, impoverimento generale e azzeramento della fiducia, che preclude a futuri investimenti. A questo punto viene ricercata una giustificazione delle ragioni che hanno portato al crollo, si prospettano soluzioni volte a impedire che possa ripetersi, senza però mai affrontare il nodo principale che genera tali corsi e ricorsi economici. Viene ignorato il movente di natura morale, che è il fulcro dell’etica del capitalismo e la rincorsa al maggiore profitto, che sfida ogni rischio e si avvale di qualsiasi mezzo. Da chi sono mossi, infatti, i banchieri, se non dai loro interessi?
L’amore irrazionale per il denaro
Possiamo dare a questa domanda una risposta di tipo macroeconomico e una di tipo psicoanalitico, scomodando i padri delle rispettive materie. Keynes avrebbe addotto tale comportamento a “un amore irrazionale per il denaro”, mentre S. Freud lo avrebbe ricondotto alla cosiddetta pulsione di morte. Secondo il fondatore della psicoanalisi, nel profondo dell’individuo si nasconderebbe “la pulsione umana di aggressione e di auto-distruzione” (thanatos, o pulsione di morte), in perenne lotta contro la pulsione di vita (eros), che invece spinge gli individui ad accoppiarsi, assicurando la sopravvivenza della specie. […] M. Keynes, grande conoscitore ed estimatore di Freud, cambia la visuale e gli strumenti di analisi, adottando quelli propri della scienza economica, ma giunge a conclusioni per molti versi analoghe. La pulsione di morte diventa per l’economista inglese l’amore per il denaro, che rappresenta “il problema morale dei nostri tempi”. Attraverso il micidiale meccanismo della concorrenza sfrenata, sia fra diversi Paesi che fra classi sociali, si metterebbe in moto una guerra interminabile, capace di minacciare la sopravvivenza non solo dell’essere umano, ma della stessa natura. Per dirla con le sue testuali parole:
“Saremmo capaci di spegnere il sole e le stelle perché essi non producono dividendi”.
Egli riprende il mito di re Mida, il re che aveva ottenuto dal dio Dionisio il dono di trasformare in oro tutto ciò che toccava, ma si accorse presto che, pur potendo possedere moltissima ricchezza, sarebbe a breve morto di fame, poiché anche il cibo da lui toccato diventava d’oro, e quindi non commestibile. Secondo Keynes le società opulente, vittime del desiderio di accumulare, con la loro avidità distruggono la produzione, bloccano l’economia e finiscono appunto come re Mida per annegare in un mare d’oro. Il mito offre una profonda analisi della dottrina monetarista dominante e della sua ideologia, dimostrando come la moneta non coincida col valore, che invece deriva dal lavoro e dall’economia reale. La moneta e la tendenza al suo accumulo sono alla base dei principali problemi e squilibri economici, tra cui la disoccupazione involontaria. Nonostante il valore assoluto che le viene comunemente e universalmente attributo, essa è in realtà un mero intermediario di scambio. Per l’essere umano il possesso di denaro svolge il compito di mitigare la propria inquietudine più profonda e il premio che viene chiesto per separarsi da esso non sarebbe altro che la misura del suo grado di inquietudine.
(testo estratto da “Inganni Economici. Falsi miti di una scienza sociale“)
Ilaria Bifarini, (http://ilariabifarini.com/)
è nata a Rieti l’1 aprile del 1980 e si è diplomata al Liceo classico “Terenzio Varrone”. Dopo essersi trasferita nel 1999 a Milano, nel 2004 si è laureata col massimo dei voti in Economia della Pubblica amministrazione e delle Organizzazioni internazionali all’Università “Luigi Bocconi” di Milano. In seguito ha frequentato la Scuola Italiana per le Organizzazioni Internazionali di Roma ed il Corso di Liberalismo presso l’Istituto “Luigi Einaudi” di Roma. Ha conseguito inoltre l’abilitazione alla professione di dottoressa commercialista e revisore contabile, oltre al SIOI (master in studi diplomatici). Dopo esperienze professionali nel pubblico e nel privato, attraverso un cammino fatto di studio ed introspezione, si è via via discostata dalla formazione prettamente neoliberista derivante dai suoi studi. Collabora con varie testate giornalistiche in rete e intervengo a convegni e trasmissioni televisive.