Via Oslavia 39-b, un raggio di Piazza Mazzini nel rione Prati a Roma, dal 1929 al quarto piano del palazzo ci abitavano Luce (Lucia) ed Elica con papà Giacomo Balla e mamma Elisa Marcucci. Una famiglia colorata, tutta di artisti, in un quartiere invece grigio verde col tocco nero delle toghe, cioè impiegati, militari, amministratori di giustizia, incolonnati su palazzoni in stile umbertino o nei cortili delle caserme di sapore rinascimentale, seguendo l’eclettismo fine Ottocento. Prati nomen omen, tutta quella terra un tempo era campagna fin dalle vigne degli Horti Domiziani, tale rimase fino al 1883 quando il secondo Piano Regolatore di Roma (dell’ing. A. Viviani) creò la destinazione a calce, mattoni e anfibi del quartiere più anticlericale della caput Italiae. Edifici imponenti, severi, quinte affacciate su strade ampie e piazze studiate però a che non si vedesse il cupolone di S. Pietro, compasso della Massoneria liberal per isolare ciò che restava dello Stato pontificio. La toponomastica recitava di eroi del Risorgimento o di illustri personaggi dell’Urbe imperial-pagana, poche le chiese messe a latere, quasi nascoste con quel viale intitolato a Cola di Rienzo, autentico schiaffo al monarca pontificio. Prati fu un esempio dell’ urbanistica piemontese mutuata dalla Parigi di Haussmann per dare forma alle esigenze d’una popolazione in crescita tumultuosa, in una città che, eletta suo malgrado capitale del Regno, doveva accoglierne le strutture amministrative copiando le altre capitali d’Europa, doveva brulicare di progresso, dal trasporto alla salubrità delle case, alla difesa militare fino alle colonne vertebrali di scuole, commercio, svago. Prati non era un quartiere bohémien, non ci si respirava l‘incenso sacro dell’arte di villa Strohl Fern o di via Margutta, era un razionale rione borghese, ancor’ oggi paludato in giacca, cravatta e l’immancabile borsa di pelle degli avvocati.
Forse Giacomo Balla ci ritrovava la sua Torino dove era nato il 18 luglio 1871, pronipote di una famiglia di decoratori-tintori di tessuti, ma para faceva il cameriere, mara la sartina in casa per conto terzi, lui era l’unico fiorellino di un matrimonio entrato presto in crisi. El fieul c’aveva l’arte nei cromosomi, studiava musica fin da picinin, archetto da sfregare sul violino, mentre mamma Lucia, messasi in proprio, disegnava realizzando decorazioni per abiti, tingeva stoffe, rispolverava la tradizione di famiglia, lui osservava attento avvertendo il semino della pittura germogliare facendosi albero della sua vocazione. Riposta l’arte di Paganini mammà decise di scommettere su quell’unico figliolo, donna autoritaria o meglio autorevole, seguì il suo Giacomo negli studi, tre anni preparatori alla Reale Accademia Albertina poi due nel corso di pittura dell’accademico G. Grosso che gli inculcò ben bene la tecnica dell’ars pingendi, mentre l’allievo sperimentava anche l’incisione. Ma la sua pianta s’arricchì di un nuovo ramo, la fotografia, passione trasmessagli dal padre, un’arte nuova antitetica alla pittura dal vero, per oggettività, tempo, fedeltà d’immagine. Ebbe la fortuna di entrare nello studio fotografico più in d’Italia, in quel momento, quello del pittore-fotografo Paolo Bertieri, immortalatore della società perbene di Torino. Bivio artistico per il giovanotto: seguire le tecniche tradizionali o tuffarsi nel fiume delle sperimentazioni meccaniche già al galoppo, un dilemma anche di mercato vissuto dalle correnti parigine, dall’impressionismo al pointillisme di Seurat. L’operatore autentico della foto, si sa, è la luce, l’uomo ha il compito di regolarne la quantità col tempo d’esposizione, ma c’è di più si possono cogliere, con gli scatti, le varie fasi del movimento prologo agli studi sul fotodinamismo futurista del frusinate Anton Giulio Bragaglia.
Mamma e figlio si trasferiscono a Roma nel 1895, perché? Beh come direbbe Ceronetti, Torino è una città paludata e noiosa chissà perché Nietzsche la prediligesse, Roma era la Capitale, con un patrimonio d’arte unico al mondo ed era un gran cantiere ma non solo, proprio nell’Urbe disincantata l’arte friggeva. Il gancio umano per stabilirsi nella città eterna fu zio Gaspare Melchiorre, guardiacaccia dei Savoia, che viveva addirittura al Quirinale, un bell’appoggio per Lucia Giannotti e il feuil Giacomino.
Balla, in quel periodo, calzava, insoddisfatto, il suo primo abito di artista pittore fatto di pennellate filamentose seguendo la tecnica del divisionismo di Previati e Pellizza da Volpedo, stessa strada del primo Boccioni o di Mario Sironi, testimone di stile ne è “Luci di marzo” del 1897.
I soggetti delle sue opere sono sociali in linea col realismo di Pellizza da Volpedo, Segantini, il novarese Sartorio e quel Duilio Cambellotti impegnato con un altro torinese Giovanni Cena e la scrittrice Sibilla Aleramo alla qualificazione dei villaggi rurali dell’Agro romano come delle paludi pontine in stato di completo abbandono.
Dopo la sua “prima” alla rassegna della Società Amatori e Cultori di Belle arti del 1899, parte per Parigi a visitare l’Expo del 1900, un incontro vitale con ciò che bolle in pentola, dal post impressionismo di Seurat e Signac, all’Art Nouveau delle Secession, allo sviluppo dell’arte magra della fotografia; ritorna con molti spunti da trasferire nella composizione delle sue opere con una tavolozza intrisa di luce (sua idea fissa). Il suo studio-casa è ai Parioli, esattamente in via Paisiello, prima che le ruspe creassero il quartiere più borghese di Roma, ed è frequentato da menti notevoli nell’arte da Gino Severini ad Umberto Boccioni fino al giovanissimo Mario Sironi, l’obiettivo è superare la stagnazione romantica dell’arte italiana, cogliendo i segnali del cambiamento socio-politico, ma la strada è lunga. La sua stagione è nel verismo sia nei ritratti con taglio fotografico che nei paesaggi della vicina Villa Borghese, un soggetto dipinto più e più volte, quasi un’ossessione, sembra mutuata dalla montagna di Sainte-Victoire di Paul Cézanne. Neppure la fotografia avrebbe reso con tanta intensità e introspezione il ritratto dell’anziana madre ripresa in primo piano, mentre gli scorci della villa testimoniano una tecnica puntinista.
Dopo la partecipazione alla sua prima biennale di Venezia nel 1903, l’anno che verrà decide di impalmare la bellissima Elisa Marcucci sorella dell’artista educatore Alessamdro, lei gli darà due figlie Lucia (Luce) ed Elica vestali del lavoro e della casa paterni. La ricerca di Balla sembra attendere il là ma la sua prima stagione si sta esaurendo, decisivo l’incontro col sulfureo F. T. Marinetti, la miccia è accesa, la bomba esplode sulle pagine de Le Figaro il 20 febbraio 1909 col Manifesto del Futurismo che al punto 4 afferma: “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Nike di Samotracia “. Dal 1912 Balla ne dipingerà più di venti di auto lanciate nella corsa fissando il progredire degli attimi successivi sempre più brevi legati all’accelerazione della velocità deformatrice d’oggetto e spazio circostante. Era invece del 1909 il famoso dipinto “Lampada ad arco” un’anteprima dei suoi studi sulla scomposizione dei colori di una fonte di luce come percepita dai nostri occhi, idem per i corpi dinamici, perché oggetto e spazio sappiamo che interagiscono, si muovono (pensiamo ad un’auto o un treno ed al paesaggio che scorre) sia per l’esperienza del soggetto al centro del fatto, sia per il persistere retinico delle immagini osservate in base alla teoria della “percezione simultanea”. Tutto è dinamica, masse in movimento, persino una statua vista da inquadrature diverse, il lavoro dell’artista sarà di comporre le varie percezioni in una summa sintetica. Nel 1910 firma il “Manifesto della pittura futurista” e il “Manifesto tecnico della pittura futurista” ma ancora non espone le sue ricerche, bisognerà aspettare il 1912 all’Expo di Buenos Aires, nel frattempo vende tutte le opere del periodo precedente che lui apostrofò come “Fu Balla”. Compone le suoi ultimi soggetti figurativi di questa seconda stagione: “Ragazza che corre sul balcone”, “Le mani del violinista”, “Dinamismo di un cane al guinzaglio”, poi il salto nelle atmosfere dell’Astratto, sarà il suo terzo, lungo periodo fino agli anni ’30.
A partire dal 1912 il futurismo di Balla oltrepassa la soglia della figura, esplora l’astrattatismo geometrico con le “compenetrazioni iridescenti” quelle che Maurizio Calvesi interpretò come esplorazione dei principi teosofici. Sono forme curve o triangolari analizzate attraverso la luce vanno al di là dell’oggetto reale, ne analizzano l’essenza invisibile all’occhio, osservate attentamente ci conducono oltre la soglia dei sensi, in un mondo astratto non meno vero dell’apparenza. Siamo nella sfera dell’esoterismo che tanto ha influenzato gli artisti moderni da Kupka, a Kandinsky, a Mondrian al dadaista Evola, ai futuristi Balla e Arnaldo Ginna. Di questa iniziazione v’è certezza, la figlia di Giacomo, Elica, ricordava nel suo libro di memorie che il papà a Roma “frequentava le riunioni di una società di teosofici”. D’altronde nel 1915 Balla e Depero scrivono il Manifesto della ricostruzione futurista dell’universo dicendo:” Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo gli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione […]”. Oggettivare ”dinamismo plastico e plasmazione dell’atmosfera, compenetrazione di piani e stati d’animo … Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente.” Firmato Astrattisti futuristi. Con loro il Futurismo conosce la sua seconda stagione, non più analisi di soggetti in movimento ma indagine sull’ignoto, attraverso la penetrazione del visibile e “Trasformazione Forme e Spirito”, processo che Balla sperimenterà nel ’17 seguendo appunto gli insegnamenti teosofici. Non più solo tele o muri da affrescare ma produzione di oggetti d’arredo, suppellettili, abiti, scenografie, tutto ma proprio tutto deve essere reinventato. Il dinamismo turbofuturista delle sue automobili, dei suoi ciclomotori del ’13-’14 si trasferisce nell’attenta composizione e scomposizione delle forme geometriche, nella ricerca della verità con studio, riflessione, ideali, trasmessi dalla purezza di linee e di colori testimoni d’un percorso iniziatico, forme degli stadi di una conoscenza superiore.
Da quel 1915 l’artista prende a firmarsi Futur Balla quasi incarnando lo spirito di quella parte della giovane Nazione proiettata nel costruendo futuro fatto di lotta, guerra “unica igiene del mondo”; Italia all’assalto contro le mammolette socialiste, in questo clima nascono le “pitture interventiste”, qui riportiamo “Sventolio di bandiere” era sul retro di un altro quadro dell’artista la “Verginità”, coperto di nero è stato riportato alla luce ed esposto, per la prima volta, a Gorizia nel Museo della grande Guerra, è un omaggio al centenario di una Vittoria di umili eroi contro una mandria di asini vili. (continua)
Emanuele Casalena
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