Per meglio capire la logica e i sentimenti di G.A. Stella, autore di innumerevoli scritti sui migranti, servirà leggere sul Corriere della Sera il suo recente articolo “L’America, incubo dei nostri emigranti”. È uno scritto criptico, oscuro e nello stesso tempo fortemente allusivo. Solo la chiusa rivela l’intento di Stella, il quale, anche quando sembra parlare con pietà di noi italiani, lo fa esclusivamente per portare avanti il suo eterno discorso di beatificazioni del Diverso, dello Straniero, del non italiano insomma.
L’autore, in questo articolo, ci presenta degli estratti delle lettere spedite alla famiglia da un emigrante d’eccezione: Bartolomeo Vanzetti, il quale aveva attraversato l’Atlantico (1908) per cercare fortuna in America. Questa tragica descrizioni fatta da Vanzetti dà un’idea del resto: “I poveri dormivano all’aperto e rivoltavano le immondizie nei barili per trovare una foglia di cavolo od una mela marcia. Per tre mesi percorsi New York per lungo e per largo, senza riuscire a trovare lavoro.”
L’emigrazione è un tema molto confacente al celebre autore di “L’Orda. Quando gli Albanesi eravamo noi…”, ma che lui tratta in una maniera assai particolare: abbassando noi italiani e beatificando gli altri. Come mai il nostro Stella si interessa questa volta alle sofferenze che gli emigranti hanno subito, e non a quelle – su cui ci ha abbondantemente documentati – che noi emigranti italiani, stando a quanto sostiene, abbiamo fatto subire ai vari popoli che ci hanno accolti? Devo confessare che leggendo il titolo “L’America, incubo dei nostri emigranti” ho pensato: un titolo piùin armonia con il credo di Stella avrebbe dovuto essere “I nostri emigranti, incubo dell’America.” Ma no, per una volta Stella si è concentrato sulla triste testimonianza dell’emigrato Bartolomeo Vanzetti.
Il lettore stenterà a capire dove l’autore dello strano articolo voglia andare a parare, visto che neppure un accenno è fatto agli attuali flussi immigratori verso l’Italia e l’Europa, tema di cocente attualità su cui, in questo articolo, egli rimane invece muto. Né l’autore allarga il discorso sulle condizioni dell’America di quel tempo (quando vigeva il linciaggio, i bambini lavoravano in miniera, gli ebrei erano spesso considerati degli indesiderabili, e gli italiani non erano tutti ritenuti far parte della razza bianca…). Ma allora perché questo parlare degli emigranti italiani In America di piùdi un secolo fa, limitandosi alla testimonianza di Vanzetti? La soluzione all’enigma forse ci è data dalla strana frase conclusiva dell’articolo, posta fra virgolette: “E meno male che ‘i nostri nonni andavano sempre dov’erano bene accolti e c’erano spazi e case e lavoro per tutti…’”.
Cos’è questa sarcastica citazione finale? A chi e a cosa si riferisce il nostro Stella, che cita una frase senza dirci chi l’abbia scritta o pronunciata? Una maniera veramente strana di procedere anzi di concludere…
Per me però è tutto chiaro: Gian Antonio Stella, fedele al suo vangelo a senso unico, non ci ha parlato delle sofferenze degli emigrati italiani per cercare di riscattare il ricordo di questi ultimi, feriti e infangati proprio dai suoi abbondanti scritti anteriori. Lo ha fatto invece per continuare ad abbassare e svilire quegli italiani che oggi osano semplicemente fare un distinzione tra gli emigranti italiani di ieri, che partivano verso paesi in crescita, dove c’era lavoro (ma Stella intende appunto smentire simile credenza) e le masse di migranti, quasi sempre illegali, che giungono in un paese dall’alta disoccupazione, il nostro, dopo aver pagato un costoso pedaggio agli scafisti.
Claudio Antonelli
Fonte immagine Corsera