Chi scrive ha spesso esplorato il tema della comunione spirituale tra le diverse civiltà tradizionali dell’Eurasia. Tale unità, oggi ignorata o scientemente negata dai più, si riflette anche nell’identificazione del “nemico metafisico” di ciascuna di esse. Ma questa affermazione necessita chiaramente di essere dimostrata ed interpretata attraverso diversi livelli di lettura. In primo luogo è bene ricordare che uno dei pilastri fondanti della Tradizione è l’agire senza nulla chiedere in cambio: il rigetto di ogni mero calcolo di profitto.
Prima di inoltrarsi ulteriormente nell’argomento, è opportuno sottolineare che gli eventi della Vǫluspá pertengono all’ambito della geografia sacra. Il poema nordico, infatti, racconta di accadimenti del mondo fenomenico le cui cause, tuttavia, sono da attribuire ad eventi che si svolgono in primo luogo sul piano dello spirito ed in uno spazio metafisico che comunque esercita la sua influenza in modo determinante sulla vita materiale. Ora, grazie a Gullveig, cupidigia, istinti all’accumulazione, al tradimento ed alla sopraffazione si contagiano dal mondo degli dèi a quello degli uomini. L’ordine viene definitivamente compromesso dalla sete dell’oro che genera il caos e determina la prima guerra del mondo tra Æsir (coloro che incarnano la prima e la seconda funzione all’interno dell’ordinamento tradizionale indoeuropeo, ovvero sacerdoti e guerrieri consacrati alla difesa della sacralità delle istituzioni) e Vanir (la terza funzione, i produttori). Il caos si genera quando una di queste funzioni, o tutte insieme, viene meno al suo ruolo. Se i Vanir, ad esempio, producono ricchezza per il loro esclusivo tornaconto, rifiutandosi di collaborare al mantenimento dell’ordine, il sistema viene irremediabilmente compromesso. Così come viene compromesso se il guerriero non svolge più il suo dovere in difesa della giustizia ed il valore sacrale della milizia si perde nell’abuso e nella violenza fine a se stessa.
Queste espressioni trovano perfetto riscontro nella Tradizione indù. È scritto nel Bhagavata Purana (12,2): “Nell’Età di Kali, presso gli uomini la ricchezza prenderà vantaggiosamente il posto della nobiltà dei natali, della virtù, del merito. Diritto e norma saranno determinati dalla forza. Nel matrimonio si cercherà unicamente il piacere, negli affari la scaltrezza; nei sessi la voluttà. I re si comporteranno come briganti; gli uomini si dedicheranno a rubare, a mentire, ad inutili assassini e ad ogni sorta di pratiche [scellerate]”. L’atto finale del ciclo cosmico è il il Ragnarok: il momento in cui si compie il “destino degli dèi” per mano dei giganti che distruggono le luminarie celesti (il Sole e la Luna) annientando sia il divino che l’umano e preparando il cosmo ad un nuovo ciclo e ad una terra che risorgerà dagli abissi oceanici. I giganti, infatti, presso i Greci ed i Germani, personificavano il potere dissolutore delle energie elementari, l’eterna ed insaziabile brama che crea e divora ogni forma esistente (compresi i propri figli). Volendo azzardare un paragone con la contemporaneità (anche sulla base delle teorie heideggeriane su gigantismo e americanismo), si potrebbero rintracciare delle similitudini tra la condizione dell’Europa odierna e quella del mondo primordiale sottoposto agli istinti distruttori dei giganti. L’Europa, infatti, sembra essere stata inghiottita da un mostro gigantesco che l’ha masticata, smembrata e ricomposta a sua immagine e somiglianza. Di fatto, ciò che è avvenuto al termine del Secondo Conflitto Mondiale, quando gli Stati Uniti, dopo aver distrutto militarmente ed economicamente l’Europa, hanno partecipato alla sua ricostruzione promuovendo l’inserimento del Vecchio Continente all’interno di uno spazio geopolitico ad essi subordinato.
Tuttavia, Heidegger vedeva nell’americanismo un’origine europea [2]. Gigantismo e americanismo, secondo il filosofo tedesco, sono esiti inevitabili dell’Età moderna e del progresso illimitato della tecnica. Ovvero, parafrasando Carl Schmitt, di quel momento in cui il paradigma centrale della società europea premoderna (la religione) è stato sostituito da un paradigma fino ad allora periferico: quello della tecnica e della scienza [3]. Ma la tecnica è divenuta essa stessa religione. Una religione che esclude automaticamente tutte le altre perché si manifesta attraverso la promessa messianica che ogni aspetto della vita umana (una vita ristretta alla mera economia) è risolvibile dalla stessa tecnica scientifica. Il suo scopo, infatti, è quello di limitare la vita eroica ed i legami che ne conseguono a favore della sola prestazione produttiva. Questo è il momento reale della nuova regressione nel caos in cui l’uomo, deviando dal retto agire e rendendosi partecipe del progetto di dissoluzione dell’ordine, diviene egli stesso gigante; calpesta le norme che regolano il rapporto tra umano e divino e, uccidendo gli dèi, diviene “misura di ogni cosa”.
La regressione nel caos equivale alla discesa negli inferi popolati dalle potenze titaniche. Giganti e titani sono forze affini. Ad essi è sempre associata l’ira incontrollabile, la tracontanza e l’ingiustiza. I loro nomi esprimono l’irrequietezza, l’agitazione senza posa (caratteristica propriamente moderna) e la perenne insoddisfazione che travolge le nature ctonie. Friedrich G. Jünger (fratello minore del più noto Ernst) ebbe modo di stigmatizzare la natura puramente titanica dell’homo faber moderno con la sua efficiente irrequietezza: un “uomo senza tempo” che dedica la propria vita solo al lavoro trasformandola in una prigione dalla quale si può evadere solo con la morte. Quest’uomo senza tempo non conosce il valore del non lavoro meccanico. Ha perso ogni nozione di ciò che era il “tempo sacro”: l’unico tempo reale, il tempo del divino, l’istante statico/estatico in cui il tempo non scorre più [4]. A questo proposito, è scritto nella Bhagavad Gita (16, 11-12) che gli uomini dell’Età di Kali “dediti ad una cura affanosa e smisurata che termina solo con la morte, affermano che il bene supremo consiste nel soddisfacimento dei desideri e sono convinti che questo mondo sia l’unica realtà”.
La civiltà moderna, infatti, è la civiltà degli schiavi. E questa schiavitù è la più tetra che la storia abbia mai conosciuto visto che nega allo schiavo anche il diritto alla trascendenza, alla speranza di redenzione. Questa, infatti, può avvenire solo per mezzo della tecnica e della scienza il cui carattere puramente titanico si palesa negli esperimenti che intervengono sull’economica geologica (i tentativi di influenzare il clima) e biologica (la creazione di armi battereologiche) della Terra. C’è stato chi, da un punto di vista “tradizionale”, ha interpretato il risveglio delle forze titaniche e la crociata meccanicistico-scientista dell’“Occidente” in termini positivi. Il rinnovato interesse per la figura ed il mito del titano Prometeo ne sono la più evidente dimostrazione. Tali posizioni, che potrebbero essere facilmente attribuite ad una forma particolarmente perniciosa di contraffazione ideologica, non fanno altro che giustificare/negare, dietro un velo tradizionale, la responsabilità dell’uomo nella lenta agonia della Terra. Tuttavia, il destino dei titani è abbastanza chiaro nei versi della Teogonia di Esiodo. Questi sono condannati a vivere rinchiusi “in un’oscura regione all’estremo della terra prodigiosa” dove Poseidone “pose porte di bronzo e un muro vi corre attorno da tutte le parti” (Teogonia, 731-733). Il loro riemergere dalla regione del “caos tenebroso” (l’Estremo Occidente) è il segno della fine imminente del ciclo cosmico.
Idee similiari si ritrovano sia nella Tradizione dell’India che in quella islamica. Secondo la prima, una possente barriera montuosa separa il cosmo (Loka) dalla regione del caos (Aloka) dove abitano i demoni Koka e Vikoka. Nella sura coranica Al-Kahf (la caverna) si ritrova inceve il racconto della mostruose e malvagie genti di Gog e Magog (alle quali è riservato un posto di rilievo nell’escatologia islamica) la cui furia distruttrice viene fermata dal “Bicorne” (Alessandro Magno secondo talune interpretazioni) attraverso la costruzione di una imponente muraglia tra due montagne. Alcuni pensatori ed interpreti contemporanei del Corano hanno identificato nei coloni sionisti della Palestina le genti di Gog e Magog. A questo proposito, è doveroso ricordare che tanto Karl Marx quanto il già citato Martin Heidegger riconobbero nel popolo ebraico alcune caratteristiche precipue dell’uomo moderno: l’esasperata ricerca del profitto il primo, la sradicatezza il secondo.
Un altro elemento che si presenta con notevole frequenza nelle tradizioni eurasiatiche è quella dell’Albero del mondo. Questo, come nel caso del frassino cosmico Yggdrasill della Tradizione nordica, dà segni di cedimento nel momento in cui presagisce la fine. Alle sue radici si trova la fonte di Mìmir dove Odino lasciò in pegno uno dei suoi occhi per bere il sacro idromele della conoscenza, l’equivalente dell’ambrosia greca. I racconti sull’Albero del mondo (che spesso coincide con l’Axis Mundi) si ricollegano al mito dell’“Albero secco” ed alle leggende su Alessandro Magno che si recò in Oriente alla ricerca della fonte della vita e della conoscenza. In ambito cristiano, l’idea dell’Albero secco è associata al legno della croce di Gesù Cristo ed all’Albero del paradiso. La leggenda, infatti, racconta che Set piantò sulla tomba del padre Adamo un ramoscello proveniente dell’Albero del paradiso. Quest’Albero (che sta lì “dall’inizio del mondo”) nel Bellum Judaicum di Flavio Giuseppe si trova ubicato nell’odierna Palestina, nelle vicinanze di Hebron (dove si trovano anche le tombe dei patriarchi Abramo e Giuseppe) e dal suo legno sarebbe stata costruita la croce. La leggenda si ricongiunse alla storia vera e propria nel momento in cui la croce di Cristo, scoperta dall’Imperatrice Elena, venne riportata a Gerusalemme da Eraclio dopo la riconquista della città. Di fatto, la versione orientale di questo “mito” prevedeva che un Imperatore bizantino, una volta liberata Gerusalemme e sconfitte le genti di Gog e Magog (la cui azione è descritta con dovizia di particolari anche nell’Apocalisse di Giovanni), si inginocchiasse sul Golgota deponendo le armi e lo scettro ai piedi della croce in segno di sottomissione al volere divino, di compimento definitivo della propria missione terrena [5]. La collocazione palestinese dell’Albero del mondo, tuttavia, rimane assai dubbia. Marco Polo, ad esempio, lo colloca in Persia nel punto in cui si scontrarono Alessandro e Dario.
In conclusione, non si può prescindere dall’esaminare il tema della lotta contro il drago (o il serpente), anch’esso particolarmente diffuso nello spazio orizzontale del “continente assiale”. Apollo, nato da appena tre giorni, uccide ai piedi del monte Parnaso Pitone: mostro dalle origini ctonie e dotato di poteri oracolari. Al suo nome si deve quello della sacerdotessa ispirata da Apollo: la Pythia che esercita la sua funzione dal santuario di Delfi dove sono sepolte le ceneri dello stesso mostro. Nella saga dei Nibelunghi (magistralmente tradotta in musica da Wagner) il drago rappresenta l’opposto del principio della misura e della ridistribuzione: è l’emblema dell’accumulazione e simbolo dell’uomo che si lascia inebriare ed incattivire dall’oro. Più complesso è il discorso per ciò che concerne il Beowulf. Di questa saga originariamente proveniente dalla Scandinavia (sebbene trascritta per la prima volta in Inglese antico intorno all’anno Mille) è bene innanzitutto analizzare il nome dell’eroe. Il significato del nome Beowulf sembra essere infatti quello di “colui che si comporta da lupo nei confronti delle api” [6]. In altri termini, il nome Beowulf significa “orso”: animale che tradizionalmente indica la funzione guerriera, basti pensare al mito di origine celtica di Artù – Arctoviros (l’uomo orso) in cui si ritrovano altri elementi comuni a tutto lo spazio eurasiatico, dall’occultamento dell’eroe all’esaltazione dei valori cavallereschi.
Le api e il miele, inoltre, sono simbolo di sapienza e carisma. Le api hanno nutrito Pindaro e Platone col miele quando questi erano ancora in tenera età. La sovrabbondanza di api e miele è sinonimo di prosperità. Nell’Islam sciita, sviluppatosi in un contesto geografico di profonda influenza della Tradizione indoeuropea (la Mezzaluna fertile e l’Altopiano iranico), le api vengono paragonate alla stessa comunità islamica. Il vero credente è come l’ape in cerca dei fiori migliori; mentre il miele, il cibo più dolce e salutare per il corpo, è paragonato alla conoscenza che gli Imam hanno diffuso tra i loro fedeli. Beowulf lotta in primo luogo contro il gigante Grendel, nemico infernale che abita in “lande paludose rifugio per le razze dei mostri” (una descrizione assai simile a quella della terra in cui sono confinati i Titani secondo Esiodo). Successivamente, ormai avanti negli anni, combatte contro un drago che custodisce un vasto tesoro. Uccide il drago ma muore a causa del veleno del mostro. Tuttavia, muore nella consapevolezza di aver eseguito fino all’estremo sacrificio il suo dovere di sovrano e guerriero: difendere il proprio popolo e la Patria. Come riporta Mario Polia nel suo notevole studio Il drago e l’eroe nei miti del nord (Cinabro Edizioni 2020), non si può escludere a priori la presenza di un valore esoterico ed iniziatico all’interno di questi racconti. Infatti, non è errato identificare nella lotta contro il mostruoso quella lotta che avviene dentro ognuno di noi contro il desiderio smisurato. Quella lotta che l’Imam Khomeini chiamava “la più grande lotta per liberarsi dalla prigione dell’io e ascendere verso il divino”. Non sorprende che l’essere mostruoso (il drago) viva sempre sotto terra, in una grotta la cui oscurità o semi-oscurità (come nel mito platonico della caverna) è simbolo dell’iniziale condizione di ignoranza dell’uomo. L’ingresso, la lotta al suo interno e l’uscita dell’eroe dalla cavità sotterranea, di fatto, rappresentano le tappe iniziale, centrale e finale di un percorso iniziatico.
Note:
[1] M. Polia, Il drago e l’eroe nei miti del Nord, Cinabro Edizioni, Roma 2020, p. 36.
[2] M. Heidegger, Holzwege – Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano 2014, p. 265.
[3] C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, p. 101.
[4] A questo proposito si veda anche E. Jünger, Al muro del tempo, Adelphi Edizioni, Milano 2000.
[5] A. Bassermann, Il Veltro dantesco, il Gran Khan e la leggenda imperiale, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2021, p. 42.
[6] Il drago e l’eroe nei miti del Nord, ivi cit., p. 196.
Daniele Perra