Così lo soprannominò D’annunzio che coniò per lui altri suggestivi nomignoli come “Ettore da Ravenna” e il “Corsaro”.
Ettore Muti è l’ultimo eroe italiano e in una nazione in crisi di ideali, anche il ricordo di un eroe può aiutare a crescere. Vorrei ricordare, nei giorni in cui ricorre l’anniversario del suo, ancora oggi, misterioso assassinio, il “fascista tra i fascisti”, come recita una vecchia canzone. Ettore Muti, è stato volutamente dimenticato, obliato dai libri di storia nelle scuole, perché fascista e dunque è impossibile, per la dominante cultura di sinistra, rappresentarlo come valore positivo ai giovani studenti. Vorrei ricordarne non tanto la vita, le eroiche gesta, che ne fecero il soldato più decorato e amato d’Italia, per quello basta leggere una buona biografia e vi si troveranno elencate tutte le sue imprese, le gesta di enorme coraggio, indubbiamente, meglio di come potrei fare io.
Vorrei soltanto portare all’attenzione di chi leggerà, proprio come si fa a un funerale o a una commemorazione, simpatici aneddoti, episodi lieti della sua breve ma intensa vita, raccolti spulciando fra gli innumerevoli libri a lui dedicati, allo scopo di strappare un sorriso in sua memoria. Ne parlerò come farebbe una ragazza “innamorata” che pur avendolo conosciuto solo fra le righe di qualche volume dimenticato in soffitta, per l’aura romantica che lo circondava e per la sua tragica fine nel pieno della vita, leggendo dei suoi modi e guardando i suoi occhi in una fotografia ingiallita dal tempo, ha avvertito aumentare il battito del cuore.
Ettore Muti era un romagnolo sanguigno, impetuoso, dal carattere spavaldo, con il gusto dell’avventura e con grinta tenace. Un bellissimo uomo, dalla muscolatura forte e prestante, spalle larghe e viso aperto. Sguardo dolce e da duro, al tempo stesso, che esprimeva sicurezza. Energico, cordiale e, a detta di tutti, brillante e simpatico, amante degli scherzi, anticonformista, scanzonato e sempre un po’abbronzato.
Insomma aveva tutte le caratteristiche giuste per piacere alle donne e non solo. Che fosse un grande amatore, è risaputo, ma c’è un episodio che lo delinea come sopra descritto. Quando era al comando della Legione Portuale di Trieste, successe che un giovane principe orientale, di dichiarata fama omosessuale, affascinato dalla prorompente fisicità di Muti, tentò delle avances che, ovviamente, furono respinte in modo manesco, con qualche cazzotto di troppo. Ne nacque un incidente diplomatico, presto messo a tacere, ma pare che il Duce in persona provasse a redarguirlo e alla fine sbottò dicendo: ”Insomma Muti come mai a me queste cose non succedono?” allora lui, che era sì attaccato a Mussolini, ma senza piaggeria e osava parlargli con confidenza, seppur sempre usando il dovuto rispetto gli rispose “ma Vò an se mega un bel oman come me!” (ma Voi non siete mica un bell’uomo come me!).
Muti era fatto così, genuinamente sincero e spontaneo tanto da togliere la parola di bocca anche al Duce in persona o, come successe in un’altra occasione alla principessa Maria José di Savoia. La futura “regina di maggio” gli si era offerta come madrina di guerra e lui, aveva subito accettato. A Roma, mentre in una suggestiva cerimonia stava ricevendo dalle sue mani un mazzo di fiori, si accorse che erano avvolti in una carta appuntata con uno spillo, allora la fermò spiegando che lo spillo “porta sfortuna” e dunque vedendo la sorpresa della principessa che non conosceva tale superstizione, aggiunse che avrebbe dovuto pungerla leggermente per scongiurare il sortilegio. Maria Josè accetto di buon grado, e sorridendo si lasciò pungere il dito. In seguito con i suoi soliti scanzonati modi, un po’da guascone, raccontando l’episodio, ebbe a dire allegramente “Ohi anche la principessa ho trafitto!”.
Muti era amato e rispettato da tutti gli Italiani proprio per la sua sincerità oltre che per il suo innegabile valore. Il 25 luglio del 1943, il giorno del tradimento e dell’arresto di Mussolini, si trovava a Roma, reduce da una missione in terra di Spagna. Era in piazza Barberini, mentre tutto intorno la folla iniziava ad abbattere le insegne, a incendiare i circoli e a malmenare i gerarchi. Lui, per niente intimorito, continuò i suoi normali spostamenti e, al contrario, il suo passaggio venne calorosamente applaudito da tutti. La gente conosceva le sue gesta, il suo valore e sapeva anche che era sì un gerarca, ma del tutto particolare, mai tronfio e mai megalomane, anticonformista e combattente coraggioso. A lui fu consentito in tempi difficili per tutti i fascisti, farsi vedere in giro, in divisa a passeggio per Via Veneto, senza che nessuno osasse lanciargli improperi o tentasse di colpirlo. Insomma era un personaggio rispettato e amato. “Con Muti si va anche all’inferno” dicevano di lui i fanti in Spagna, dimostrando quanta fede e quanto ardore, riusciva a trasmettere alla truppa.
Ma anche a casa era un grande trascinatore. Generoso, “compagnone”, alla sua mensa invitava sempre amici. Da buon romagnolo autentico, sapeva essere ospitale e il suo desco era un porto di mare per allegre brigate. Non amava prendersi sul serio in qualunque cosa facesse, pur dando sempre il meglio. Quando fu nominato presidente del PNF, raccontava la madre, mandò un telegramma all’amico federale di Ravenna: “Ven cun de pèn rumagnol e cun di grasul..” (Vieni con del pane romagnolo e con dei ciccioli, che sono un tipo di affettato tipico di queste zone).
Come detto, però non fu soltanto, spregiudicato, sprezzante e senza scrupoli. Al contrario dimostrò valore, serietà e merito nel corso del suo mandato. Si racconta che spesso durante le sue frequenti, improvvise ispezioni alle sedi Littorie, non mancasse ove necessario, di ammonire malamente i gerarchi che fossero meritevoli di essere ripresi e redarguiti. Fece condurre inchieste sulle malversazioni, (quanto servirebbero oggi persone così) anche sull’Opera Nazionale del Dopolavoro, mise al loro posto gerarchi e sottoposti, e si dice di lui che “non voleva feste e applausi”, ma gli piaceva “pulire gli angolini”.
Vorrei concludere sperando di essere riuscita a far trasparire il quadro che mi sono fatta io dell’uomo e dell’eroe. Un uomo d’azione, coraggioso, sincero, imprevedibile, e incapace di tattiche da corridoio. Ignorava la diplomazia e all’occorrenza preferiva sbrigarsela con due sberle più che con piani tattici e infide trame. Non gli piaceva farsi pestare i piedi e mai lasciò che lo facessero, senza però comportarsi da despota tiranno con nessuno. Non voglio ricordarlo, come ultima immagine, riverso sul terreno della pineta di Fregene, il 24 agosto del 1943, ucciso da un colpo alla nuca sparato da mano vigliacca e assassina, ma mi piace ricordarlo vivo, come sarà sempre, nella buia sala di un cinema, dove amava andare da solo a vedere John Wayne, o a correre senza freni con la sua Bugatti, o ancora a compiere imprese mirabolanti con l’aereo sui cieli di Spagna (irripetibile Stradivario lo definì Italo Balbo) e a fare complimenti a una bella donna, come in quell’occasione in cui un’avvenente signora, con abito audacemente scollato, gli si rivolse guardando le molte medaglie che gli brillavano sulla divisa dicendo: “Fatemi ammirare questo petto” e lui “Guardate pure, signora, l’ammirazione è reciproca”.
Franca Poli
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