Prima parte: lo sfondo storico
Questo testo ha un titolo chilometrico e, ammettiamolo, non troppo invitante, che fa pensare soprattutto a quelle raccolte di militaria spicciole e più o meno dimenticate che mentre deliziano i vecchi combattenti, sono di interesse ben scarso per il lettore medio, ma una volta superata questa primissima, epidermica impressione, ci si rende conto di aver messo le mani su di un autentico tesoro.
Proprio per questo motivo, non è il caso di essere avari con le parole. Questa recensione non sarà costituita dalle solite tre o quattro paginette, ma in maniera analoga a come ho già fatto per Kantianità e ghiaccio cosmico di Silvano Lorenzoni, si tratterà di un piccolo saggio suddiviso nell’arco di due articoli.
Il libro, infatti, spazia su di una prospettiva ben più ampia che chiarisce, a dispetto della mistificata e mistificante storiografia ufficiale di ispirazione “resistenziale”, la vera natura degli eventi storici nell’angolo nord-orientale dell’Adriatico dalla metà del XIX secolo in poi, fino al tempo presente, e la vera natura dei rapporti fra l’elemento italiano e quello slavo, oltre al fatto che le ricorrenti parole d’ordine come “democrazia”, “antifascismo”, “socialismo” NON SONO ALTRO CHE MENZOGNE intese a edulcorare e mascherare la vera realtà di quello che è essenzialmente UN CONFLITTO ETNICO che dura da secoli, menzogne inoltre a senso unico, volte cioè contro l’elemento italiano, mentre non hanno mai frenato la violenza slava contro di esso.
Giorgio Rustia è un biologo triestino che è vissuto per trent’anni a Milano lavorando in una importante Azienda nazionale. Ritornato a Trieste, sua città natale, per hobby si è dedicato alla verifica della fondatezza della “vulgata” che ricostruisce la nostra tormentata storia alla luce dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza per distinguere l’opera scientifica dal cronachismo volgare, dal pettegolezzo, dalla falsificazione del vero e dalla propaganda politica.
Questo testo, come vi dicevo, spazia su di un arco di tempo molto più ampio di quello che ne costituirebbe l’oggetto ufficiale, cioè le vicende belliche del periodo 1943-45, perché Rustia sa molto bene di rivolgersi a un pubblico disinformato o a cui le cose sono state raccontate in maniera deliberatamente travisata.
Cominciamo subito con lo smentire una delle fole più care alla storiografia resistenziale, ossia che la conflittualità tra l’elemento italiano e quello slavo nel nord est adriatico sarebbe stata creata dal fascismo. Nulla di più falso, il fascismo l’ha solo ereditata, e la buona armonia che si narra sarebbe esistita tra tutte le componenti etniche dell’impero asburgico, non è che una miserabile favola con una consistenza storica inferiore a quella di Cappuccetto Rosso.
Sicuramente, essa era già presente alla metà dell’ottocento, in uno con “il risveglio dei popoli” che caratterizza il XIX secolo, e per la parte slovena si può far partire dal 1843, quando da Zagabria Drog Sejan diffuse in tutta Europa le sue carte etnografiche che fissavano al Tagliamento il confine occidentale del “territorio etnico sloveno”, incurante del fatto che in quest’area vivessero centinaia di migliaia di italiani, tracciando una linea di rivendicazione che gli sloveni non hanno mai abbandonato, sulla quale come vedremo, insistono ancora oggi, mentre gli Italiani sembrano avere del tutto dimenticato che l’Istria e la Dalmazia sono state terre italiane da cui i loro connazionali sono stati scacciati con inaudita violenza genocida.
Tuttavia, senza partire dalla notte dei tempi, l’anno che determina una svolta rilevante nella situazione di quello che fu il Litorale adriatico, è il 1866. In quell’anno gli esiti della guerra austro-prussiana (per noi terza guerra d’indipendenza) determinano due fatti essenziali: l’annessione del Veneto all’Italia e la trasformazione dell’impero d’Austria espulso dalla Confederazione Germanica in Austria-Ungheria.
Giorgio Rustia non ne parla, ma forse qui è il caso di nominare una circostanza che rientra pienamente in questo quadro: è noto che in questo conflitto le neonate forze armate italiane non diedero buona prova di sé. Una storiografia che sembra essersi assunta il compito, a differenza di quanto avviene a ogni altra latitudine, di denigrare tutto quanto è nazionale, ha rimarcato fino all’assurdo le sconfitte di Custoza e Lissa (stranamente dimenticandosi il più delle volte di nominare la vittoria italiana di Bezzecca), ma “ci si dimentica” di dire che fu proprio il fatto che l’Austria avesse impegnato il grosso delle sue forze contro l’Italia a rendere possibile la schiacciante vittoria prussiana di Sadowa. Anche il Veneto non ci fu “regalato”, ma fu acquistato con il sacrificio e il sangue dei nostri soldati e marinai.
La trasformazione dell’impero austriaco in duplice monarchia non fu un mero fatto amministrativo. Espulsa dalla Confederazione Germanica, la monarchia asburgica cercò la sopravvivenza in una politica che favoriva al proprio interno alcune etnie a scapito di altre, l’un tempo celebre “divide et impera”, e in particolare sulla sponda adriatica, il favorire l’elemento slavo a scapito di quello italiano. Al riguardo, bisogna dire che Rustia ha fatto il tipo di lavoro che gli storici dovrebbero fare e di solito, almeno per quanto riguarda le vicende adriatiche, si guardano bene dal fare, è andato a controllare le fonti, in questo caso i censimenti dell’imperial-regio governo che ci fanno vedere come gli sloveni a Trieste fra il 1880 e il 1910 erano passati da 2.817 unità a 20.358 con un incremento del 623%, a Gorizia da 3.420 a 10.868 con un incremento pari al 218%. Tassi di incremento ancora più elevati si riscontrano in tutta l’Istria e la Dalmazia stravolgendo l’assetto etnico dell’intera area. A Pisino, ad esempio il censimento del 1890 aveva fatto registrare la presenza di 9 (NOVE!) persone di nazionalità slovena e 3 (TRE!) persone di nazionalità serbo-croata su di una popolazione di 7.724 unità, e ciò nonostante le autorità austriache nel 1894 vi imposero il bilinguismo.
I motivi di questo repentino incremento demografico sono facilmente spiegabili, Rustia racconta:
“L’immigrazione, sebbene indirizzata verso tutto il territorio [era] particolarmente mirata sulle grandi città, dove ogni possibilità di ottenere posti di lavoro statale fu preclusa agli italiani, essendo tutti i posti di lavoro nelle ferrovie, nelle poste e negli altri Enti statali, riservati all’immigrazione slava”.
Va sottolineato anche che a questa politica di de-italianizzazione, la Chiesa cattolica si trovò pienamente allineata. Alla guida della diocesi triestina si alternarono presuli sloveni, croati e qualche tedesco, ma Trieste, pur essendo una città in cui l’elemento italiano era nettamente preponderante, non ebbe un vescovo italiano fino a dopo la seconda guerra mondiale.
Una verità che oggi si preferisce ignorare, è che la Chiesa cattolica per tutto il periodo risorgimentale è stata schierata CONTRO L’ITALIA e l’unificazione italiana, che avrebbe portato alla scomparsa del suo miserabile staterello pontificio. Nelle nostre terre la situazione non era diversa che altrove, semmai più grave, perché nel conflitto etnico, essa si schierò apertamente con l’imperial-regia autorità e l’elemento etnico sloveno e croato contro quello italiano.
Negli atti della Dieta Provinciale per il Margraviato dell’Istria dell’anno 1898 si trova una protesta del deputato avvocato Ghersa contro la slavizzazione dei nomi delle località e delle persone operata sistematicamente dai canonici sloveni. E’ da notare che nell’impero austriaco non esistevano gli uffici dell’anagrafe, e il loro posto era tenuto dai registri parrocchiali. Questi ecclesiastici dunque avevano agio di manipolare la memoria e l’identità delle nostre terre.
I tassi d’incremento della popolazione slovena nell’alto Adriatico, abbiamo visto, non si spiegano con il normale andamento demografico, ma sono il risultato di una politica di slavizzazione delle nostre terre intesa a comprimere quanto più possibile l’elemento italiano. Questa però è soltanto una faccia della medaglia, l’altra è costituita dalle violenze e dalle intimidazioni non solo tollerate ma incoraggiate dall’imperial-regio governo contro le istituzioni, i giornali, le scuole italiane, fino ad arrivare al vero e proprio terrorismo. Altro che la favola tante volte ripetuta ma non per questo dotata di un briciolo di verità storica, dell’ “Austria, Paese ordinato”!
Le violenze contro gli italiani sono cominciate subito: nel novembre 1866, al ritorno da Venezia dove si era recata per festeggiare la restituzione del Veneto all’Italia, una delegazione triestina è aggredita da elementi sloveni con la complicità dei gendarmi austriaci. L’escalation della violenza anti-italiana è rapida: dai bastoni e dai coltelli, si passa presto alle armi da fuoco. Meno di due anni dopo, nel luglio 1868, la prima vittima, un giovane triestino, Rodolfo Parisi muore trafitto da ben 26 colpi di baionetta (a riprova dell’odio e dell’accanimento slavo contro la nostra gente). Non fu il solo, perché altri due nostri concittadini, Francesco Sussa ed Emilio Bernardini morirono in seguito per le ferite riportate nella vile aggressione dei “bacoli” (la milizia slovena del Carso – in dialetto triestino “bacoli” significa scarafaggi) agli inermi cittadini che ai Volti di Chiozza si godevano la frescura serotina, e numerosi altri riportarono ferite di maggiore o minore gravità, ma non erano che i primi di un elenco destinato ad allungarsi mostruosamente negli anni, fino al GENOCIDIO delle foibe.
Da allora fino al novembre 1918, contro gli italiani si scatena un clima di terrore, che si inasprisce quando in Svizzera un anarchico italiano, Luigi Lucheni, uccide l’imperatrice Elisabetta “Sissi”, moglie di Francesco Giuseppe.
Nel 1911, quindi ben prima della prima guerra mondiale e ben prima del fascismo, l’associazione “Edinost” che raccoglie gli sloveni di Trieste e pubblica l’omonimo giornale, rende noto il suo “programma” per la soluzione “finale” del problema italiano nell’Adriatico. In esso si legge:
“Non abbandoneremo la nostra lotta fino a quando non avremo sotto i piedi, ridotta in polvere, l’italianità di Trieste. Finora la nostra lotta era per l’uguaglianza, domani diremo agli italiani che la nostra lotta è per il dominio. Non cesseremo finché non comanderemo noi. L’italianità di Trieste, che si trova agli sgoccioli, festeggia la sua ultima orgia prima della morte. Noi sloveni inviteremo domani questi votati alla morte a recitare il confiteor”.
Alla teoria seguiva regolarmente la pratica, ad esempio il 13 marzo 1914 un gruppo di sloveni aggredisce gli studenti italiani della Scuola Superiore Pasquale Revoltella a colpi di revolver, ferendone sei, il 26 maggio a Santa Croce sono aggrediti dagli sloveni (il solito eroismo che questa gentaglia non smetterà mai di manifestare) i bambini della scuola elementare italiana.
L’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale a fianco dell’Intesa il 24 maggio 1915 fu, com’era prevedibile, l’occasione di una nuova ondata di violenza contro gli italiani del Litorale. L’incendio della sede del quotidiano “Il Piccolo” fu solo l’apice della violenza che vide la distruzione delle sedi della Ginnastica Triestina, della Lega Nazionale, il saccheggio di numerosi negozi e caffè gestiti da italiani.
La conclusione del conflitto, se da un lato determinò il passaggio della Venezia Giulia all’Italia, dall’altro portò alla formazione dello stato iugoslavo, creando un’ancor più acceso rivendicazionismo slavo sulle nostre terre, un’opposizione rabbiosa alla presenza italiana che non venne mai meno e si concretizzò in un’attività terroristica che non venne mai meno, fino a trovare il suo naturale prolungamento negli eccidi e – diciamolo pure – nel GENOCIDIO degli italiani della sponda orientale dell’Adriatico avvenuto nella seconda guerra mondiale.
Quelle che una storiografia di parte ha presentato e continua a presentare come “violenze fasciste” non furono perlopiù che una ovvia e legittima reazione che un qualsiasi stato e una popolazione esasperata, in una qualsiasi parte del mondo, avrebbero avuto contro un terrorismo strisciante ma continuo e onnipresente.
In questo quadro si inserisce anche un episodio che è considerato dagli antifascisti l’epitome delle “violenze fasciste”, l’incendio dell’Hotel Balkan, visto a livello locale come l’equivalente del delitto Matteotti o dell’incendio del Reichstag (altri due episodi su cui la storiografia antifascista dà delle versioni di parte su cui ci sarebbe molto da discutere), e di cui Giorgio Rustia, sulla base dei resoconti giornalistici dell’epoca, ricostruisce la reale dinamica, molto diversa da quel che viene abitualmente raccontato.
Oltre a fungere da albergo, l’Hotel Balkan sito nell’attuale piazza Oberdan, era sede di diverse associazioni slave, fra cui la Edinost che meno di dieci anni prima aveva dichiarato gli italiani di Trieste “votati alla morte”, era un po’ la centrale di tutte le attività anti-italiane.
Il 12 luglio 1920, non due marinai italiani qualsiasi, come si usa dire oggi, ma il comandante della nave da guerra “Puglia”, Tommaso Gulli ed il suo motorista Aldo Rossi, cui il Regno d’Italia concesse la Medaglia d’Oro e d’Argento al Valor Militare alla memoria, furono uccisi a Spalato nel tentativo di portare soccorso a degli ufficiali italiani asseragliatisi in un locale del porto per sfuggire al linciaggio della canea croata. Il giorno successivo ci fu a Trieste, in piazza Grande (oggi piazza Unità d’Italia), una grande manifestazione italiana di protesta nella quale erano ovviamente presenti i fascisti (a titolo non diverso dagli altri italiani della città). Fu ai margini di questa piazza che venne assassinato a coltellate dagli sloveni il giovane cuoco dell’albergo Bonavia, Giovanni Nini. La folla esasperata, si diresse verso il Balkan, attorno al quale era stato steso un cordone protettivo di militari, carabinieri e finanzieri. La folla, vistisi davanti i “suoi” soldati, si arrestò. Ma fu allora che dalle finestre del Balkan si cominciò a sparare colpi di pistola e a lanciare bombe a mano contro gli italiani. Una bomba ferì a morte il tenente Luigi Casciana e a questo punto i militari cessarono di proteggere l’edificio e la folla vi fece irruzione. Furono gli sloveni stessi ad appiccare fuoco all’Hotel, in modo da facilitare la loro fuga attraverso i tetti.
Senza ripetere in dettaglio tutti gli eventi minuziosamente documentati da Rustia, occorre evidenziare che il terrorismo slavo nelle nostre terre non cessò mai, terrorismo vigliacco inteso a colpire alle spalle tutti quanti incarnassero per il loro ufficio o per il fatto di indossare una divisa, lo stato italiano, alimentato dal disegno di annettere alla Jugoslavia tutto ciò che si trovasse a oriente del Tagliamento, “votando alla morte” gli Italiani così come la Edinost aveva proclamato. Ad esempio, un anno di violenze ripetute, attentati e agguati, fu il 1930, un anno che l’autore definisce drammatico, eppure allora la seconda guerra mondiale era al di là da venire, né gli assetti internazionali del tempo la facevano presagire.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale, l’entrata italiana nel conflitto e la dissoluzione della monarchia iugoslava nell’aprile 1941 portarono a un inasprimento della conflittualità da sempre latente tra italiani e slavi sul confine orientale. Questi eventi, infatti, lasciarono spazio alla guerriglia partigiana di matrice comunista. All’odio etnico slavo contro gli italiani, si sommava quello ideologico dei comunisti contro il fascismo, in un inasprimento di brama di sangue assassina. Occorre tuttavia fare attenzione: i comunisti iugoslavi non hanno mai perso di vista, come vedremo, il carattere ETNICO della loro guerra contro l’Italia, hanno sempre saputo che fra tutte le menzogne di Marx, quella che conclude il Manifesto, “Proletari di tutto il mondo unitevi”, l’internazionalismo, è la più falsa di tutte, tuttavia il fatto di poter mascherare con un pretesto ideologico la loro guerra contro l’Italia e gli Italiani, diventava un potente strumento di mistificazione.
Nel periodo 1940-43 l’attività terroristica anti-italiana degli slavi, mai cessata durante l’epoca “di pace”, conobbe una prevedibile recrudescenza. In questo periodo a Trieste fu arrestata una cellula di sloveni dediti allo spionaggio ai danni dell’Italia e ad azioni di sabotaggio che faceva capo a Pinko Tomazic che fu fucilato assieme a quattro suoi complici il 15 dicembre 1941 (il Tribunale comminò 9 condanne a morte, ma il Capo del Governo italiano, noto per la sua ferocia, ne trasformò 4 in ergastoli). La propaganda antifascista nel dopoguerra ha fatto di Tomazic un martire; troviamo qui la stessa falsità che circonda le narrazioni dell’incendio del Balkan: ecco chi era questo martire dell’antifascismo: una spia e un sabotatore fucilato in base alle leggi di guerra riconosciute da tutti gli stati.
Con l’ignominiosa resa dell’8 settembre 1943, la fuga del re e del governo traditore che vanno a consegnarsi nelle mani degli invasori, la dissoluzione di tutte le strutture militari e civili dello stato italiano, la situazione muta radicalmente, e gli italiani del confine orientale si trovano esposti alla violenza assassina delle belve a due gambe slave.
Qui si arriva alla parte clou del libro: quali erano le forze schierate a difesa degli italiani del confine orientale a cui i partigiani slavi si apprestavano a infliggere il più atroce dei martirii? Innanzi tutto la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN) che a differenza delle altre forze armate italiane non si sbandò con l’8 settembre 1943, ma si trasformò in Milizia Difesa Territoriale sostituendo la camicia nera con quella grigioverde e i fascetti sulle mostrine con i gladii della Repubblica Sociale, poi le altre forze che la RSI (cioè lo stato italiano legittimo) poté ancora schierare sul nostro fronte, e che nel tragico biennio 1943-45 pagarono un tributo di sangue altissimo per la difesa dell’italianità delle nostre terre.
Ricorda Giorgio Rustia:
“Nello sfascio generale, però ci furono coloro i quali non si arresero ed avendo compreso chiaramente come nella nostra regione si combattesse ormai solamente per salvare la sua appartenenza all’Italia, si arruolarono nei cinque Reggimenti della Milizia Difesa Territoriale, il 1° “Trieste”, il 2° “Istria”, il 3° “Fiume”, il 4° “Gorizia” ed il 5° “Udine”.
Furono questi gli ultimi baluardi, assieme ai bersaglieri del “Mussolini”, agli alpini del “Tagliamento”, ai marò della Decima ed ai combattenti di tutti gli altri reparti della Repubblica Sociale Italiana, che si sacrificarono nella difesa del confine orientale italiano.
Difesa che non fu fortunata perché ci furono strappate terre italiane come l’Istria, come Fiume e come Zara, ma non dobbiamo dimenticare che se oggi a Trieste, a Gorizia e nel brandello di Venezia Giulia rimasto dentro i nostri confini si parla e si vive da italiani, il merito è loro”.
Giorgio Rustia:
Atti, meriti e sacrifici dei reggimenti Milizia Difesa Territoriale al confine orientale italiano
Aviani & Aviani editore, Udine 2011
€. 16,00
Recensione di Fabio Calabrese
‒ Seguirà la seconda parte ‒