I capitoli del libro di Giorgio Rustia relativi agli eventi che vanno dalla resa senza condizioni dell’Italia l’8 settembre 1943 al 30 aprile 1945, e poi alla MATTANZA dell’occupazione slovena della Venezia Giulia a partire dal 1 maggio 1945, sono quelli che si leggono con maggiore difficoltà, non perché siano scritti male, s’intende, ma perché è impossibile leggerli senza provare un sentimento di orrore e nello stesso tempo sentirsi schiumare dalla collera non solo verso gli assassini comunisti macellai della nostra gente, ma anche verso la repubblica antifascista, erede diretta del governicchio collaborazionista creato dai traditori a Brindisi dopo essersi buttati nelle braccia del nemico, che questi crimini commessi contro la nostra gente, ha coperto e continua da settant’anni a coprire con un silenzio omertoso e complice.
Io non tenterò nemmeno di riassumere la lunga lista di episodi citati da Rustia, tuttavia si può dire che, nonostante la difficoltà sopra accennata, la lettura di questi capitoli riesce molto istruttiva, perché permette di comprendere cosa è stata realmente la guerra partigiana: una forma di lotta oltre che brutale, estremamente vigliacca, fatta di sabotaggi, agguati, pistolettate alla schiena, attentati dinamitardi, assolutamente identica a quel che noi oggi chiamiamo terrorismo, c’è poi il capitolo particolarmente odioso dei “prelevamenti”, cioè dei militari e funzionari italiani che quando si trovavano lontani dai loro reparti, in licenza o in convalescenza, venivano rapiti e poi brutalmente assassinati. Si vede bene come il feroce odio etnico nei nostri confronti si abbinasse alla doppiezza e slealtà levantine.
Le vittime dei partigiani che trovavano una morte rapida, sono state le più fortunate: questi assassini godevano nell’infliggere alle loro vittime la maggior sofferenza possibile. Un caso fra tutti, quello del sergente Abelardo Ivancich, catturato dai partigiani in un’imboscata il 26 marzo 1944, fu legato a una catasta di legna e arrostito vivo a fuoco lento.
Là dove i partigiani iugoslavi avevano acquisito un sia pure temporaneo controllo del territorio, la musica cambiava. Già nel settembre 1943, immediatamente dopo la resa del governo di Badoglio, i partigiani iugoslavi cominciano in Istria l’atroce pratica degli infoibamenti. Le foibe sono inghiottitoi naturali spesso profondi centinaia di metri, formati dal dilavamento delle acque nel suolo carsico calcareo delle nostre zone. I partigiani iugoslavi portavano gli italiani da eliminare legati in fila indiana sull’orlo di questi precipizi, poi sparavano ai primi della fila che nella loro caduta trascinavano anche gli altri; un modo PRATICO che permetteva di compiere assassinii su larga scala risparmiando pallottole. Le vittime restavano sul fondo dell’abisso ad agonizzare spesso per giorni. Già nel settembre 1943 la prima foiba fu “inaugurata” in Istria, l’abisso di Comeno.
Il 2 febbraio 1944 una colonna di autocarri con 48 militari italiani cui si erano aggregati 34 militari germanici, fu bloccata dai partigiani nei pressi di Rifembergo. Dopo cinque ore di combattimenti, i militari furono costretti alla resa a causa dell’esaurimento delle munizioni. Dopo che si furono arresi, i partigiani iugoslavi li caricarono sui loro autocarri cui diedero fuoco bruciandoli vivi. Un tragico episodio che dimostra una volta di più come nei campioni dell’antifascismo la ferocia bestiale si abbinasse alla doppiezza levantina.
In questo quadro manca ancora un tassello importante, ma la sua assenza non è colpa di Giorgio Rustia il cui compito che si è prefisso e ha svolto egregiamente in questo libro, è illuminarci sulla sorte di coloro che difesero l’italianità nelle nostre terre. Nelle grandi tragedie, e quella degli italiani del confine orientale lo è stata fuori di dubbio, perlopiù non manca una nota grottesca. In questo caso, l’elemento grottesco è stato rappresentato da un documento presentato da una commissione mista di pennivendoli sedicenti storici prima italo-iugoslava, poi italo-slovena al termine di dieci anni di “lavori” e pubblicato sul quotidiano “Il Piccolo” di Trieste in data 4 aprile 2001, e riassume, sposandole pienamente, tutte le falsità e minimizzazioni del negazionismo-giustificazionismo slavo a proposito degli eccidi commessi ai danni della nostra gente e, per chi ha redatto questo documento e soprattutto per chi lo ha sponsorizzato, dovrebbe rappresentare – orwellianamente – la verità definitiva e non più suscettibile di essere rimessa in discussione, su questo agghiacciante capitolo della nostra storia.
Ad esso, rispose un documento dell’IRCI (Istituto Regionale per la Cultura Istriana-fiumana-dalmata) di ben altra serietà, smontandolo pezzo per pezzo. Ma non è tutto perché il documento dell’IRCI ci dice anche qualcosa di più su alcuni aspetti di questa vicenda storica sulla quale è stato fatto calare un colpevole oblio.
In particolare, esso ci illumina sulla sorte toccata alle formazioni partigiane comuniste italiane che operavano nella Venezia Giulia. Quelle comandate da Ferdinando Marea e da Vincenzo Gigante furono letteralmente fatte cadere in bocca alle SS, mentre quelle agli ordini di Giovanni Zol e di Giovanni Pezza furono “liquidate” dagli stessi sloveni. Ora non è certamente il caso di impietosirsi per costoro che per ubbia ideologica operavano ai danni della propria gente ed erano obiettivamente dei traditori, tuttavia la loro vicenda ci fa comprendere un fatto fondamentale: a differenza degli “utili idioti” italiani, i comunisti iugoslavi non hanno mai perso di vista il fatto che la loro guerra era una guerra ETNICA, e nella Jugoslavia che andavano costruendo e intendevano estendere fino al Tagliamento, non ci doveva essere posto per gli italiani, comunisti o meno che fossero.
Di queste vicende che spiazzano e smentiscono tutte le menzogne della mitologia “resistenziale” ho parlato anch’io in un articolo pubblicato nel 2011 sul sito del Centro Studi La Runa, che s’intitola Squalo divora squalo. Squalo divora squalo, comunista sbrana comunista.
Riprendiamo però l’esposizione di Giorgio Rustia: la stessa doppiezza e crudeltà, lo stesso miscuglio di ferocia e vigliaccheria manifestato dalle bande slavo-comuniste durante tutta la guerra, non poteva non presentarsi uguale e ancora più subdolo all’atto della resa delle formazioni italiane.
Il 29 aprile 1945 tra Caporetto e Tolmino i partigiani slavo-comunisti ottennero la resa concordata dell’8° reggimento bersaglieri “Mussolini” in cui militavano molti triestini. Le condizioni di resa offerte erano molto favorevoli: onore delle armi, identificazione dei bersaglieri per l’arresto di eventuali criminali di guerra, rancio caldo già pronto a Caporetto, rimpatrio entro tre giorni di tutta la truppa, prigionia per accertamenti degli ufficiali e dei sottufficiali.
Non era che un miserabile inganno. Appena deposte le armi, 90 bersaglieri furono subito fucilati, una ventina furono uccisi durante il trasferimento. Il resto ebbe la sorte peggiore: fu internato nel lager di Borovnica presso Lubiana a morire di fame, di stenti di malattie, di circa 500 nostri combattenti, nessuno tornò vivo.
Il 1 maggio 1945 le truppe iugoslave calavano su Trieste e davano inizio alla mattanza, come stava avvenendo in tutta l’Istria e nelle terre italiane cadute sotto i loro artigli. Sulla città giuliana si scatenò il più atroce degli incubi: migliaia di nostri concittadini colpevoli di essere italiani, furono arrestati per essere spediti nelle foibe a subire un tremendo calvario.
La persecuzione degli italiani di Trieste seguì diverse ondate. In un primo tempo furono arrestati e inviati alle foibe tutti quanti portassero una divisa italiana: militari, poliziotti, carabinieri, e anche i partigiani non comunisti del Corpo Volontari della Libertà triestini che nell’imminenza del crollo delle forze dell’Asse erano insorti per indurre il presidio tedesco alla resa dopo un momento iniziale di apparente tolleranza. Fascisti o antifascisti non importava, era essere italiani che rappresentava una colpa imperdonabile.
Le ondate persecutorie successive furono condotte con l’inganno, con tipica doppiezza levantina: il 3 maggio fu emesso dalle autorità occupanti un bando che imponeva a chiunque detenesse armi, di consegnarle: chi si presentava ai comandi per ottemperare al bando, era subito arrestato per essere inviato alle foibe.
La terza fase scattò tra il 10 e il 15 maggio, e fu un altro inganno, un inganno verso le vittime e anche verso gli angloamericani che si erano pure loro portati nei pressi di Trieste per far credere loro che le persecuzioni fossero cessate. Gli occupanti iugoslavi fecero credere che avrebbero fornito un lasciapassare a chiunque per qualsiasi motivo volesse lasciare Trieste.
Tutti coloro che si presentarono ai valichi di Sistiana e Monfalcone con “il lasciapassare” fornito dagli iugoslavi, furono arrestati e spediti al lager di Borovnica.
La città giuliana fu ancora relativamente fortunata, perché dopo 42 giorni di occupazione iugoslava, le truppe neozelandesi entrarono a Trieste scacciandone gli assassini comunisti, mentre nel resto della Venezia Giulia, in Istria, in Dalmazia, le persecuzioni continuarono fino praticamente all’annientamento dell’etnia italiana, 350.000 persone furono costrette a fuggire abbandonando le loro case e i loro averi per non subire il martirio delle foibe, e l’Italia è da settant’anni amputata di gran parte del suo angolo di nord-est che fu redento con immensi sacrifici durante la Grande Guerra 1915-18.
DOPO IL DANNO, LA BEFFA. Gli assassini infoibatori iugoslavi agirono con la complicità di elementi locali, ed è interessante vedere come la “giustizia” “italiana”, cioè del regime collaborazionista insediato dai vincitori, trasformatosi a partire dal 2 giugno 1946 in “repubblica democratica e antifascista”, si sia comportata nei confronti di questi assassini. Negli anni ’60 fu stabilita una generale amnistia perché della tragedia della nostra gente non si dovesse più parlare, ma non è tutto, alcuni di essi come tale Gobbo Nerino fra gli infoibatori della foiba Plutone, dopo la grazia ebbero la pensione dallo stato sedicente italiano, e gli arretrati, nel caso di Gobbo la bellezza di 40 milioni di lire dell’epoca.
Io non vorrei mettere in bocca a Giorgio Rustia idee che sono mie, ma io direi che questo dimostra in maniera lampante il fatto che, nonostante il mutamento istituzionale del 2 giugno 1946, la repubblica democratica e antifascista che ci opprime da 70 anni non è altro che la prosecuzione del governicchio collaborazionista costituito dai traditori di Brindisi, ed è quindi un regime del tutto illegittimo, cosa che ancora oggi non cessa di dimostrare quotidianamente calpestando gli interessi e lo stesso futuro del popolo italiano.
In “appendice” (ma si tratta di una appendice ben corposa) al libro, si trova un elenco di quasi un centinaio di pagine fitte di nomi di caduti e dispersi della provincia di Trieste del periodo 1943-45; si tratta di un elenco che comprende soprattutto militari, e quindi ben lontano dall’essere esaustivo. Non è una lettura facile, tuttavia si tratta di una serie di storie individuali che ci danno un’idea ancor più precisa di cosa abbiano significato quegli anni terribili, una casistica che ovviamente è impossibile riassumere, tuttavia alcuni casi sono particolarmente illuminanti. Ad esempio Alberto Marega, capitano del 1° reggimento “Trieste” della Milizia Difesa Territoriale. “Prelevato” il 19 maggio 1945 dalla propria abitazione, fu sottoposto a un processo popolare da parte di un tribunale partigiano, fu ASSOLTO, quindi ucciso con un colpo di pistola alla testa e il suo corpo gettato in una foiba, il che ci fa capire quale strana idea di giustizia avessero questi partigiani comunisti.
I partigiani cercavano di colpire e di uccidere, possibilmente colpendo alla schiena da coraggiosi quali erano, chiunque portasse una divisa italiana, è quello che capitò anche a Giuseppe Galante rimasto vittima di un agguato il 20 settembre 1944, ma Giuseppe Galante non era un militare e neppure un poliziotto, ma un bigliettaio dell’azienda tranviaria.
Analoga la colpa di Romana Zampan assassinata dai partigiani comunisti il 5 gennaio 1945, rea di essere infermiera all’Ospedale Civile di Monfalcone. D’altronde, Rustia ci racconta che appena giunti a Duino i partigiani iugoslavi provvidero immediatamente a liquidare due pericolosissime agenti fasciste quali la postina e la fornaia del paese.
Fra tutti questi nomi, spicca quello di Mario Spacal, costui era un partigiano comunista sloveno appartenente alla brigata Kosovel del IX Corpus. Ferito e catturato in uno scontro a fuoco dai bersaglieri dell’8° Reggimento, fu trasportato all’Ospedale del Seminario Minore di Gorizia (questi cattivi fascisti che curavano i prigionieri feriti invece di cospargerli di benzina e dar loro fuoco come facevano invece i partigiani slavi democratici e antifascisti). Il 18 maggio 1945 i partigiani prelevavano tutti i degenti dell’ospedale e li spedivano nelle foibe, così lo Spacal fu infoibato dai suoi stessi compagni. Al che potremmo dire che almeno uno di questi assassini ha avuto esattamente quello che meritava, ma d’altro canto questa vicenda ci dà la misura di quale oculatezza e quale discernimento fossero impiegati dai boia con la stella rossa nella scelta delle loro vittime.
Le ultime pagine del libro sono letteralmente le più difficili da guardare, ci sono le foto dei cadaveri recuperati dalla foiba di Comeno e dei militari italiani e tedeschi bruciati vivi a Rifembergo, sono immagini agghiaccianti, ma bisogna guardarle se vogliamo riconoscere il vero volto della cosiddetta resistenza.
Tutto questo NON E’ una pagina di storia lontana e ormai sbiadita. Come precisa Giorgio Rustia:
“In realtà siamo solo noi italiani che non ne parliamo più e non vogliamo ricordare più. Gli sloveni, invece, non solo ricordano ciò che fa loro comodo, ma continuano anche a rivendicare quella parte di Venezia Giulia che non sono ancora riusciti a strappare all’Italia. In questo momento essi portano avanti le loro rivendicazioni in modo subdolo, riproponendo il concetto di “territorio etnico sloveno” che comprende il cosiddetto (da loro) “litorale sloveno” e costituisce ancora oggi il loro sogno imperialistico mai riposto.
Infatti il 30 giugno 2008, al termine del semestre di presidenza slovena dell’Unione Europea, il governo sloveno pubblicò un documento di sintesi dell’attività svolta a Bruxelles. Nello stesso documento di sintesi del semestre europeo, comparve una paginetta di presentazione di cosa fosse la Slovenia e delle tappe fondamentali dalla sua storia nazionale.
In detta paginetta viene affermato che alla fine della Prima Guerra Mondiale “il territorio etnicamente sloveno” venne diviso tra Austria, Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, “la gran parte del Litorale sloveno non venne affatto riunificata alla Slovenia”.
In pratica, continua la rivendicazione slovena già avanzata dal 1843 di tutte le terre a oriente del Tagliamento e possibilmente anche oltre, e avanzata non da qualche esaltato, ma dal governo sloveno! Si tratta di un fatto gravissimo a cui il sistema mediatico italiano non ha dato nessuna rilevanza, continuando la “tradizione” ormai settantennale di servilismo e di sottomissione agli interessi stranieri.
Noi tuttavia dobbiamo essere consapevoli che quei brandelli di italianità che i nostri padri sono riusciti a salvare sul confine orientale a prezzo di enormi sacrifici, non sono al sicuro neppure oggi.
Giorgio Rustia:
Atti, meriti e sacrifici dei reggimenti Milizia Difesa Territoriale al confine orientale italiano
Aviani & Aviani editore, Udine 2011
€. 16,00
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