31 Agosto 2024
Appunti di Storia

Giovanni Rossetti, un caduto della Rsi dimenticato

Pietro Cappellari

(“L’Ultima Crociata”, a. LXXIII, n. 9, Dicembre 2023)


 

I caduti della Repubblica Sociale Italiana sono decine di migliaia. Non per tutti si dispone di notizie. Anzi, molti, troppi, sono “scomparsi” anche dalla nostra memoria. Oggi, vogliamo parlare di uno di loro la cui morte, all’epoca, fece stringere i cuori di chi lo conobbe. Si tratta del Ten. Giovanni Rossetti, di soli 29 anni, deceduto a Piacenza il 30 Aprile 1950, dove era “detenuto in transito” in attesa del processo di revisione. A lui dedicò un articolo Luigi Battioni il 10 Giugno seguente sulle colonne del giornale del Movimento Sociale Italiano “Lotta Politica” (a. II, n. 23), dall’emblematico quanto accusatorio titolo: Muoiono in galera di soldati dell’Onore.

Vale la pena riportare per intero il pezzo, per perpetuare la memoria di questo combattente “scomparso”:

In calce a tutte le lettere che Giovanni Rossetti dal carcere c’era scritto a caratteri nervosi l’urlo della sua fede e del suo coraggio, il grido che la galera non spegneva e non ha potuto spegnere: ‘Viva l’Italia’. Forse il grido dei suoi soldati caduti su tutti i fronti durante cinque anni di combattutissima guerra, forse era la voce del suo più grande affetto. Con questo grido disperato egli è caduto in galera; non al fronte, non in combattimento, è caduto su un letto d’ospedale in detenzione, dopo cinque anni dalla fine della guerra, dopo 10 anni di speranze, di attese, di timori, di dolori e di rancori, dopo 29 anni di una vita silenziosa affidata al dovere, dedicata alla Patria, votata al sacrificio.

È morto sapendo di morire, fra dolori atroci, l’ultima Domenica di Aprile [1950], in un pomeriggio assolato, nell’ultimo minuto della sua vita terrena, ha voluto baciare il tricolore ed ha urlato, nell’estremo rantolo, a noi tutti, perché lo raccogliessimo e lo tenessimo vivo, il suo «Viva l’Italia». Così è morto il Tenente Giovanni Rossetti e di lui oggi non ci rimangono che alcune fotografie, le lettere inviateci dal carcere ed il ricordo e l’esempio e il disperato amore.

Scriveva: ‘Il morale è sempre altissimo e mai come ora siamo convinti che il sacrificio non fu vano. C’è una canzone che da sola ci esprime quanto nel cuore di alberga: «Galera che ci die’ la canaglia, galera sei la nostra medaglia». Quante volte viaggiando con la mente a ritroso sui binari di questa tradotta che chiamiamo vita, non ho rivissuto minuto per minuto tutti quegli episodi lieti o tristi che sono ora il fardello e la fronte alla quale attingere per tirare avanti? Non sto qui a dirti quel che si prova poiché non riuscirei, ma puoi immaginare quante amarezze e quanta nostalgia, di tutti e di tutto, salgono continuamente dall’animo esacerbato. Dicono che tutto passa e si scorda, ma sono balle perché tutto si imprime nel cuore e solo la morte potrà farmi dimenticare gioie e sventure’.

Il 10 Maggio [1950] si sarebbe dovuto celebrare a Bologna il processo di revisione. Rossetti era pervaso da un’ansia quasi ‘sportiva’ per l’incontro coi suoi giudici ed era certo di uscire.

‘Attendo di andare a Bologna per il terzo atto di questa commedia e spero colà di calare finalmente il sipario su questa breve ma già tanto odiata esperienza carceraria’. E più oltre: ‘La libertà di agire, di fare, di andare mi pare un sogno più bello quanto ora mi pare impossibile realizzarlo. Grande consolazione poi ci dà il vederci qui circondati da tanti eroici patriotti che poco diedero e tanto si presero [i partigiani, nda]’.

Finalmente il 17 Aprile [1950] fu tradotto verso Bologna. Aveva aspettato da mesi, da un anno e otto mesi esattamente dal giorno che una volgare spia lo aveva denunciato. Quel giorno era partito contento salutando con un nodo alla gola i camerati che lasciava. Partì su uno di quei treni ansimanti che i soldati avevano un tempo chiamato ‘gamba di legno’. Tutto il giorno ammanettato, vigilato, senza poter fare un movimento su quel trabiccolo.

Ricominciò a dolorare. Le sofferenze fisiche si risvegliarono sempre più acute. Mangiava quando glielo davano e succedeva raramente, una volta al giorno quando era fortunato. Il fisico non resistette.

Chiese visita e non l’ottenne perché i Dottori non hanno tempo da perdere con i ‘lavativi’. Giunse dopo alcuni giorni febbricitante ad Alessandria, chiamò il medico. Questi lo visitò rapidamente e gli fece praticare otto serviziali. Lo fecero ripartire e come Dio volle dopo 9 giorni di viaggio la sera del 25 Aprile [1950] giunse a Piacenza.

Di li fece altre richieste, inutili, di essere sottoposto a visita medica. Era in preda alla febbre, si rotolava dal dolore ma nessuno venne. La mattina dopo, per un caso, gli portarono il Dottore. Era l’iniziativa di un altro detenuto politico [di Parma, Alide Minardi], un ragazzo, che vistolo in quelle condizioni aveva, a pagamento, ottenuto il permesso di chiamare un medico esterno. La visita fu breve, il male presto localizzato, la diagnosi terribile: peritonite.

Fu trasportato d’urgenza allo ospedale, con tutta l’urgenza che si può avere in un carcere e finalmente lo raccolse il lettuccio d’ospedale. Ma era troppo tardi. L’attesa durò tre giorni circa, 10 ore di via in un lettuccio di tormenti.

Volle solo la bandiera sul suo letto al momento del trapasso, un tricolore da stringere sul petto e che soffocasse nel suo morbido tessuto gli spasmi.

Poi fu un istante di quiete, il dolore sempre attenuavasi e disse il suo estremo «Viva l’Italia».

Così morì Giovanni Rossetti, Ufficiale combattente, Volontario di Guerra.

Aveva 29 anni quando è morto l’altro giorno, il 30 Aprile [1950], un giorno di festa come tanti altri, cinque anni esatti dalla fine della guerra. Forse egli avrebbe preferito morire allora, nel 1945, come e con tanti altri suoi soldati, forse ancora prima, al fronte, contro un nemico leale contro cui poteva anche morire. Ma Giovanni Rossetti è morto in carcere come un assassino della peggiore specie ed è morto silenziosamente, senza che nessuno se ne accorgesse che un Ufficiale di ventinove anni, dopo cinque anni dalla fine della guerra era morto in galera”.

Era il 1950 ed ancora cadevano i combattenti della RSI: assassinati dai comunisti, abbandonati in carcere… e, con loro, colpite anche le famiglie, epurate da quella “società civile” che tentava di rifarsi una verginità sfogando la sua immoralità ed ipocrisia contro chi non poteva più difendersi. Non ricordiamo eventi del genere durante i venti anni del “famigerato” Regime. Dovette “tornare la libertà” perché la storia d’Italia si arricchisse di queste “edificanti” cronache.

Del ventinovenne Giovanni Rossetti fino ad oggi sapevamo poco, se non la sua eroica, tragica e romantica morte sul letto dell’ospedale di Piacenza quel triste 30 Aprile 1950, davanti agli occhi sconcertati della mamma Eugenia. Uno degli ultimi caduti della Repubblica Sociale Italiana.

Nato a S. Lazzaro Parmense il 12 Settembre 1921, residente a Montechiarugolo (Parma), studente del 3° anno di Veterinaria nell’Università di Parma. Inviato in “territorio dichiarato in stato di guerra” il 4 Marzo 1941 con il 3° Reggimento Artiglieria d.f. “Pistoia”, nel Settembre seguente veniva trasferito presso il Corso Allievi Ufficiali di Lucca. Fu nominato Sottotenente il 15 Maggio 1942 nel 30° Rgt. Artiglieria d.f. di Brescia e, nel Giugno, trasferito al Deposito del 19° Rgt. “Cavalleggeri Guide” di Parma. Nel Novembre 1942, rientrava nel 30° Rgt. Art. D.F., reparto nel quale concludeva il suo servizio di prima nomina e veniva congedato il 26 Maggio 1943.

All’indomani dell’8 Settembre 1943 era stato tra i primi a ribellarsi alla resa incondizionata e al conseguente passaggio al nemico, partecipando attivamente alla costituzione del Gruppo Universitario Fascista Repubblicano di Parma (cfr. F. Morini, Parma nella Repubblica Sociale, La Sfinge, Parma 1989). Volontario nella ricostituita Milizia (80a Legione CC.NN. “Alessandro Farnese” di Parma), nell’Aprile 1944 fu intruppato nel III Battaglione “Cacciatori degli Appennini” (non meglio specificato) e, il mese successivo, presso la Compagnia della Morte di Parma (Compagnia di Sicurezza – Sicherheit Kompanie).

Fu condannato a 30 anni dalla Corte di Assise di Parma nel 1946, con imputazioni incredibili, fantasiose, sconcertanti, elaborate appositamente dalle Sezioni del PCI ed avallate dalle CAS. Arrestato a Roma il 26 Agosto del 1948 dopo una spiata, fu ristretto dapprima nel carcere di Regina Coeli a Roma (con i delinquenti comuni e non con i politici!) e, poi, in quello di Fossano (Cuneo).

Si era presentato ai poliziotti con un sorriso ed un saluto romano certo di potercela fare e di poter ristabilire la verità nel minor tempo possibile. […] Seppe che era stato denunciato ed a denunciarlo era stato un partigiano, un partigiano amico – se le due parole possono andare insieme – che lui aveva aiutato in passato e messo a posto durante la latitanza. Lo aveva denunciato per pura cattiveria il giorno che la Giustizia lo aveva afferrato per certe pendenze personali, ed egli, il partigiano ancora livido di odio, di rancore, di rabbia impotente, l’aveva denunciato secondo la tecnica abominevole delle spie inveterate […]. Gli permisero di chiamare i familiari e prima di morire [Rossetti] volle baciare il tricolore. Glielo portarono. Lo salutò romanamente prima di baciarlo e stringerlo fra le mani e fu l’ultimo saluto della sua vita quello e l’ultimo bacio […]. Era giovane, forte e generoso. A Parma i giornali non hanno voluto accettare nemmeno gli annunci funebri perché era il Tenente Giovanni Rossetti condannato a trent’anni per aver difeso l’Italia”. (cfr. L. Battioni, Come si muore nelle galere democratiche, “Asso di Bastoni”, 21 Maggio 1950).

Rossetti, come abbiamo visto, attendeva il processo di revisione sicuro di poter finalmente stroncare ogni accusa contro il suo operato durante la RSI.

La famigerata Corte d’Assise Straordinaria di Parma, il 5 Febbraio 1947, infatti, lo aveva accusato – tra l’altro – di aver partecipato attivamente ai rastrellamenti di Langhirano, Corniglio e Salsomaggiore (Parma), e alla rappresaglia germanica di Calerno di Sant’Ilario d’Enza (Reggio Emilia) del 14 Febbraio 1945, condannandolo a trent’anni di reclusione, avallando – come consuetudine – tutte le false testimonianze contro l’Ufficiale della GNR elaborate ad arte nelle Sezioni del PCI: “Tutto il processo si è svolto fra i clamori e le proteste irresponsabili di un pubblico che tumultuava e che, per conseguenza, non ha consentito al difensore, nominato dalla legge, di compiere tutto il suo dovere”. A ciò si aggiunga la mancata audizione dei testi a difesa, che – guarda caso – erano gli unici testimoni reali, in quanto i soli presenti fisicamente ai fatti contestati, mentre quelli dell’accusa, guarda caso, riportavano solo il “sentito dire” e “voci popolari” (cfr. Avv. Fernando Vietta, Memoria difensiva di Rossetti Giovanni, Parma, 14 Marzo 1947). Vere e proprie leggende incriminatorie che si diffusero nel primissimo dopoguerra ovunque e che, nel nostro caso, fecero di Giovanni addirittura… il “boia di Monticelli”!

Rossetti, ritenendosi innocente e sapendo che la sentenza era stata viziata dall’odio militante antifascista, si diede latitante, sperando in un cambio di “clima” che avrebbe permesso una più oggettiva indagine e, soprattutto, la possibilità di difendersi.

Arrestato, come abbiamo detto, il 26 Agosto 1948, iniziò il suo calvario giudiziario.

Il 25 Ottobre 1948, la Cassazione annullò la partigiana sentenza della CAS di Parma e rinviò il processo all’attenzione della Corte d’Assise di Firenze per un più sereno giudizio. Questa, l’11 Marzo 1949, escluse la partecipazione del Rossetti alla rappresaglia di Calerno, ma lo condannò a vent’anni per responsabilità diretta nell’uccisione del partigiano Gino Zaccarini.

In realtà, il Commissario politico del Distaccamento “Cosacco” Gino Zaccarini – insieme al fratello Marcello – era stato ucciso in combattimento dai Germanici, durante uno scontro avvenuto ad Olive di Langhirano (Parma) il 25 Agosto 1944, al quale non aveva partecipato la Compagnia comandata dal Ten. Rossetti. Uno scontro, poi passato alla storia con il pomposo nome di “Battaglia di Langhirano” – affibbiatogli evidentemente da coloro che mai avevano visto una battaglia –, durante il quale una formazione ribelle aveva attaccato un reparto germanico, venendo prontamente respinta e subendo gravissime perdite (cinque caduti in totale), tra cui lo stesso Comandante!

Il 16 Novembre 1949, quindi, la Corte Suprema di Cassazione annullava anche questa sentenza, evidenziando come il testimone dell’accusa, nelle sue vanterie, non era assolutamente credibile ed oltre a non essere stato presente al crimine, era smentito dai fatti documentati: si pensi che aveva accusato il Rossetti di aver fatto fracassare il cranio di Gino Zaccarini solo perché questi aveva espresso il desiderio di abbracciare il corpo del fratello Marcello già deceduto!

Storie raccapriccianti da copione, che pilotarono centinaia di sentenze contro gli esponenti della RSI in quei mesi.

Anche questa falsa testimonianza, che era stata data per buona fin dal Febbraio 1947, cadde davanti alla realtà dei fatti.

Ciò non deve stupire: le sentenze delle famigerate Corti d’Assise Straordinaria si basavano su accuse false, tendenziose, verosimili, elaborate per puro spirito di vendetta e odio politico nelle Sezioni del PCI. Testimonianze poi smentite dalla realtà dei fatti nei giudizi successivi, ma che ancor oggi fanno storia e le ritroviamo nelle narrazioni politicizzate negli immancabili anniversari delle stragi, sui giornali e, ovviamente, sui libri che ci descrivono – con la volontà di rinverdire il “nostro antifascismo” e giustificarne i delitti – cosa avvenne durante la Repubblica Sociale Italiana.

Testimoni d’accusa che, una volta smascherati, nonostante le richieste della Difesa, si resero irreperibili per non rispondere dei reati commessi nelle loro deposizioni!

La Corte Suprema, quindi, rinviava il giudizio di merito alla Corte d’Assise di Bologna. Giudizio che, per sopraggiunta morte dell’accusato, non poté mai essere formulato perché Rossetti morì prima dell’udienza fissata per il 10 Maggio 1950.

Il Ten. Giovanni Rossetti è scomparso poi dalla memoria collettiva. Tuttavia, le nostre ricerche hanno permesso non solo di recuperare la sua storia ma, il 21 Luglio 2022, anche di individuare con precisione la sua tomba, nel cimitero di Marore a Parma (Settore GC, Galleria Centrale, Blocco QA41, Quadro Avelli – 41, Posto 11, fila 3; cfr. Giovanni Rossetti Presente!, “L’Ultima Crociata”, a. LXXII, n. 7, Novembre 2022). Questo sacro luogo possa essere, per tutti noi, un fascio di luce perenne nelle tenebre del presente.

 

Pietro Cappellari

(“L’Ultima Crociata”, a. LXXIII, n. 9, Dicembre 2023)

 

 

Si ringrazia per la preziosa collaborazione il Gruppo di Ricerca “L’Altra Verità”, Dario Castagnoli della Fondazione della RSI – Istituto Storico e il Circolo Culturale “Corridoni” di Parma

 

Giovanni Rossetti

1 Comment

  • Nebel 31 Agosto 2024

    Italiani proprio brava gente, sì sì.

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