Roma giugno ’44.
Ai Comuni, masticando amaro l’eterno sigaro, Winston Churchill, il fautore primo dell’operazione Shingle, ebbe a dire ‘io avevo sperato di lanciare sulla spiaggia un gatto selvatico, mentre invece ci troviamo sulla riva con una balena arenata’. E’ la notte del 22 gennaio 1944, gli Alleati sbarcano sul litorale laziale, ad Anzio, con il progetto di aggirare il fronte aspro di Cassino, ove i tedeschi resistono tenacemente e fra le rovine dell’Abbazia, e giungere a Roma. Per stessa ammissione del Comando germanico, nella zona, scarse le forze e disperse sul territorio. Furono le incertezze del generale USA John P. Lucas (destituito un mese dopo lo sbarco), comandante delle operazioni, a consentire al Maresciallo Albert Kesselring di raccogliere truppe e arginare l’avanzata nemica. Per oltre quattro mesi. E chi s’era illuso di vedere Roma ‘liberata’ rimase deluso e, forse, anche per questo maturò l’eccidio di via Rasella e la rappresaglia alle Fosse Ardeatine. La mano assassina del partigiano, vile e spietata e la mano assassina delle SS, stupida e feroce…
(Quante volte, con garbo e discrezione, sono tornato su quella tragica vicenda con il capitano Erich Priebke, recluso in un appartamentino, zona Aurelia, dalle autorità italiane. Sereno e fermo contro l’iniquo ricatto di una ‘giustizia’ serva e servile. Soldato nei modi e nell’animo. Testimonianza. E mi viene a mente quanto ebbe a scrivere il filosofo Martin Heidegger ad un ufficiale francese di origine polacca che, nell’inverno del 1946, lo andava a trovare nella modesta abitazione della Selva Nera, isolato e privato della sua biblioteca. Con inchiostro verde su un foglietto ‘Sag, was sollen wir denn tun? Das lassen’ – Dì, cosa dunque dobbiamo fare? Abbandonarci. Gli riferisco l’aneddoto. Priebke scuote la testa ed io con lui. Poi gli ricordo, un po’ saccente e da modesto professore, come quel ‘lassen’ richiami il prendere le distanze di Friedrich Nietzsche).
Roma s’è fatta muta. Strade e piazze deserte, saracinesche portoni finestre serrati. Come un solo enorme orecchio un unico cuore trepidante mille e mille ascoltano il rombo che viene approssimandosi dal litorale laziale dalla via Casilina. Sono bocche da fuoco mille e mille cannoni alleati mentre soldati e mezzi corazzati sono ormai alle porte della città. Di notte il cielo è rosso, attraversato da bagliori lampi squarci. La festa si annuncia prossima. Simili a fuochi d’artificio più che strumenti di morte.
Non più il passo cadenzato e ferrigno del soldato tedesco sul selciato il coprifuoco la tessera annonaria l’odioso mercato nero. Il colpo alla nuca nella cava di tufo a reazione della vigliacca strage partigiana. Soprattutto la fine di un incubo, la fine della guerra. Uomini e donne si riverseranno per le vie del centro, al Colosseo, in piazza Venezia, lungo i Fori imperiali. Lesti a sbracciarsi sorrisi grida abbracci fiori. Per un pacchetto di sigarette una tavoletta di cioccolata. Tanto simili al giardino zoologico quando si gettano le noccioline alle bertucce. Solo che, questa volta, i ruoli si sono invertiti. E magari, come racconta Curzio Malaparte ne La pelle, in questa narrazione cruda e sanguigna, qualcuno finisce sotto i cingoli e si trasforma in orrida bandiera di carne. La bandiera dei vinti, della vergogna. Una bandiera, grigia e sporca, che dall’8 di settembre del ’43 non è stata mai più ammainata.
(Non so se abbia ragione il prof. Renzo De Felice nel ritenere che la maggioranza degli italiani, quella da lui definita ‘zona grigia’, non si schierò per gli uni o per gli altri – consapevoli fedeli a un ideale pronti a difenderlo –, solo desiderosa che la tempesta passasse senza ulteriori disastri. L’odio verso il tedesco e quegli irriducibili in camicia nera fu dettato dalla loro ostinazione a non cedere a gettare le armi a riattraversare le Alpi. A prolungare i bombardamenti la paura la fame gli ammazzamenti per strada gli impiccati ai lampioni. Termini quali ‘Per l’Onore d’Italia!’ valgono per una élite, per una minoranza di ‘combattenti e credenti’, troppo fragili di fronte alle assicurazioni del paese di Bengodi a stelle e strisce in arrivo, inossidabile ormai vincitore… Fu così da sempre in questo paese ‘bello e inutile’ , fin da quando ‘Francia e Spagna purchè se magna’. Guicciardini contro Macchiavelli, appunto. A salvarlo dal degrado civile e morale c’è, però, anche un’altra Italia…).
Fine maggio primi giorni di giugno del ’44. I paracadutisti della Folgore si sacrificano in estremi combattimenti. A dimostrazione ideale e con il proprio sangue che Roma non s’arrende inerme e vile. A Castel di Decima cade il maggiore Mario Rizzatti, con mitra e bombe a mano, contro uno Sherman. Con lui viene falciato il suo portaordini, Massimo Rava, diciassette anni, che l’ha voluto seguire nonostante l’invito a restare al riparo. Mario Rizzatti, un irredento che nella Grande Guerra aveva disertato dall’esercito austriaco per combattere nelle file italiane. A cinquant’anni arruolato nei paracadutisti. Morirono con medesimo coraggio veterani e giovanissimi (fra cui l’allievo parà, anch’egli diciassettenne, Ferdinando Camuncoli, medaglia d’oro). Così i resti del btg. Barbarigo-XMAS, che si erano dissanguati, fra i primi tornati a combattere, nell’Agro Pontino. Mille e cento uomini al comando del capitano di corvetta Umberto Bardelli, assassinato a tradimento e oltraggiato il corpo in Piemonte da banda partigiana. Lungo il Canale Mussolini, in buche di fango, contro i rangers e la potenza di fuoco degli anglo-americani. Fra costoro il giovane ufficiale Alessandro Tognoloni, poi divenuto architetto e ideatore del Campo della Memoria (di cui mi onoro avere avuto amicizia e stima). Nei pressi di Cisterna s’immolò con il suo plotone per ritardare l’avanzata del nemico. Dato per morto, fu ritrovato dopo quarantotto ore e curato con la penicillina riuscì a salvarsi. Soldati appunto di quell’altra Italia. Lungo la via Cassia, al Nord, fieri e disperati. Anime ardenti cuori generosi, un solo amore la Patria, dimenticati, va da sè, da questo paese di guitti e saltimbanchi. Anche io, in quei giorni (gli alleati entreranno nella Capitale, tronfi e vanesi, il 4), ho la mia piccola storia. Prime ore del mattino, del 2 giugno. Una sottile fila di soldati tedeschi scivola lungo i muri di via dell’Olmata, i fucili puntati verso i tetti, nel timore di agguato partigiano (inesistente. I topi usciranno dalle fogne a giochi fatti). Nella piazza antistante la basilica di S. Maria Maggiore li attendono, motore acceso, due camion della Wehrmacht.
L’ultimo della fila appoggia il fucile contro il muro e, lesto, si ripara nell’androne della clinica di S. Elisabetta, retta da suore d’origine tedesche e polacche. Per lui la guerra è finita.
Così descriveva la scena mio padre, da dietro le persiane chiuse, mentre mia madre spingeva e urlava nel partorirmi. Qualcuno (nella inossidabile modestia non mi citerò) era destinato a raccogliere quel fucile e continuare la lotta per l’Europa e per il Fascismo… Chissà se meritevole.
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