Pochi “eroi della storia”, personaggi di prim’ordine, possono vantare a distanza di oltre un millennio, una censura come quella che ha colpito l’imperatore Giuliano. Censura che non si limita solo a tacere le gesta compiute, quanto piuttosto a traviarle, denigrarle o, per meglio dire, dato il contesto, a demonizzarle. Non è un caso se l’uomo mediamente colto e con buone reminiscenze di studi storici, non pensi a Giuliano come l’imperatore dei Romani, ma come l’Apostata, un semplice impostore che ha tentato, anacronisticamente, violenza all’inarrestabile avanzata della “religione buona”; e non è nemmeno un caso se, ancora oggi, si confondono i suoi Editti di Tolleranza con editti meramente persecutori.
Riteniamo, dunque, meritoria la pubblicazione da parte della OAKS editrice del volume di Jacques Benoist-Méchin, L’imperatore Giuliano (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 383, euro 24,00), edito in Francia nel 1977 e pubblicato per la prima volta in Italia nel 1979. Il libro è arricchito dalla prefazione di Giovanni Sessa. Attraverso un’attenta ricostruzione delle fonti,
Il futuro imperatore è cosciente del fatto che, prima di rivolgersi al mondo come legislatore, occorra, innanzitutto, ordinare se stessi, sintonizzare il proprio essere uomo con l’ordine cosmico. Dentro se stessi, come nella migliore tradizione dionisiaca, è possibile ritrovare il mondo, dentro di sé è possibile incontrare il divino, poiché «la presenza dello spirito divino nell’uomo dipende soprattutto dalle disposizioni che l’uomo dimostra ad accoglierla». Benoist-Mechin ci descrive accuratamente il dialogo che Giuliano intavolò con stesso. Non si tratta, si badi bene, di un mero ripiegamento soggettivistico ma di un’ascesi (nel senso etimologico di esercizio), mirata a conoscere il dio che gli abitava il cuore. L’imperatore non si stancò mai di indagare i confini della propria anima, e il percorso ascetico non si interruppe nemmeno negli anni in cui le battaglie e gli affari di Stato avrebbero potuto distoglierlo da tale compito. Giuliano era convinto, infatti, che solo dal dio avrebbe potuto trarre quelle risposte, quegli insegnamenti e direzioni che avrebbero poi, guidato l’impero. La figura di Giuliano non è dissimile per certi aspetti da quella di un Marco Aurelio: all’esercizio delle armi affiancava notti insonni impiegate a redigere testi e pensieri, non conoscendo la stanchezza tipica della maggior parte degli uomini. Profondamente diversi, invece, sono gli anni in cui i due sono stati chiamati ad operare. Il nostro vive un mondo in piena decadenza con città sempre più vuote, commerci pericolosi su strade abbandonate a se stesse e continue incursioni barbariche che minacciavano l’esistenza dell’impero. Giuliano era cosciente delle criticità materiali cui bisognava porre rimedio e Benoist-Méchin ci descrive accuratamente le sue riforme fiscali, le azioni intraprese per ripopolare le città, quelle per dare nuovi impulsi ai commerci, nonché le azioni adottate per migliorare le comunicazioni attraverso reti stradali e servizi postali più efficienti.
Eppure le preoccupazioni maggiori e più impellenti dell’Augusto riguardavano un altro ambito: il venir meno dell’idea fondante dell’Impero stesso. Questo era ridotto ad un apparato burocratico privo di linfa vitale, così come gli uomini che ricoprivano le posizioni di comando. Il suo cuore pulsante era affaticato e Giuliano non se ne capacitava, così come non si capacitava del fatto che gli uomini non erano più in grado di entusiasmarsi, di «cogliere la presenza di un dio» in loro stessi, nonostante la chiarità solare continuasse ad illuminare tutte le terre e tutte le genti.
Gli uomini avevano smarrito se stessi e con se stessi gli dei che li abitavano.
Il futuro imperatore coglieva ovunque sofferenza e miseria e il suo istinto politico lo caricava di una enorme responsabilità: quella di dover ricondurre gli uomini alla luce del sole, oltre la tenebra di quella caverna, abitata una volta dagli schiavi incatenati di platonica memoria, ora dai cristiani delle catacombe. Giuliano è turbato, vive la tensione propria di colui che è chiamato a sostenere un grande compito e che sa di dover lavorare prima su stesso. Benoist-Mechin è abile nel descrivere quest’ansia di ricerca e tutti i legami che Giuliano riesce ad intrattenere con le grandi figure dell’ellenismo, quali Massimo d’Efeso, Prisco, Oribasio. Queste saranno un valido aiuto per la sua ricerca, così come lo saranno le letture, spesso segrete, dei poemi omerici, e delle opere platoniche e neoplatoniche.
La conoscenza fin dall’inizio non sarà mai concepita come fine a se stessa, semplice forma di erudizione; bensì sapienza, tensione che lega gli uomini agli dei, che permette all’uomo di riconoscere se stesso nelle molteplicità cosmiche rappresentate dalla religione politeista. Non a caso gli interessi principali di Giuliano si sposeranno con la filosofia neoplatonica che più delle altre, rappresenterà l’Uno come un braciere inestinguibile e le anime degli uomini come scintille che, attraverso una ri-salita, torneranno all’origine. Concetti che i più non avrebbero potuto comprendere senza una rilettura antropomorfizzata operata da altri esponenti del neoplatonismo quali Porfirio e Giamblico.
Benoist-Méchin è abile nel ricostruire queste vicissitudini come, anche, la tensione che abitava nel cuore del futuro Augusto: dedicarsi all’esistenza dotta e intellettuale, libera dagli impegni politici, oppure prendere in mano le redini del mondo, con tutte le responsabilità del caso. Giuliano con spirito propriamente greco non si abbandonerà alle vette della sapienza astratta, ma si farà latore di un sapere a beneficio degli uomini: trovò la Via, una via che è gnosi pratica, un agire politico che prevede la realizzazione del dio che ci abita, attraverso il sacrificio di ciò che, invece, è solamente umano. Giuliano, non ricercò mai la gloria personale e gli agi intellettuali, ma visse con spirito di profondo sacrificio il suo Imperium, fino all’ultimo respiro. Il suo tentativo non era solo quello di restituire lo splendore vissuto sotto gli Antonini, bensì quello di «portarlo a un grado tale da uguagliare l’immagine platonica dello Stato». L’Augusto si fece interprete di quella Tradizione che viveva in lui e che, innanzitutto, richiedeva di essere messa in atto per informare il tempo storico. La sapienza raggiunta non è conoscenza enciclopedica ma è ciò che educa e, religiosamente, converte il nostro più profondo essere, ci in-forma e ci forma per dare ordine al caos. Giuliano non poteva esimersi da questo sforzo e l’impero tornò a vivere seppur per soli venti mesi, prima del definitivo sgretolamento che avverrà in meno di un secolo.
Proprio sulla fine dell’Augusto e sulla direzione che intraprenderà il corso dell’impero ci preme sottolineare la diversa lettura che Giovanni Sessa fornisce introducendo e impreziosendo il volume. Mentre Benoist-Méchin interpreta la fine di Giuliano come un evento necessario per l’evoluzione di una storia che si allontana dall’antico ed esige le sue vittime, Sessa si richiama al concetto filosofico dell’origine come principio, che può informare di sé il tempo in ogni momento e non si deve interpretare come un semplice passato anacronistico. La tensione all’origine che pochi uomini sono in grado di percepire e, ancor meno, di mettere in atto è quella tensione al divino che eleva e trasforma e che può illuminare il mondo anche nei suoi momenti più bui. Siamo fermamente convinti che, oggi più che mai, la biografia di Giuliano, possa essere sprone ed esempio per tutti quelli che non riescono più ad intravedere bagliori all’orizzonte, affinché possano ritrovare contezza di un’origine sempre possibile che illumini la Via.
Giacomo Rossi
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