8 Ottobre 2024
Appunti di Storia Arte

Giulio Aristide Sartorio – Emanuele Casalena

Premessa

Il prossimo 4 novembre cadranno i cento anni dalla Vittoria nella Prima Guerra Mondiale come dettava il bollettino firmato dal Gen. Armando Diaz, il cui inizio, noi vecchi da bambini mandavamo con orgoglio a memoria: La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta.” La lunga marcia del Risorgimento, era terminata o quasi, l’idea folle di padre Dante d’una Patria unita s’era avverata con l’arma dei poveri, il sangue. L’aula a emiciclo di Montecitorio, un capolavoro Liberty di Ernesto Basile, a fine conflitto ospitò finalmente, sotto lo splendido velario, l’allegoria delle virtù del nostro popolo gettate in campo per costruire quel sogno a partire dai Comuni fino al glorioso Risorgimento (almeno così lo aggettivavano le nostre maestre). L’autore di quek nastro, simile alle Panatenee che cingevano il Partenone, era un romano Giulio Aristide Sartorio, tanto innalzato sugli altari in vita quanto obliato dalla crisi di virtù della Repubblica. Non entreremo nell’agone italico dell’opinionismo chirurgico, zeppo di se, ma, forse coi quali separare l’opera dall’autore, ancor più per spiluccare la margherita recitando: questo sì, questo no, secondo i prerequisiti della botteguccia politica, cercheremo solo di schizzarne un profilo a balzi data la vastità dei suoi interessi in ogni campo dell’arte.

“Una vita inimitabile” quella di G. A. Sartorio, artista “unico e grande per l’eccesso di lavoro, per passione di bellezza, per impazienza di creazione”, “un cantore della pittura italiana” come lo ritraeva Gabriele D’Annunzio. From Rome to Rome le pietre miliari di partenza e arrivo, nato da Raffaele ed Angiola Poletti l’11 febbraio 1860 in una città abbracciata forte, forte da Papa Mastai Ferretti (Pio IX), capitale del cattolicesimo ma anche dell’ultima regione pontificia, il Lazio. In pentola bolliva la “questione romana”, saltate Marche e Umbria, i rossi garibaldini eran già pronti, giovani e forti a spappolare il Regno dei Borboni di lì a maggio, in mille da Quarto.

Lo Stato pontificio si chiudeva a riccio, dopo la sanguigna Repubblica Romana del ’49 ancora si leccava le ferite imponendo la restaurazione, compresa la pena capitale, in una città soffocata nei fermenti patriottici, con un popolino di proletari, sottoproletari, senza industrie, piena di tonache e noblesse arroccata nei palazzi. Il 60% dei circa 200.000 abitanti (la metà di Napoli) viveva a scapito di qualcuno, resistevano le poche imprese artigianali legate alle commesse vaticane e all’aristocrazia, i maschietti erano in netta maggioranza sulle donne per la vocazione pretina dell’Urbe, assai fiorente invero l’esercizio della più antica professione del mondo.

In questa città di glorie passate sepolte dall’odore mesto degli incensi, l’arte di Sartorio fu ebrezza tragica della bellezza nella volontà di cucire la vita addosso ai suoi soggetti, narrare il mito con raffinata eleganza come Apollodoro di Damasco sulla colonna traiana. Ma l’atto rompe l’atarassia di spirito e forma, infrange il canone, stravolge le auree proporzioni sciogliendo l’armonia nell’immanenza del tempo, il gesto è vita e morte, fu questa la lezione alessandrina, il pathos dell’Ara di Pergamo. Le Baccanti fecero a pezzi l’Orfeo apostata di Dioniso, l’ebrezza non ammette la bellezza apollinea, la danza etilica è fuoco dell’Eros, Menade danzante, non certo la castità degli Esseni, Apollo e Bacco convivono solo nella tragedia. Diciamo questo a ragione del giudizio a comparti sull’opera di Sartorio passato dal neoclassicismo di famiglia, al fortunismo poi al realismo dei naturalisti, fotogrammi di pietas per gli ultimi in lotta per un mestolo da mescere al desco affollato, e ancora all’estetismo anglosassone filtrato da D’Annunzio, al simbolismo Liberty, nella continua ricerca di sintesi tra Logos e Pathos, appunto la tragedia attica di Nietzsche.

Figlio d’arte e dell’arte, il papà Raffaele era pittore/scultore valente senza aver “sfondato”, nonno Girolamo operava nel solco del neoclassicismo con un buon mercato, lui fin da bambino respirò i colori, le polveri di marmo della statuaria cimiteriale, l’odore della creta, mostrando qualità eccelse nel disegno tali da renderlo un enfant prodige. La radice del tratto eseguito a regola d’arte resterà una cifra inconfondibile del suo stile, forse anche il suo limite per eccesso di virtuosismo estetico.

L’abilità lo invogliò a creare quadri ispirati al fasto del ‘700 seguendo il solco modaiolo dello stile spagnolesco di Mariano Fortuny (1871-19499), bella gente in abiti sfarzosi e parrucche, pareva di sentire il profumo del secolo d’oro. Dipingeva spesso per conto terzi, erano altri a firmare i suoi lavori, quelle operette di gusto particolare: barocchismo neoclassico, un assurdo, incontravano gran favore nel mercato, quello zucchero filato e moine andava a ruba tanto da permettergli il balzo, aprirsi uno studio a soli diciannove anni in via Borgognona.

Collabora, con illustrazioni, alla rivista Cronaca Bizantina, un trampolino per conoscere e legarsi in amicizia con due suoi mentori G. D’Annunzio (a cui illustrerà il romanzo Isotta Guttadaurio) e F. Paolo Michetti, pittore naturalista, cui deve il suo “provarsi” sul genere del paesaggio,  affascinato da un caposcuola napoletano come Domenico Morelli; sposa il verismo, i dannati della terra, come testimonia Malaria opera presentata con successo all’Esposizione di Belle Arti di Roma del 1882

 

Giulio Aristide Sartorio, Malaria

Vola Sartorio tra stili e tecniche diverse (scultura compresa), non solo pittura d’atelier ma anche incisioni, illustrazioni,  decorazione di villini, una febbre artistica a tutto campo per guarire la neo Italia dal regionalismo provinciale generando uno stile nazionale. Importanti per la sua liberazione dalle “massonerie dell’arte” i grandi fregi eseguiti per le Biennali veneziane del 1905 e 1907, intercalate dal Fregio del Lazio per l’Expo internazionale milanese del 1906 quella famosa del Sempione.

Il saltoo era stato costruito allenandosi fuori dei confini patri, nella valigia riportava il capitale dell’arte europea dell’Ottocento, conosciuta nei suoi viaggi, alla febbrile ricerca di nuovi lieviti per il pane azzimo dell’Italietta unificata, una provincialotta senza bussola.

Sorseggiò così il mosto vecchio e nuovo dello champagne francese, dal neoclassicismo al simbolismo con un occhio attento al naturalismo, nel suo viaggio a Parigi del ‘84. Studiava, copiava, le decorazioni pompadour degli edifici legate all’accademismo classico, stile ufficiale per narrare la grandeur transalpina. C’erano però anche il brut del realismo sociale di Courbet, il simbolismo di Moreau ma ancor di più, a parer nostro, di Paul Puvis de Chavannes, con un occhio all’eresia impressionista in dissolvenza e surtout ai neofermenti dell’Art Nouveau. Tornato in Italia lavorò come un matto volgendo i pennelli a quel genere minore, il paesaggio, ritenuto ininfluente nel periodo della formazione familiare, aderì al gruppo In arte libertas legandosi a Giovanni Costa e fu tra i XXV della campagna romana, artisti chiamati a raccontare per immagini en plein air l’immenso Agro dell’Urbe disteso fino alle malsane paludi pontine.  Il gruppo era composto di venticinque artisti, nacque nel 1904 e fu sciolto nel 1930, non avevano un manifesto programmatico ma facevano pittura estemporanea alla domenica viaggiando per la campagna. Una gita fuori porta con cavalletti e cassetta dei colori condita dall’ immancabile magnata in trattoria, d’altronde proprio da una trattoria della Nomentana era nata l’idea di mandare a quel paese l’Accademia per raccontare il vero. Il gruppo aveva un Capoccetta e un segretario, il Guitto che s’ occupava dell’organizzazione delle uscite, con relativo branch all’osteria. Pittura en pleni air? Non per Sartorio, lui schizzava a dovere le inquadrature, anzi per meglio entrare nella memoria dell’attimo fuggente, usava fotografare il paesaggio, poi a studio lo riproduceva con cura da orafo, costruiva quell’impressione colta al volo operando, da compositore, su un’arietta musicale, niente a che vedere con Impression soleil levant dell’unico vero impressionista: Claude Monet piuttosto il metodo di Edgar Degas o del secondo Manet.

Ma solo i grandi artisti possono parlare di una cipolla creando una poesia o innalzare sul gradino più alto dell’arte l’umiltà della dura esistenza quotidiana donandole l’ephos del mito, operazione che lui eseguì con cura, trasferendo nei butteri di Cisterna, nelle greggi, negli scorci del paesaggio quell’eterno ritorno che aveva appreso dalla filosofia del suo amico F.  Nietzsche.

Non v’è contraddizione tra i soggetti del dittico Diana d’Efeso e gli schiavi e La Gorgone e gli eroi. opere che presentò alla Biennale veneziana del 1897 o I figli di Caino premiato con medaglia d’oro all’Esposizione universale di Parigi del 1889 (anno di esplorazione del paesaggio grazie a Michetti) ed il naturalismo delle sue tempere sull’Agro. Cambiano i generi non la vocazione a cogliere in ogni manifestazione sia ottica che di ricostruzione (filologicamente documentata) quell’inafferrabile “cosa” che fa di un semplice gesto o di un mito un fiore eterno.

I suoi viaggi, dopo Paris, furono in Gran Bretagna per studiare ad personam la Confraternita dei preraffaelliti, avendo come medium il romano Nino Costa cultore del nostro ‘400, ma non solo Dante Gabriel Rossetti, William Hunt, Edward Burne-Jones, l’interesse suo volge anche ai rivoluzionari paesaggisti William Turner e John Constable. Seguirono gli anni trascorsi in Germania dal 1895 al 1899, docente all’Accademia di Weimar, al posto del simbolista Böcklin, lì ebbe modi di  confrontarsi con la ribellione  antiaccademica della Secession e frequentare la casa rifugio di F. Nietzsche caduto nell’abisso della catatonia, unica sua intermediaria la sorella Elisabeth.

Comunque, purtroppo, agli artisti la memoria collettiva coniuga un’opera chiave del loro viaggio, a Sartorio si lega il fregio della Camera dei Deputati di Basile (suo mecenate) eseguito dal 1908 al 1912, 50 tele alte 3.75, dipinte a encausto (alla tempera si mescola la cera), tecnica rapida, resistente, particolarmente luminosa. Lui amante, come Manet, della fotografia pone le tele sul pavimento (vedi Pollock), ci dispone sopra modelli e modelle messi in posa, poi fermi così! click li fotografa. Sviluppa le diapositive, le proietta sulle tele, contorna a matita i profili delle figure, lavora sui disegni con rigore, toglie, aggiunge, cuce, scuce la composizione, cercando ritmi e corrispondenze armoniche. Poi giù il colore in toni mai accesi di passione, maschera di un’aura olimpica che si vuole, nonostante il dinamismo, votare all’estasi imperitura. Il fregio trovò la sua attuale collocazione solo col 1918 quando l’aula delle sedute, progettata da Basile, era terminata compreso lo splendido lucernaio a ventaglio di Giovanni Beltrami, sotto il velario scorre questo film, lunghezza della pellicola 105 m, soggetto le virtù italiche dalla nascita dei Comuni al Risorgimento, genere aulico d’Accademia: l’enfasi della nostra storia.

“[…] Proprio quando mi sentivo maturo
per un’opera più grande, appena giunto ad
esprimere meglio quel che sento e che vedo dentro di me,
ho avuto l’incarico di questo lavoro che mi fa,
vibrare e lavorare e pensare con lo slancio e
l’entusiasmo di un giovane di vent’anni.

Prima di mettere mani all’opera tornò a Londra a studiare I Trionfi di Cesare in Gallia, nove tele dipinte da A. Mantegna per Francesco Gonzaga, conservate al Palazzo del bagno di Hampton Court. Il racconto di Sartorio per stile e impostazione s’accosta al Maestro veneto ma l’eleganza delle forme incide sul pathos e le allegorie delle italiche virtù di Fede, Forma, Ardire, Giustizia, Fortezza, Costanza ci paiono ottimiste. Lassù, sotto il grande lucernaio, sta dipinto quel che vorremmo essere con orgoglio, più in basso tra gli scranni vive il contrasto di quel che siamo, questo iato nuoce nel farmular giudizio sull’opera. Dieci anni dopo Mussolini tenne a Montecitorio il famoso discorso del bivacco. ”Potevo fare di quest’Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli […]” era il 16 novembre del 1922, forse guardando in alto aveva intuito la differenza tra Virtù e Vizi capitali, magari trasferendo quelle allegorie ideali nel programma della sua rivoluzione.

Aula della Camera dei deputati di Montecitorio, in alto scorre il Fregio di Sartorio

 

Giulio Aristide Sartorio, tre decorazioni dell’Aula dei deputati di Montecitorio

 

 

Con l’entrata in guerra dell’Italia nel ’15, all’età di 55 anni parte volontario sull’esempio dei futuristi, combatte ma disegna, lasciandoci molte istantanee del conflitto, ferito viene catturato dagli austriaci e rinchiuso  nel campo di  Mauthausen, una volta liberato se ne torna al fronte a testimoniare, su incarico del Comando dell’Esercito, l’adrenalina del patriottismo, autentica baionetta in più dei nostri combattenti, lasciandoci dodici quadri di Storia vissuta carica di emozione dalle tinte forti, accese quanto le sensazioni di chi vive sulla pelle i fatti. Torna il Sartorio realista illustratore attento della durezza della guerra che emotivamente lo coinvolge.

 

 

 

Giulio Aristide Sartori, dipinti sulla Guerra. 1917

Passata la Guerra “si prova” nel cinema, altra passione, firmando soggetto e regia del lungometraggio muto Il mistero di Galatea,seguito da Il sacco di Roma del ’20 e dal S. Giorgio del21. Poi torna a viaggiare per il mondo dal Magreb al Sud America, fino in Giappone, sarà di ritorno nel ’23, il Fascismo è al governo della Patria.  Aderisce al nuovo corso, d’altronde il suo stile raffinato di retrogusto classico ben si sposava alla volontà di riportare l’Italia sul podio anche nelle Arti. Le sue creazioni sono belle per tecnica compositiva, disegno delle figure, fierezza etnica di un popolo ideale fisicamente e moralmente vincente. Retorica? Assolutamente no perché lo stesso popolo era quello descritto in battaglia, al lavoro antico sui campi, come legato ai propri miti che ne costituiscono l’orgoglio delle comuni radici facendone il motore per andare avanti. Questa sua capacità di fondere nel suo percorso la dimensione mitologica con il verismo del presente, vestendoli di un unico abito, il tricolore, era segno di grande finezza intellettuale. Aderisce alle tesi gentiliane espresse nel Manifesto degli intellettuali del Fascismo apponendo la sua firma al documento pubblicato sul Popolo d’Italia il 21 aprile 1925, dove suscitano interesse i nomi di Salvatore Di Giacomo, Giuseppe Ungaretti, Curzio Malaparte esempi, dopo, delle metamorfosi politiche. Nel 1929 Sartorio venne insignito del titolo onorifico di Accademico d’Italia, lui autodidatta che già dal ’15 era docente all’Accademia di Belle Arti di Roma. Nello stesso anno riceve l’incarico di decorare a mosaico il restaurato Duomo di Messina, lavoro febbrile di una nuova sfida, vista l’età, ritrova le radici dell’arte musiva nelle preziose decorazioni siciliane, studia la storia della città, le sue tradizioni di fede e porta il tutto nel suo lavoro con giovanile entusiasmo. Il ciclo iconografico prevedeva nel transetto le origini della fede cristiana a Messina, la predicazione di San Paolo, la tradizione della Sacra Lettera e scene della vita della Madonna e di Cristo. Nelle tre navate veniva rappresentata invece la storia cittadina accompagnata da angeli e santi che intonano le Litanie Lauretane. Ma dicono che l’avvelenamento da colori gli arrestò la vita lasciando incompiuta l’opera era il 3 ottobre 1932, del suo lavoro frenetico restano 17 bozzetti.

L’arte figurativa perdeva un aedo moderno capace di suonare antiche melodie ma con “la cetra  elettrica”.

Aristide Sartorio, bozzetti delle decorazioni del Duomo di Messina

 

Emanuele Casalena

 

 

Bibliografia:

R. Miracco, Giulio Aristide Sartorio 1860-1932, Maschietto Editore, 2006

R. Miracco, Il fregio di Giulio Aristide Sartorio, Edizioni Leonardo International, 2007

Giulio Aristide Sartorio, Impressioni di guerra (1917-1918) Ed. illustrata, edito dalla Camera dei deputati

G. Berardi, Sartorio. Mito e modernità, Ed. illustrata, Edizioni graficart, 2013

 

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