Tutto il nostro Arditismo di guerra non fu che l’aspetto eroico del nostro ardimento civile, cui arridevano ieri, come arridono oggi presenti e proprio zie, due divinità: libertà e giustizia! (Piero Bolzon)
- Con la barba di Serrati farem gli spazzolini – per pulir le scarpe a Benito Mussolini
Agli inizi del 1920, tra tutti i dirigenti socialisti, ad essere gratificato di una speciale antipatia da parte dei fascisti è Giacinto Menotti Serrati, il direttore dell’“Avanti”, che ha sostituito proprio Mussolini.
Oltre ad una “normale” ostilità politica, nei suoi confronti pesano alcune specifiche colpe che appaiono, agli occhi degli ex interventisti, insanabili. È stato, infatti, il più forte portavoce della campagna neutralista, è stato arrestato durante i moti torinesi per il pane del 1917, visti come un vero e proprio sabotaggio da chi era al fronte, conduce giornalmente una spietata battaglia contro i reduci “non pentiti”, ed ha nel mirino, in particolare, la crema del combattentismo, gli Arditi.
Questi, in verità, non si fanno pregare per rendere, a modo loro, pan per focaccia, già la sera del 17 novembre dell’anno precedente, quando, come già accennato, alle prime notizie dei risultati elettorali, forti gruppi di socialisti si sono radunati, in via S. Damiano, sotto la sede del loro giornale, ad ascoltare le infuocate parole di “sua santità” Giacinto Menotti Serrati: “Lavoratori, la vittoria è nostra. Non dimentichiamo in quest’ora di legittima esultanza che nella vicina via Cerva i banditi fascisti attendono la nostra esemplare vendetta”.
Ma l’oratore si sbaglia, i “banditi” fascisti non “attendono”, ma, piuttosto, passano all’attacco. Un gruppetto, guidato da Albino Volpi, con Bianchi, Svanoni e Da Grada, esce dalla sede e si introduce, scavalcando un muro, nel giardino del palazzo Visconti di Modrone. Per un po’ stanno in agguato, ma quando gli pare di sentire che Serrati li definisce “briganti”, escono dall’ombra e tirano una Thevenot sulla folla, che non fa vittime, ma provoca solo il generale fugone.
Un precedente che avrebbe consigliato maggior prudenza nel “maneggiare” tipi così permalosi, in città considerati “ragazzacci capaci di compiere qualsiasi atto inconsulto”, come era già scritto in una poliziesca Nota Informativa datata 18 agosto 1919. E invece, un anno dopo, il nostro ci ricasca.
L’anniversario di quel 15 aprile, che con lo “sfasciamento” dell’Avanti ha segnato un punto di svolta nella vita politica del Paese, anche oltre la percezione che se ne ebbe nell’immediatezza dei fatti, non può passare sotto silenzio.
“L’Ardito”, affidato alla direzione di Vecchi, esce con un minaccioso titolo in prima pagina “Dal balcone dell’Avanti sventola il vessillo nero”, accompagnato dal disegno di un Ardito col fez che, munito di scopa, spinge nella fogna un corteo socialista.
Mussolini, su “Il Popolo d’Italia” del 16, dà una lettura politica del fatto:
Ad un anno di distanza, noi – i vittoriosi – abbiamo appena ricordato l’avvenimento. I vinti, a scopo di bottega, l’hanno rievocato con uno stato d’animo che sta tra il furore impotente, la paura ossessionata, e il frigidismo letterario di uno scettico facitore di frasi.
Sanno bene che noi siamo ancora vivi, che siamo ancora in piedi.
Siamo una pattuglia, perché per il nostro combattimento non occorrono le masse pletoriche che fuggono a rompicollo per lo scoppio di un motore, ma una pattuglia che non conosce limiti alla sua audacia e accetta il rischio – anche mortale – con strafottente imperturbabilità. (1)
L’accenno all’articolo di Marco Ramperti, apparso sull’Avanti del giorno prima, è evidente, e riflette l’accoglienza che tutti i fascisti hanno dato alle velenose parole del giornalista – futuro romanziere – socialista, con i soliti luoghi comuni, anche minacciosi nei confronti dei distruttori dell’anno prima.
La reazione degli interessati è, però, più divertita che irritata. Al “Covo” si festeggia, e, quando c’è chi mostra il quotidiano socialista, scatta l’idea della beffa. Uno corre al telefono, chiama il giornale, si spaccia per il “compagno Bruschetti” e dà vita ad un inverosimile dialogo col suo interlocutore, tal Barbiani:
“Ah… Ciao: stai bene? Cosa c’è di nuovo?”
“C’è che quelli di via Cerva… non so… ma c’è una confusione”
“Sappiamo, sappiamo: ballano, cantano, si divertono”
“Sai, Barbiani, non vorrei che facessero come un anno fa”
“Cosa? Come un anno fa? Ah, siamo pronti noi”
“Proprio pronti?”
“Prontissimi”
“E allora vegni subit con l’orinari” (2)
E la storia non finisce qui. Il giorno dopo, si trovano a colazione, in una osteria del Pilastrello, sei Arditi: Vecchi, Bolzon, Volpi, Mazzuccato Umberto Maurelli, e Gino Coletti.
Si parla delle solite cose, si fanno progetti che, quattordici anni dopo, nella testimonianza di Mazzucato “…al solo ricordo mi si rizzano in testa i pochi capelli rimasti”, si sbruffoneggia un pò, nel migliore stile arditesco.
A questo punto, sempre Mazzucato, nell’imprudente tentativo di calmare gli animi, tira fuori l’Avanti e comincia a leggere l’articolo in prima pagina, non firmato, “ma evidentemente scritto dal direttore”, scatenando una reazione non prevista.
Leggo forte i punti più salienti, ma un vociare assordante mi vieta la lettura.
“Ammazziamo Serrati!”
“Bruciamo un’altra volta l’Avanti!
Tiriamogli il collo!”
“Lo sfido a duello” tuonò Vecchi, ma suscitò la riprovazione generale.
Mi balena un’idea: è un attimo.
“Tagliamogli la barba”, grido con tutto il fiato che ho in corpo.
Un istante di silenzio, e poi urla e abbracci attestarono la più completa adesione alla mia proposta. Consulto l’orologio: ore 14,30. (3)
Facile a dirsi, un po’ meno a farsi, se fantasia e fortuna non venissero in soccorso dei malintenzionati. Una telefonata a casa Serrati, a nome di un fantomatico “compagno bolognese”, con la scusa di un necessario, urgente incontro, permette di accertare che la vittima designata uscirà di casa alle tre, per recarsi a palazzo Marino.
E così il primo passo è fatto.
Occorre, a questo punto, procurarsi l’armamentario necessario. Un bel paio di forbici vengono recuperate, con una scusa, a casa Mazzucato, mentre Bolzon si procura una macchina fotografica per immortalare l’avvenimento.
Alle 14,50 i manigoldi sono appostati nell’ officina di un conoscente, che è proprio di fronte alla casa di Serrati, in viale Vittoria. Qui si svolge una scena che ha del surreale: la suddivisione degli “incarichi” prima dell’azione.
Vecchi, che è il “capo-spedizione”, rivendica a sé l’onore di una cazzottatura, prima del “gesto…operatorio”, Bolzon, proprietario dello strumento, sarà il fotografo (e ne trarrà una foto “mossa”, che con molta buona volontà sarà poi definita “futurista”), a Volpi toccherà il taglio vero e proprio, mentre Mazzucato, Maurelli e Coletti vigileranno che non ci siano sorprese.
Se lunga è stata la preparazione, rapidissimo è lo svolgimento dell’azione.
All’apparire del giornalista, Vecchi gli si para davanti, dice poche parole concitate e lo tempesta con una gragnuola di cazzotti, finchè intervengono gli altri, con Volpi che afferra con la sinistra la fluente barba e con la destra impugna le robuste forbici.
Il trofeo viene poi portato a Mussolini, che lo rifiuta decisamente: “Anche nella barba di un socialista ci sono dei pidocchi… russi. Non accetto”.
Nelle ore successive, le indagini delle Autorità, sollecitate dai parlamentari socialisti, portano alla identificazione dei responsabili, che conoscono prima le camere di sicurezza di San Vittore e poi il carcere.
Ancora peggio va a Ferruccio Vecchi, che, intercettato nei pressi di palazzo Marino, è circondato da un folto gruppo di militanti socialisti e pesantemente malmenato, non senza che al danno sia aggiunga poi la beffa:
Mentre, svenuto, veniva portato alla Guardia medica, i valorosi socialisti non cessavano di infierire e di colpirlo. Il Capitano Vecchi riportò numerose ferite e la commozione cerebrale, poi felicemente risolta, ragion per cui il Questore Gasti lo… dichiarava in arresto e lo faceva piantonare dalla polizia (4)
La vicenda avrà anche un seguito antipatico. Il ferito, infatti, accuserà Bolzon (Capitano degli Arditi anch’egli, con due medaglie d’argento e una di bronzo in guerra), che era con lui, di non essere intervenuto a difesa, e tra i due nascerà un attrito, tal che, a gennaio del 1921 sarà proprio il secondo – peraltro spalleggiato da Mazzucato e Volpi, altri due protagonisti della giornata del 16 aprile – a provocare l’espulsione dello “sfasciatore dell’Avanti” dall’ANAI.
Il severo giudizio sull’episodio, che viene quasi naturale oggi, a un secolo di distanza, non può non tener conto del clima particolare nel quale esso si svolge, in una Milano nella quale, come nel resto dell’Italia intera, la pesante cappa della prepotenza socialista sembra opprimere tutti. Violenza di tipo “spicciolo” con le aggressioni individuali nelle grandi città, e molto più grave, scientificamente gestita dalle “baronie rosse”, nei paesi, con l’imposizione di taglie, i bandi, i boicottaggi.
È un sistema che Dino Grandi, al processo per la strage di palazzo d’Accursio, efficacemente sintetizzerà:
“La lega è il piccolo governo locale, la Camera del lavoro è il governo provinciale. Per licenziare un operaio occorre il permesso della Camera del lavoro. Al datore di lavoro è inibita ogni resistenza. Occorre, durante i giorni di sciopero che si susseguono, il permesso della Camera del lavoro anche per seppellire i morti. In fatto, il soviet già funziona: le leggi prime dell’economia sono completamente dimenticate. Vi è un nuovo sistema di diritto penale, con nuove pene, con nuove norme, con nuove esecuzioni di pene. Tra queste, le essenziali sono due: il boicottaggio e la taglia. Il boicottato non lavora, ma potrebbe eventualmente vivere attraverso elemosine, sussidi, carità: allora si ordina alle botteghe di non dargli viveri, carne, pane, alimenti. Gli si proibisce di cuocere nel forno casalingo, si vieta al medico e alla levatrice di accedere a casa sua.
Il boicottato a poco a poco si forma una sua falsa e speciale psicologia, pensa che ha una sola via per redimersi: entrare nella lega, e vi entra. Ecco come in gran parte si è formata a Bologna e provincia la coscienza socialista. La taglia è la multa che il proprietario paga all’organizzazione perché ritenuto colpevole di non aver eseguito a puntino le direttive dell’organizzazione stessa. È stato calcolato che, soltanto nell’estate del 1920, più di due milioni di lire sono state versate sotto la speciosità di taglie alla Camera del lavoro di Bologna ed alle piccole leghe locali. Dappertutto monopolio della mano d’opera, monopolio tirannico, ed attraverso la tirannia economica, la tirannia politica.” (5)
Né va trascurato il particolare temperamento dei protagonisti, reduci della più dura guerra di trincea e propensi a risolvere i problemi con l’uso della forza e il ricorso allo scontro personale.
Sempre Vecchi, per esempio, poche settimane dopo l’episodio Serrati, affronterà un rischioso viaggio per tornare a Fiume “isolata” dalle truppe governative, e sfidare a duello, con schiaffi e bastonate in pubblico, il Tenente futurista Federico Pinna Berchet (col quale pure durante il sua breve precedente soggiorno fiumano aveva avuto un buon rapporto, come testimonia la nota fotografia che li ritrae insieme, in posa scherzosa, insieme a Marinetti, Guido Keller e Tomaso Beltrami) per alcune critiche mosse alla sua gestione dell’Associazione Arditi.
È quasi una smania di azione a tutti i costi, che ha bisogno di trovare sfogo, anche nelle piccole vicende del quotidiano, contro chi si credeva padrone della situazione. Farinacci, che in quel periodo è di casa a Milano, lo riassumerà efficacemente, in un brano nel quale parla anche del taglio della barba:
Ormai quello che s’era prima permesso per timore, abitudine o pazienza, ora provocava una reazione immediata, come se gli animi saturi di offese e di sdegno cercassero i motivi o i pretesti per sfogare l’energia sovrabbondante che avevano accumulato; e già appaiono, in qualche luogo e momento, gravissimi tra tutti i segni di questa tragedia civile della nostra Patria, la gioia del litigio e del rischio, e il proposito ostentato e beffardo della provocazione, come a Milano… (6)
Contro questa situazione che, per la paura, sembra trovare il consenso di molti e, comunque, non conosce opposizione degna di nota, i pochi intenzionati a resistere mettono a punto una tecnica che, nei mesi a seguire, verrà sistematicamente riassunta nei manifesti affissi, alla partenza, là dove ci saranno le spedizioni fasciste. La sintesi, che vuole salvaguardare i pochi aderenti locali da ritorsioni, con la minaccia di un “ritorno”, è nella frase normalmente usata come chiusura: “I capi saranno tenuti per responsabili”.
Sicuramente “capo e responsabile” dell’offensiva sovversiva è Serrati col suo giornale e i suoi articoli, anche se è un titolo che condivide con altri.
A Bologna, toccherà a Bombacci, che sarà “bloccato”, il 5 novembre del 1920, all’interno di un locale da una squadra fascista e potrà essere tratto in salvo solo dal provvidenziale intervento dei poliziotti. “Nicolino”, all’uscita, rilascerà una dichiarazione alla stampa che, in verità, non fa onore a lui, uso a promettere sfracelli e forche in piazza agli avversari:
Ciò che mi capita è veramente curioso! Io, il più mite di tutti i socialisti italiani, circondato ed odiato come una belva! E dire che non ho il coraggio di aprire un coltello! (7)
Ancora peggio andrà, il 13 giugno del 1921, a Misiano, altro personaggio odiatissimo perché disertore di guerra. All’interno di Montecitorio sarà affrontato da un gruppetto di neo-eletti parlamentari fascisti, disarmato della rivoltella che ha estratto minacciosamente e buttato fuori a pedate. In prima fila, Roberto Farinacci:
Il disertore comunista, credendo che la… solennità dell’aula e del luogo ci possa rendere prudenti e riguardosi, scatta in piedi, estrae di tasca una rivoltella e la punta contro di noi.
Mentre in aiuto di questo figuro accorrono deputati comunisti e socialisti, io mi avvento sul Misiano e riesco a strappargli l’arma dalle mani.
I miei colleghi fascisti estraggono le rivoltelle ed urlano: “Fuori! Fuori i disertori! Qui non si offendono i morti gloriosi della guerra e della rivoluzione!
Vi è nella sala un istante di tragica attesa; poi Misiano, afferrato da dieci mani, a calci nel sedere viene condotto dal corridoio verde al salone d’ingresso, e scaraventato infine nella piazza. (8)
In confronto,l’episodio milanese ha un che di burlesco, connaturato all’indole arditesca dei suoi protagonisti, già sperimentata in guerra:
Ottone Rosai, fiorentino magnifico, motteggiatore terribile di Austriaci, temerario anche prima della guerra, colosso dai pugni di bronzo, sulla Bainsizza, con quattro compagni a cui aveva gridato: “Chi non viene con me è un vigliacco!” catturò una mitragliatrice e 32 cecchini, e tornò alla testa del plotone di prigionieri cantando: “Lassatece passà, semo romani…” (9)
Gesti guasconi che non hanno nulla di “veramente” politico, e non possono bastare a fermare il declino dell’associazionismo ardito, le cui prime avvisaglie si hanno un mesetto dopo, in occasione del secondo Congresso del movimento fascista, a Milano, quando Mario Carli, futuro teorico del “fascismo intransigente”, darà, in contemporanea, le dimissioni dai Fasci di Combattimento e dall’Associazione Arditi.
La fine dell’avventura fiumana esaspererà la situazione, perché molti Arditi si schiereranno con la Federazione Nazionale Legionari, critica verso le ultime scelte fasciste, a partire da una presunta “freddezza” dimostrata in occasione del Natale di sangue.
Su altro versante, si è già detto dell’espulsione di Vecchi (che verrà radiato anche dai Fasci), che fa perdere alla comunità delle Fiamme un personaggio di sicuro prestigio e carisma, non compensato in maniera sufficiente dalla valorizzazione di protagonisti pur apprezzati dell’esperienza bellica, come il Maggiore Freguglia, già Comandante del XXVII°, e Mario Carli, rientrato nei ranghi.
Il punto di svolta, a risolvere una convivenza che si dimostra sempre più difficile, sarà rappresentato, nell’ottobre del 1922 dalla fondazione della Federazione Nazionale Arditi, su posizioni dichiaratamente filofasciste, mentre i vecchi soci ANAI affiancheranno i reduci fiumani, fino a confluire, con essi, nel 1924, nell’Unione Spirituale Dannunziana, che verrà, però, sciolta due anni dopo.
Tra i protagonisti di quel 16 aprile dal quale eravamo partiti, Mazzuccato, Volpi e Bolzon resteranno nel campo fascista, Vecchi se ne estranierà, dedicandosi alla scultura in giro per il mondo (salvo tornare a Roma nel 1939 ed allestire una mostra personale, “Il mito del Duce nella scultura”), e lo stesso farà Coletti, destinato a finire secondo violino al Casinò di Sanremo. Di Maurelli nulla so dirvi, perché ne ho perso le tracce.
FOTO 3: Ferruccio Vecchi
FOTO 4: Il momento del taglio della barba
NOTE
- (a cura di) Edoardo e Duilio Susmel, Opera Omnia di Benito Mussolini, vol. XIV, Firenze 1954, pag. 411
- Edmondo Mazzucato, Da anarchico a sansepolcrsita, Milano 1934, pag. 188
- Ibidem, pag. 190
- Ibidem, pag. 194
- In: Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, Firenze 1929, vol. II, pag. 190
- Roberto Farinacci, Storia della rivoluzione fascista, vol. II, Cremona 1937, pag. 221
- “Il Resto del Carlino” dell’8 novembre 1920, citato in: Nazario Sauro Onofri, La strage di palazzo d’Accursio, Milano 1980, pag 257
- Roberto Farinacci, Squadrismo, dal mio diario della vigilia, Roma 1934, pag. 89
- Mario Carli, Noi Arditi, Milano 1919, pag. 55