E, dopo aver cenato dall’amico comune Ernesto, con un bicchiere di vino di troppo (alcuni vollero insinuare, ma ciò poco o nulla conta), si mise al volante della 850 Fiat, sull’Aurelia, direzione Roma. Ore 23 di sabato 11 agosto 1974. Fino al tredicesimo chilometro. Forse abbagliato da fari provenienti da opposta direzione perse il controllo e la macchina si rovesciava in una cunetta, rimanendo incastrato nelle lamiere contorte e lo sterzo nel fianco. Fu soccorso soltanto verso le cinque del mattino, trasportato all’ospedale San Camillo, si spengeva alle ore 22 della domenica seguente, sempre cosciente. Adriano Romualdi.
E sono ormai trascorsi quarant’anni, sembra un secolo e più, nonostante che l’editore Enzo Cipriano si sia preso cura di ristampare alcune sue opere vi siano stati dei convegni presentazioni (ad alcune vi ho preso parte) e la prima biografia a lui dedicata, scritta dall’amico Rodolfo Sideri. Distanza… nobile spazio per chi ha misurato la grandezza dell’intelletto della riflessione cultura e intuizioni oppure, vittima del tempo e delle circostanze, il suo il nostro mondo si è incamminato oltre un orizzonte, una linea che avremmo voluto restasse a distinguo.
E la finis Europae, il mito della Berlino maggio ’45, difesa estrema volontari europei, francesi e scandinavi e spagnoli, e i giovanetti della HJ armati di panzerfaust. (Racconta la guida, da me sollecitato e provocato, ai miei alunni che per arrivare a piantare la bandiera rossa sul Reichstag i sovietici vi impiegarono tre giorni e ne vedevano l’edificio a occhio nudo…). Il mito da opporre a quello che attraversava le strade delle città europee, capelli lunghi eskimo pugni chiusi i nomi di Marx e Lenin e Mao e Che Guevara urlati contro le finestre chiuse i portoni serrati le saracinesche abbassate l’odore aspro delle molotov e dei lacrimogeni le spranghe e i manganelli il sangue sull’asfalto. Altra distanza, per nulla nobile, preda essa stessa d’inganni ed illusioni, tramontando ogni sol dell’avvenire. E il muro di Berlino sgretolato a picconate.
E avevi ragione tu nel descrivere quei giovani, primavera del ’68, i figli dell’uovo marcio della borghesia, il prodotto stesso di quella società che intendevano abbattere (e, passato il temporale, placatasi la bufera, si sono ritrovati nell’alveo tranquillo e di successo, poltrone e giornali e televisione e industria e tanta, tanta politica da spartirsi tra Montecitorio e Palazzo Madama) oppure no? Ricordo – e la memoria preserva la stima il rispetto integri – quando venisti sulla scalinata di piazza di Spagna per esortarci, anche con la presenza fisica, di abbandonare l’insana follia d’essere voce e corpo a quella rivolta generazionale prima che degenerasse in antagonismo ideologico. Inutile, e lo sapevi. A Valle Giulia, bastoni e barricate, avemmo effimero momento di gloria (alla parete conservo l’ingrandimento di quella foto che, casualmente, mi rese con la bottiglia e l’asse di panchina fra le mani figura plastica per coltivare l’inguaribile vanità d’un modesto attivista!), ma – ti confesso – rimango fedele al nostro agire pur consapevole delle tue ragioni.
E ci conoscemmo presso l’editore Giovanni Volpe, forse settembre del ’63, dove tu curavi tanta parte di quei libri ed io a cercare il libro di Bardéche, che tu avresti severamente criticato. Non potevo, non potevi, sapere che anche quel libro sarebbe stato lo scarto di una lacerazione di percorsi altri di scelte – ed io credo pur non avendoti a contraddittorio che il fascismo ‘immenso e rosso’ era risposta, è risposta, rispetto alla tua lettura, filologicamente più rigorosa, essere esclusivamente un fenomeno europeo, romantico e figlio di una reazione di fronte alle trincee al filo spinato alla guerra civile, per dirla con Nolte, del 1914. Tu eri lì, con quel vestito troppo largo insaccato di colore scuro, forse con la cravatta, i capelli ostili le lenti spesse da miope, un giovane anonimo sembravi e quanto falsa era l’apparenza… perché avevi il dono stringato della parola che, come la chiedeva Drieu la Rochelle, deve essere simile a colpo di spada. E, quando sapesti che m’ero iscritto alla facoltà di storia e filosofia, parlammo di Platone e di Evola (l’unica volta che mi trovai nel suo appartamento di Corso Vittorio fu per tuo merito) e di Nietzsche, di cui scrivesti tre saggi esemplari.
E, accanto all’acume e la solida formazione (ti laureasti con Renzo De Felice, una domenica mattina!, quasi da clandestino che pesante era il tuo cognome e pesante era la cappa mefitica e oppressiva della sinistra accademica, su Correnti politiche e ideologiche della destra tedesca dal 1918 al 1932), eri un giovane di coraggio che non si sottraeva allo scontro quando e se occorreva. L’hanno raccontato Giulio Maceratini e Stefano delle Chiaie, ad esempio, ed io stesso presente una mattina all’università di Roma. Dottrina che si fa azione e azione che forgia la dottrina. Gli intellettuali della destra ‘per bene’ sono venuti dopo con la presunzione l’arroganza la civetteria… Il coraggio della mente l’ardire del corpo. E coraggio fu venire, l’ho ricordato sopra, a piazza di Spagna per dimostrare che non erano le sue parole solo dissenso verbale e verboso.
E ancora ci rivelasti un modello di soldato ideologico che allora faticavamo ancora ad intendere quei soldati delle divisioni Waffen-SS, un tipo umano e di guerriero che, dietro l’immagine di una sorta di crociata antibolscevica, si forgiavano per superare il preteso superomismo biologico della Germania e i residui di troppo nazionalismo patriottardo in nome di un Ordine Nuovo, di quell’Europa-Nazione che avrebbe rinverdito l’esangue pianta secolare del Vecchio Continente. (‘Crede, professore, che con il nostro anacronistico modello 91 potevamo sperare di fermare la potenza d’acciaio della V e dell’VIII armata che, molto lentamente e inesorabilmente, risalivano la Penisola? E’ che avvertivamo, magari in modo confuso ed incerto, che dietro si preparava la distruzione della nostra civiltà,di tutto quello su cui s’era fondata per secoli la nostra esistenza…’, mi ripeteva Ugo Franzolin, corrispondente di guerra giornalista scrittore). Già, Adriano, eri impastato di buona tempra… di quella tempra che, attraverso la testimonianza diretta, ci ha educato a cercare d’essere ‘d’animo grande’.
E, alla ricerca delle fonti di una razza dello Spirito (‘le radici profonde non gelano mai’ leggeremo più avanti in Tolkien), ecco gli Indo-europei, che dalle brume del Nord costruirono una visione luminosa della vita e la irradiarono fino ai mari oltre le vaste pianure e le rocciose montagne. Molteplici le civiltà, unico il sentire. E primo fra tutti il solstizio d’inverno che, sotto la forma di solari e di svastike, illuminava la notte più breve in cui sembra che le tenebre debbano prevalere sul giorno. Quel Juppiter Sol Invictis riconosciuto in Roma, ad esempio. Così cominciammo ad amare le montagne, la notte intorno al fuoco, i canti in attesa dell’alba e, con essa, un ultimo arrancare, l’estremo balzo per essere i primi ad essere investiti dai raggi del sole. E, dopo Adriano, Peppe Dimitri ci ricordò di non dimenticare le nostre origini mentre, nelle strade nelle piazze davanti alle scuole, il nichilismo impazzava furioso e feroce.
Incontrai Adriano – e sarebbe stata l’ultima volta – pochi mesi prima di quell’incidente stupido e imprevisto davanti alla libreria Tombolini in via 4 Novembre. Uno sguardo d’intesa, veloce, mentre le guardie di scorta m’accompagnavano in ogni passo. Tutto qui… No. Mi sono chiesto tante volte cosa può essergli passato per la mente mentre, goccia dopo goccia, avvertiva la vita scivolargli dallo squarcio della ferita. Immagini – la giovane moglie tedesca, i due figli bambini – gli amici più intimi e i camerati a lui cari; le idee i progetti i libri incompiuti le lezioni all’università di Palermo; l’esitazione l’inquietudine le certezze; Julius Evola, il maestro, a cui portava rispetto e al contempo libera critica e ne riceveva stima e apprezzamento (l’unico a cui dava il confidenziale ‘tu’). Non lo sapremo mai. Da parte mia l’associo ad una tazza di latte offertami , lungo la via che porta da Aquisgrana a Utrecht, da una vecchia contadina olandese durante uno dei miei tanti viaggi per le strade d’Europa. Credo fosse la primavera del ’67, poco importa del resto. Un dono, una offerta per noi che sentiamo esserci un’Europa, il suo sangue la sua terra i suoi frutti, che solo a noi dischiudono le sue antiche promesse…
Quarant’anni. Forse più di un secolo. Non so cosa resta cosa è cambiato verso quale destino siamo tutti noi chiamati. Oggi non vedo più l’esistenza simile a un treno che va verso una meta, pur se ancora incerta ed oscura, ma un procedere ora qua ora là beandomi di quanto mi accoglie e non dolendomi di quanto mi si nega. E, sebbene ‘muor giovane colui che al cielo è caro’, a te gli dei furono esigenti, accetto e mi batto contro di essi se mi sono ostili e peggio per loro…