di Michele Rallo
L’allarme è venuto dall’assemblea dei giovani imprenditori: «senza prospettive per il futuro, l’unica prospettiva diventa la rivolta.» Subito dopo, anche il presidente dei “grandi” si è espresso con lodevole chiarezza: «c’è il rischio di esplosioni violente.» Gli industriali, dunque, sembrano essersi resi conto — almeno loro — che questa politica eurocratica e globalista stia precipitando l’Italia nel baratro. Meglio tardi che mai, perché la classe imprenditoriale è certamente corresponsabile dell’attuale crisi italiana. Due, almeno, i torti — gravissimi, imperdonabili — degli industriali.
Il primo torto è stato quello di aver perorato — già da molto tempo prima della nascita dell’Unione Europea — la riforma delle pensioni, non rendendosi conto che questa, diminuendo drasticamente il numero delle nuove assunzioni, sarebbe stato il primo passo sulla strada della riduzione della platea dei consumatori; con ciò determinando una crisi progressiva del commercio e delle attività imprenditoriali — e sono la maggioranza — che producono per il mercato interno e non per l’esportazione. Questo semplice meccanismo gli imprenditori italiani non l’avevano e — temo — non l’hanno ancora capito. Sempre speranzosa che, riducendo le spese per la previdenza, lo Stato potesse liberare risorse da destinare all’ausilio alle attività produttive, la Confindustria è stata in primissima linea nel richiedere a gran voce la riforma delle pensioni e, con essa, “le riforme” (ma sarebbe più esatto dire “le controriforme”) che avrebbero dovuto avvicinare il nostro Paese ai “paradisi” del liberismo, primo fra tutti gli Stati Uniti. Adesso, giunti alfine in un paradiso similstatunitense, gli industriali cominciano a sospettare di essere finiti all’inferno.
Il secondo grande torto è stato di aver accettato con malriposto entusiasmo la logica della globalizzazione e della mondializzazione dell’economia. Consci del loro valore (gli imprenditori italiani sono tra i migliori al mondo), i nostrani capitani d’industria si sono gettati con gagliardo entusiasmo nel “mercato globale”, convinti che le loro qualità li avrebbero fatti spiccare, li avrebbero fatti emergere anche fuori dai confini nazionali. Non avevano considerato — gli ingenui — che la globalizzazione non funziona così. Nessuna piccola impresa italiana o di altro paese — per brillante che sia — può reggere la concorrenza di un grande complesso industriale (non importa se americano o cinese o brasiliano) che abbia costi di produzione notevolmente inferiori (e mi riferisco in primo luogo ai costi della manodopera) e, soprattutto, che abbia alle spalle un forte supporto finanziario. Questo vale soprattutto per le piccole imprese: chi può vendere a 1.000 euro, in Italia, un divano costruito con tutti i crismi dai nostri bravissimi maestri mobilieri della Brianza, quando un divano con le stesse caratteristiche (almeno apparentemente) viene prodotto in Cina e viene proposto sul mercato italiano a 200 euro?
Spero che la nostra imprenditoria prenda finalmente atto di questa realtà; spero che si decida a far pressione sulla politica non tanto per qualcuno dei soliti pannicelli caldi, bensì perché venga finalmente imboccata la strada difficile ma necessaria dell’uscita dalla globalizzazione. E dalla miseria.
Nota di Ereticamente
Ringraziamo l’Autore per l’invio. L’articolo è stato pubblicato in cartaceo sul periodico Social di Trapani
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