Prosegue il cammino di un vecchio che, cmq, porta in sè occhi per amare cuore per battersi e mete piena di strambe idee e a tutto ciò è fedele
Isidoro Vidal, conosciuto nel quartiere col nome di don Isidro così riflette all’inizio del romanzo Diario della Guerra del Maiale dello scrittore argentino Adolfo Bioy Casares: ‘Sono arrivato a un punto della vita in cui la stanchezza non serve per dormire e il sonno non serve per riposare’. Amico di Jorge Luis Borges – coautore di raccolte di racconti (Borges diceva di lui che era ‘inventore di trame perfette’) – avevo letto Il sogno degli eroi (1968), ormai credo trovato in qualche libreria dell’usato durante qualche scorribanda alla ricerca di altro e di più. Il vagabondare tra visioni oniriche e cruda realtà ove il coltello conclude nel sangue una notte di festa nella Buenos Aires dei vicoli popolari e malfamati il tango suonato in locali dal vino forte e traditore al ritmo del Bandoneòn (la tipica fisarmonica argentina) e una partita a carte di truco la cui posta è la vita. E mi era rimasta impressa l’immagine della felicità quando in fila ci si mette a pisciare, al chiarore della luna, contro un muro con gli amici. Chi non ha mai rotto un lampione a sassate, come più tardi con i pregiudizi, si è persa una delle tante oscure gioie della propria adolescenza, di quella scuola di personale formazione in cui il brutto anatroccolo si trasforma in cigno…
Le estati della costa romagnola, fin da bambino, apprendere a nuotare e andare in bicicletta e tuffarsi dal trampolino e, più tardi, scoprire il sesso dietro le cabine sulla sabbia ancora calda. Piccola affiatata realtà di ragazzetti, chissà per quale strano gioco delle cose ci scoprimmo ‘camerati’, pronti alla rissa allo scherzo al baretto al dancing, l’architetto Speroni, unico consigliere del MSI, Ermes contrabbandiere di sigarette, la villa del Duce, a Torre Pedrera convegno con Pino Romualdi, assediati dai compagni, scontri botte macchine rovesciate, risate… ‘Stanchi sporchi ma felici’. Un letto una sdraia sulla sabbia, due tre ore, ricominciare. E mia madre che mi trovò i preservativi caduti dai pantaloni e me li mise in bella mostra sul comodino per poi consigliarmi di fare colazione con il classico uovo sbattuto… Nacque allora il dormire a singhiozzo, a tratti, a far compagnia dei gatti in amore, dei nottambuli abbracciati ai lampioni e scambiati con la luna. A Regina Coeli, solo lì, sonni chilometrici duri come sassi senza ricordi al risveglio fuga dalla realtà.
Qualche giorno fa l’amico Giacinto Reale ha postato la riproduzione di un quadro di Napoleone a cavallo – e mi viene a mente il giovane Hegel che dalla finestra della sua abitazione lo vide passare dopo la travolgente vittoria di Jena sull’esercito prussiano, definendolo ‘lo spirito del mondo’ (dietro l’enfasi delle parole spesso c’è un non so che di ridicolo, se ci immaginiamo il Corso piccolo e rotondetto, ma spesso il ridicolizzare non è altro che l’alibi dei nani servi impotenti vili). Vi ha aggiunto una citazione sprezzante: ‘Agli uomini bastano quattro ore di sonno, alle donne cinque, agli stupidi sei’. Giacinto si sente leso nell’autostima; io gratificato. Di più: non stupido (e lo sapevo già!), non donna (altra innata certezza!), ma neppure sovente uomo (ciò mi turba un poco!). Va bene che i Grandi ne dicono anche loro di cazzate (qui emerge la mia vena libertaria!). E penso al Napoleone relegato nella sperduta isola di Sant’Elena, ancora ignaro della riflessione di don Isidro, ma vivendola disperatamente sulla sua pelle, mentre il Manzoni si predisponeva a trarne l’ode Il 5 Maggio, tormentone scolastico, dove la presunzione della Provvidenza si accompagna bene a quella dello Spirito di Hegel. Entrambi ignari del Caso e del Nulla…
A dire il vero il ‘nostro’ eroe – non intendo Napoleone né Hegel e neppure l’amico Giacinto –, poi, tutto il suo rimuginare sui limiti della vecchiaia, impotenti e patetici li ho definiti in altra occasione, sembra essere più funzionale alla narrazione che non alla descrizione di fatto della sua condizione anagrafica. Perché Bioy Casares costruisce, con il suo stile di rendere la realtà onirica e il fantastico concreto, la vicenda del conflitto generazionale per le strade di Buenos Aires. Stupidi crudeli violenti i giovani se la prendono, in una sorta di caccia alle streghe, con tutti coloro che rappresentano ‘il passato’ – inteso in senso generazionale e non a conservare istituzioni e valori. Una guerra destinata a vedere la sconfitta degli uni e degli altri perché il vero nemico è il tempo le cui regole ferree i suoi percorsi inesorabili sono il procedere stritolando divorando e annientando in un unico calderone vincitori e vinti. E, anche qui, torna alla memoria una celebre paginetta dell’onnipresente Hegel sulla distinzione giovani-vecchi, in cui egli si schiera con questi ultimi perché hanno (avrebbero?) la visione compiuta dell’esistenza… Banalità.
In altra occasione ho rilevato come il narrare sapesse esprimere in modo più profondo e vivo la condizione dell’esistenza rispetto all’insieme di concetti ed idee – Dostoevskij contro Nietzsche, ad esempio (non vi è, in verità, l’un contro l’altro armati, solo sensibilità linguaggio difformi e la incognita de cristianesimo contro il disvelamento del nichilismo). Anche per questo ho messo fine a una scrittura sotto forma di saggio e mi sono dato a raccontare storie… Ciò vale anche in questo romanzo di Bioy Casares? Perché egli introduce una sorta di sintesi dei contrari, di superamento o mediazione (tanto per continuare a fare il verso a Hegel), quell’amore tenuto segreto – di cui non comprendiamo la genesi, ma ogni grande sentimento è di per sé un grande mistero – fra Vidal e la giovane sartina Nélida, dominato dal pudore non soltanto nel timore d’essere deriso quanto nel dichiararsi per sua stessa natura estraneo al conflitto. Anche questa è banalità, ma di una banalità appartenente al linguaggio del corpo e, quindi più immediata e sincera.
L’ironia di Pirandello, espressa attraverso l’immagine della vecchia signora tutta imbellettata e lo scherno che si rende in commiserazione. E l’insonnia, il cattivo riposare, la stanchezza inappagata, le ore canoniche degli uomini secondo Napoleone (dai primi paragrafi del breve racconto di guerra Il tenente Sturm di Ernst Juenger sul fronte francese: ‘Al risveglio dopo un sonno di quattro ore, invece, ci si sentiva come nuovi. Ci si lavava nell’elmetto d’acciaio, … si caricava la pistola e si abbandonava il rifugio per andare a zonzo lungo le trincee’), tutto l’inizio di queste note s’è forse disperso negli spazi vuoti della tastiera? No. E’ che il male del ‘vecchio’ don Isidro sta nella vecchiaia in sé. La solitudine, ad esempio. (Mio padre, confortato dai suoi libri e da un sentimento sereno dell’esistenza, mi confidava che, più si va avanti negli anni, più vengono meno i propri coetanei fino a ritrovarsi da soli. L’esprimeva con apparente distacco, ma riempiva il vuoto con i tanti ricordi).
La saggezza, la trasmissione del potere, il passo lento, lo ius romano del pater familiae, gli anziani della tribù intorno al fuoco, il narrare le antiche gesta i miti della fondazione le leggi della natura il senso degli usi e dei costumi… ormai alzarsi di notte più volte per urinare avvertire il disagio del freddo o del caldo il bruciore di stomaco secondo la qualità del cibo la catena delle abitudini la pensione insufficiente e il ritrovarsi al bar, magra consolazione, per una partita a carte, inaciditi scontrosi lagnosi eppure bisognosi di quella comunella come una zattera. Qualcosa deve essere accaduto: o ci siamo costruiti un modello fittizio e fasullo dei tempi antichi, li abbiamo dipinti con i colori dei nostri desideri delle nostre paure, e delle antiche civiltà dominate dal senso della giustizia e delle gerarchie oppure la modernità, con cui dobbiamo fare i conti sempre più in negativo, ha portato alla luce il deteriorarsi dell’età e ha soffocato le virtù… La visione ciclica e decadente del mondo, il degradarsi delle stagioni, i pochi uomini aristocratici e virili, i soli capaci d’ergersi fra le rovine o protesi a cavalcare la tigre quale sopravvivenza più che nobile ed efficace riscossa. Una risposta. Oppure il carico del divenire, il nichilismo, oltre e più avanti ancora, folli e disperati, ‘immenso e rosso’ e preservare negli anni con l’età, prigionieri del tempo e delle circostanze ‘l’eminente dignità del provvisorio’.
Allora ognuno di noi si riconosce in don Isidro – meglio, conta nella medesima occasione. Affermava, non mi ricordo più quale intellettuale o filosofo francese, ‘voglio morire quando sono ancor vivo’. Un apparente paradosso assai condivisibile, circondati come si è da vivi che morti sono dentro fin dalla nascita. Nélida si rende, allora, qualcosa di altro e di più che una sartina attratta, chissà come e perché, da un uomo di cui si prende cura e che non ci appare affatto uno ‘sciupa femmine’… Proprio perché entrambi sono segnati dalla banalità del quotidiano, modesto se non del tutto misero, dove gli eroi e le eroine del romanticismo si sono ritirati (realismo onorico, mi sono concesso definire lo stile di Bioy Casares), ci invitano a trasformare quel sonno incapacitante al giusto riposo nel sogno di antichi ardori e perdute ondate ormonali. E, per dirla con lo Zarathustra, ci guardiamo il giorno dopo allo specchio ‘con altri occhi ed altro amore’.
Per anni, nella suoneria del vecchio cellulare, avevo la canzone Gracias a la vida, considerata l’inno più bello all’esistenza e testamento spirituale della cantante cilena Violeta Parra, morta suicida a cinquant’anni, poco dopo aver composto proprio questa canzone. Contraddizione forse, di sicuro nessuna banalità… In Italia la cantò Gabriella Ferri. ‘Grazie della vita che mi ha dato tanto…’. E dico grazie alla vita che mi concede, ogni mattina, di innamorarmi con gli occhi con il cuore con la mente mentre bevo il cappuccino al bar percorro i marciapiedi salgo sull’autobus o scendo nella scala mobile della metropolitana faccio spesa al supermercato mi fermo sulle panchine di Largo Pannonia. Gracias a la vida, forse.
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