Ora che i contendenti non sono più occultabili, e così la posta in gioco – egemonia mondiale americana, sopravvivenza della Russia e suo spazio nel mondo – anche le armi finora tenute a freno potrebbero avere occasione di uscire dal cassetto e far risuonare la loro voce in campo aperto.
Finora era stata una guerra chiusa. Nel senso che, agli angoli del quadrato, c’erano i contendenti chiusi entro il dibattito delle reciproche ragioni. Diritto internazionale, stato sovrano e questione interna per l’Ucraina, Accordi di Kiev, armamenti sul confine e nazismo antirussofono per la Russia.
Tra gli sfidanti, sul tappeto del ring, si sono succeduti diversi arbitri che non sono riusciti a ridurre lo scontro fino ad un accordo di pace.
In platea, a guardare l’incontro, il resto del mondo: inizialmente apparentemente estraneo e poi accalcatosi in curve opposte. Chi dava sostegno all’Ucraina e chi no. Chi si univa intorno all’idea della multipolarità e chi sbraitava per non perdere l’egemonia mondiale che – credeva – gli spettasse di diritto divino.
Agli angoli, la squadra americana sosteneva il proprio combattente, nonostante fosse più volte sembrato sul punto di cedere. Dall’altro lato, sapevano delle sostanze proibite che venivano somministrate all’uomo giallo-azzurro.
Il combattimento procedeva, il sangue versato non contava niente. Fuori dallo stadio, il tifo si diffondeva a macchia d’olio sull’irrefrenabile onda delle emozioni. Gli altoparlanti rivolti al mondo potevano dire qualunque cosa tornasse funzionale ai loro interessi, certi che sarebbero stati ascoltati e creduti. Lo scontro, che era praticamente globale, pareva procedere su un riff nel quale danzava la speranza che qualcuno o qualcosa potesse trovare come ridurre il conflitto, accontentare i contendenti e cessare di temere il peggio per loro e soprattutto per noi.
Alla faccia di quella speranza, neri assi sono usciti dalle maniche e ora sono sul tavolo.
Le corde che contenevano il ring hanno ceduto. Il campo che era chiuso ora è aperto. Le regole che valevano – o, per meglio dire, che erano presenti – non contano più nulla. Vale tutto.
I referendum delle repubbliche russofone – Crimea a parte, in quanto già consumato – e il sabotaggio dei gasdotti sono colpi sotto la cintola di uno scontro senza più spazio per alcun arbitro.
La mossa di Putin impone la legalizzazione del referendum per l’indipendenza del Kosovo del 17 febbraio 2008, finora ritenuto inaccettabile dalla Serbia, dalla Russia, dalla Cina e da molti altri paesi, europei e non (1). Permette, in linea teorica e legittima, un eventuale referendum per l’indipendenza di Taiwan e del Kurdistan, turco e non solo. Praticamente nuovi macelli potrebbero prendere la scena sul palco della storia.
Non a caso, Erdogan ha preso le distanze dalla scelta di Putin e Xin Pi, in stile confuciano, si è astenuto dal proferire parole a sostegno del presidente della Federazione russa.
Chi, a questo punto, volesse riconoscere i nuovi confini stabiliti dai referendum plebiscitari, contemporaneamente accenderebbe una miccia che altri popoli potrebbero raccogliere per dar fuoco alle loro polveri di autodeterminazione.
Dal lato opposto, i sabotaggi dei gasdotti non sono altro che un’azione già messa in conto dagli americani – chi storce il naso, spieghi bene cosa volessero dire le esplicite affermazioni del Sottosegretario di stato per gli affari politici Victoria Nuland e del presidente Biden (2) – per sparigliare la partita.
Questa, come la stampaccia di regime ha sempre negato, lasciando ai “miserabili del web” (3), antesignani inclusi (4), il dovere di farlo presente fin da subito, non è tra Ucraina e Russia. Riguarda l’egemonia sul mondo. Riguarda gli americani che, alla faccia delle critiche morali, hanno saputo elaborare e attuare una strategia di provocazioni a vario livello che, al momento, pare ancora valida.
Chi aveva pensato fin da subito che nei loro progetti, oltre all’indebolimento della Russia, c’era anche quello dell’Europa, forza industriale germanica in primis?
Un’Europa rivolta a Est non era mai stata così sconveniente per quella ontologica lotta egemonica a cui, fin dal Destino manifesto (5), gli americani non potevano rinunciare. Meglio prenderla al lazo.
Rompere i tubi a che altro potrebbe servire?
Note
- Su 193 paesi facenti parte dell’ONU, 98 hanno formalmente riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. A questi si aggiungono Taiwan, le Isole Cook e il Niue, non membri dell’ONU. Hanno, invece, esteso e poi ritirato il loro riconoscimento i seguenti paesi: Suriname, Burundi, Papua Nuova Guinea, Lesotho, Comore, Dominica, Grenada, Isole Salomone, Madagascar, Palau, Togo, Repubblica Centrafricana, Ghana, Nauru, Sierra Leone. Fra i 27 paesi dell’Unione Europea, 22 hanno riconosciuto l’indipendenza. Vi si oppongono ancora Spagna, Cipro, Grecia, Romania e Slovacchia. (In caso di referendum che non dovessero ottenere l’indipendenza, il sostegno alla consultazione popolare da parte di stati terzi potrebbe sparigliare comunque il castello di carta dell’equilibrio geopolitico).
- Nuland, 27 gennaio 2022: “Vorrei dire francamente: se la Russia invaderà l’Ucraina, in ogni caso, il Nord Stream 2 non funzionerà”. piccolenote.ilgiornale.it – Victoria Nuland ; Biden, 7 febbraio 2022: “Se la Russia invade l’Ucraina, stop al gasdotto Nord Stream 2” ; tgcom24.mediaset.it ; www.youtube.com ; www.youtube.com
- www.la7.it/otto-e-mezzo min. 5.21.
- Giulietto Chiesa: Telegram, https://t.me/nonsiamoinvisibilicanale, 30/09/2022, h. 12.59.
- Stephanson Anders, Destino manifesto – L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Milano, Feltrinelli, 2004.