Di Fabio Calabrese
Al di là o forse prima di qualsiasi teorizzazione, è un fatto empirico noto, largamente constatato che le persone che condividono un certo orientamento politico, hanno molto spesso in comune anche certi gusti letterari.
Nell’arco di un’esistenza che ormai si appresta a concludere il suo terzo ventennio, ho costantemente coltivato due grandi passioni, l’una per un certo tipo di militanza politica, l’altra per la letteratura fantastica, in particolare per determinati autori, quali Howard Phillips Lovecraft e Robert Erwin Howard. Nel 2008 la casa editrice Dagon Press di Pineto (Teramo) mi ha pubblicato un’antologia, “Nel tempio di Bokrug e altre storie lovecraftiane”, che è un esempio di una raccolta di racconti ispirati alle tematiche del grande H. P. Lovecraft tutti opera di un solo autore, certamente unica a livello italiano, e forse anche planetario.
Quello di cui mi sono reso conto solo in tempi relativamente recenti, è che esistono molte persone che condividono con me entrambi questi interessi, e questo porta con sé un problema di grande interesse: in questi autori è riconoscibile una visione del mondo, una sensibilità vicina alla nostra? Forse non stupirà troppo il fatto che a questa domanda si può, io penso, dare una risposta sostanzialmente positiva. In entrambi i casi, possiamo riscontrare una Weltanschauung per certi punti molto vicina alla nostra; in maniera argomentata e consapevole per quel fine intellettuale che fu H. P. Lovecraft, in modo più viscerale, istintivo, “a pelle” per quanto riguarda Robert Howard.
C’è un punto che occorre chiarire in via preliminare: noi stiamo parlando qui di due autori americani, statunitensi, per un motivo preciso: gli Stati Uniti d’America e “in scia” e in misura minore il resto del mondo parlante lingua inglese hanno nell’ultimo secolo acquisito una preminenza quasi assoluta a livello planetario nel mondo dell’editoria, e soprattutto sul terreno della letteratura fantastica e d’immaginazione, per cui è molto difficile che autori appartenenti ad altre aree culturali, soprattutto se autori del fantastico, abbiano modo di far conoscere estesamente la loro visione del mondo, e in particolare, se altrove – ad esempio in Francia – si è sempre cercato di lasciare un certo spazio alla produzione nazionale, questo in Italia manca assolutamente, assistiamo a un totale servilismo nei confronti del mondo americano-anglosassone.
Tuttavia, è importante rimarcare che H. P. Lovecraft e Robert Howard erano con ogni probabilità gli yankee meno yankee che sia possibile concepire, superati in questo forse solo dal grande Ezra Pound. Entrambi hanno espresso una radicata estraneità, che nel caso di Lovecraft si può senz’altro definire ostilità verso i miti fondanti dell’universo a stelle e strisce: la democrazia, il mito del progresso, l’amore per la novità che porta a cancellare con accanimento le tracce del passato anche recente, l’illusione che ogni cambiamento sia necessariamente per il meglio. Lovecraft in particolare ha espresso in maniera molto viva la contrarietà per il progressivo snaturamento del vecchio ceppo anglosassone dei Padri Pellegrini e dei pionieri a favore della creazione con l’immigrazione di una “nazione” multietnica, globalizzata, senza radici, e per questo si è beccato spesso e volentieri accuse su accuse di razzismo, si può dire anzi che più volte è stato utilizzato come bersaglio di comodo da generazioni di cuccioli di “intellettuali progressisti” che avevano bisogno di “farsi i denti” e credevano (e credono) di esprimere chissà quale originalità pronunciando le stesse sciocchezze mille volte ripetute, eppure non faceva altro che denunciare un problema drammatico con cui oggi anche all’Europa tocca confrontarsi.
Lovecraft e Howard erano americani, ma due americani fortemente atipici, assai poco rispondenti allo stereotipo dello yankee, soprattutto il primo dei due (HPL per gli appassionati), che era soprannominato “l’inglese” dai suoi conoscenti per i suoi modi aristocratici.
Nato e vissuto nella Nuova Inghilterra, la parte più “europea” degli Stati Uniti, tutto in Lovecraft parlava di Europa piuttosto che di America, a cominciare dall’amore per il passato, la passione per le tradizioni degli avi e l’architettura coloniale della quale era un vero esperto. Egli amava atteggiarsi a gentiluomo dell’età coloniale, e certamente avrebbe preferito vivere nel XVII o nel XVIII secolo piuttosto che nel XX.
Si pensi solo quanto questo amore per il passato risulti estraneo alla mentalità americana sempre in cerca esasperata della novità, incapace di tollerare, ad esempio, che un palazzo possa durare più di qualche decennio senza spianarlo con l’esplosivo, e che coltiva l’illusione che ogni cambiamento sia sempre per il meglio.
H. P. Lovecraft era un conservatore non tanto in senso politico quanto esistenziale. Da ragazzo redasse per un certo periodo una rivistina amatoriale, “The Conservative”. Il senso di angoscia che promana dalle sue opere è in sostanza una reazione dell’età moderna. Celebre anche la sua lettera a una rivista sull’arte moderna, spesso riportata col titolo di I”l parere di un conservatore sull’arte moderna”, in cui egli la coglie per quello che effettivamente è: bruttura, immondizia.
In un brano famoso, egli ha raccontato di come considerando la storia del passato egli si sentisse un leale suddito britannico e un uomo europeo, ma arrivato alle soglie dell’età antica, sentisse la sua lealtà, il suo senso di appartenenza sdoppiarsi in maniera conflittuale e quasi dolorosa: da un lato verso le tribù celtiche e nordiche, dall’altro verso Roma e il mondo classico. In ogni caso un europeo a tutto tondo, un uomo consapevole del suo sangue e del suo retaggio europeo a qualsiasi latitudine gli fosse capitato di nascere.
Per tutta la vita, Lovecraft ha versato in condizioni economiche non floride. Poté permettersi un solo viaggio in Europa. Cosa andò a vedere? Le “Opere complete” Sugar riportano una sua foto scattata a Stonehenge seduto accanto a uno dei monoliti e con il cappello poggiato sopra la pietra.
Almeno uno dei racconti più celebri di HPL ha un’ambientazione celtica, ci parla di un misterioso culto druidico o pre-druidico che in forma sotterranea (è proprio il caso di dirlo), ha trovato il modo di trasmettersi fino ai nostri tempi: si tratta dell’ossessionante “I ratti nel muro”.
Lovecraft è stato anche il creatore di una vera mitologia letteraria, “I miti di Cthulhu”, ed ha anche invitato i suoi amici e corrispondenti a scrivere storie che si inserissero in essa. Certo, le sue divinità non antropomorfe non sono suscettibili all’adorazione da parte degli esseri umani, sono la manifestazione di un Cosmo cieco e indifferente agli uomini, ma in ogni caso HPL si pone al di fuori del cristianesimo, e questo non può che farcelo sentire vicino.
In un altro celebre brano, parlando del puritanesimo, la forma del cristianesimo protestante più diffusa nel New England e nella quale era stato allevato, confessò di “Avere nel più abissale disprezzo la pomposa e teocratica filosofia dei puritani”.
A proposito del suo discepolo August Derleth che ha cercato di interpretare i miti di Cthulhu in senso cristiano (e che pure ha avuto l’indubbio merito, fondando insieme a Donald Wandrei la casa editrice Arkham House, di salvare l’opera di HPL dall’oblio), Lovecraft scriveva che “Volge volutamente verso terra gli occhi velati”, e in effetti, solo volgendoli a terra senza alzare lo sguardo verso il cosmo indifferente a quella piccola cosa che è il nostro pianeta con l’umanità che lo abita, si può interpretare in senso cristiano la potente intuizione mitologica – cosmologica del maestro indiscusso della letteratura horror moderna.
Robert Erwin Howard, il creatore di Conan, che di Lovecraft fu corrispondente e amico, nonostante fosse nato in Texas è un altro chiaro esempio di una personalità potentemente europea e celtica. “The Last Celt” , “L’ultimo celta”, lo definì Glenn Lord, il suo biografo più apprezzato, e questo appunto è il titolo del volume a lui dedicato.
“Ultimo celta” non nel senso che non vi siano stati o non vi siano al presente celti dopo di lui, ma l’ultimo celta dei tempi antichi, dall’animo pervaso da una sana barbarie, non corrotto dalla civiltà.
Che la modernità, ultima estrinsecazione del fenomeno degenerativo “civile”, rimanesse fondamentalmente estranea a Robert Howard, questo è del tutto ovvio. Howard afferma senza mezzi termini che la civiltà è un’eccezione, e ciò che chiamiamo barbarie è semplicemente la regola della storia umana.
Il barbaro, l’uomo nella pienezza degli istinti vitali, Howard l’ha magnificamente tratteggiato nella figura di Conan. Il barbaro Conan, presentato dal suo autore come un cimmero, è certamente un celta. Howard con ogni probabilità equivocava tra i Cimmeri e Kymru, che è il nome gaelico del Galles, tanto più che i suoi “cimmeri” hanno come vicini e feroci nemici i Pitti!
Su Robert Howard non è necessario insistere; non solo Conan ma tutti gli eroi di tutti i suoi cicli narrativi sono visibilmente metafore o incarnazioni dell’uomo forte, barbarico, libero, insofferente di costrizioni e di poteri esterni, europeo e celta al quadrato. Queste caratteristiche si ritrovano in tutti gli eroi howardiani, non solo nei personaggi Conan-simili come Bran Mac Morn o Thurlogh O’Brien, ma anche quelli “moderni” come Kirby Buckner, né tanto meno se ne discosta un personaggio “moderno” per modo di dire come Solomon Khane, spadaccino dell’epoca elisabettiana.
Quello che sembrerebbe forse più di ogni altro discostarsi da ciò, il “numero due” dei personaggi usciti dalla penna del bardo di Cross Plains, anche lui Conan-simile, Kull di Valusia che sembra percorso da una tetra inquietudine esistenziale; invece potremmo dire che ne è la più drammatica riconferma. Il re di Valusia, forse il più howardiano dei personaggi di R. E. Howard, è affetto da un “male di vivere” che in sostanza è la reazione dell’animo barbarico ansioso di libertà, di spazi aperti e di avventure, di fronte alle ipocrisie e alle costrizioni della civiltà, rese necessarie dall’esercizio del potere.
La profonda, malevola avversione che la sinistra e i “progressisti” hanno sempre nutrito nei confronti di H. P. Lovecraft, non poteva risparmiare neppure Robert Howard. Il creatore di Conan, in particolare sembrava fatto apposta per indispettire almeno due categorie di persone: da un lato i marxisti con la sua concezione “barbarica” che sembra l’aperta negazione di una storia guidata dal progresso immanente della dialettica mutuata e travisata da Hegel, e destinata a concludersi con l’avvento delle masse al potere, e le femministe che negli ultimi decenni sembrano avere del letteralmente invaso e colonizzato l’heroic fantasy snocciolando un’eroina più virago dell’altra, negando sia la differenza di forza fisica che esiste fra uomo e donna, sia il ben documentato fatto storico che fino a tempi recenti, fino all’avvento della guerra tecnologica, portare le armi sui campi di battaglia è sempre stato una prerogativa maschile. A costoro non è parso vero poter affondare – se non i denti, le unghie laccate contro Conan e il suo autore, visti come i campioni del più bruto maschilismo.
Un esempio addirittura palmare in questo senso si trova contenuto in un saggio sulla heroic fantasy della canadese Elsabeth Vornarburg apparso a puntate attorno al 1980 sulla rivista “Requiem” – “Solaris” (la pubblicazione cambiò testata mentre la pubblicazione del saggio della Vonarburg era in corso; si trattava comunque della più importante pubblicazione canadese di lingua francese dedicata ai temi del fantastico e della fantascienza di quel periodo. La cosa strana era che questo saggio, che sputava veleno a tutto spiano su Howard e Conan, nasceva o intendeva presentarsi come difesa della heroic fantasy. Esso era infatti una risposta all’attacco contro il genere sferrato dal critico tedesco (non ne sono sicuro, ma immagino fosse una “penna teleguidata” della DDR) Hans Joachim Alpers che sulla peraltro autorevole rivista di critica “Science Fiction Studies” aveva lanciato contro la heroic fantasy un velenosissimo attacco in pretto stile marxista, accusando il genere di non tenere conto della dialettica della storia, della lotta di classe, e tutte le amenità di questo tipo con cui allora si usava riempirsi la bocca (e c’è da sogghignare a pensare che non sarebbero trascorsi una decina di anni, e i regimi politici ispirati a questo tipo di Weltanschauung sarebbero scoppiati uno dietro l’altro come una fila di palloncini).
La “difesa” della Vonarburg era a dire il vero piuttosto singolare: poneva una netta e radicale distinzione fra le autrici femministe: C. L. Moore, Ursula Le Guin, M. Z. Bradley e via discorrendo, e l’heroic fantasy howardiana riguardo alla quale, semmai, rincarava aspramente la dose, ritenendola un esempio di null’altro che il più bruto e muscolare maschilismo.
Il modo di procedere di questa “gentile” signora era quanto di più scorretto si possa immaginare, infatti non prendeva a esempio, non poneva sotto la lente della sua cosiddetta analisi neppure una pagina o un rigo scritto da Robert E. Howard (ho avuto l’impressione leggendo il suo scritto, che avesse letteralmente paura di confrontarsi con la prosa nel nostro, già sufficiente da sola a confutare le sue elucubrazioni) ma si concentrava unicamente nell’analisi degli scritti di un imitatore di Howard, tale Gardner Fox, autore di un ciclo, quello di Kothar, di cui in Italia sono stati tradotti solo due romanzi, e non mi risulta che abbiano destato una particolare sensazione o gli abbiano attirato una grande notorietà.
Sfortunatamente, venni a conoscenza di questo scritto molto dopo la sua pubblicazione, un ventennio più tardi. Dato il tempo intercorso, e date le scarsissime probabilità che mrs. Vonarburg venisse mai a conoscenza dei miei scritti, aveva senso una replica? Decisi nonostante tutto di si, perché certe opinioni pregiudiziali sono tutt’altro che scomparse, e continuano a rispuntare negli ambiti più diversi.
Scrissi un articolo “In difesa di Conan”, che fu pubblicato sul n. 3 – novembre 2002 della rivista “La soglia”.
Anche questa era una cosa destinata sfortunatamente a creare ulteriori problemi, infatti alcuni anni dopo la cessazione di questa pubblicazione, il curatore della “Soglia”, Gianluca Casseri, vittima di un improvviso raptus di follia è stato al centro di un triste episodio di cronaca nera. Poiché quest’uomo gravitava politicamente nella nostra “area”, per un po’ siamo stati sull’orlo di una vera e propria caccia alle streghe, sia verso la nostra area politica sia verso gli appassionati di letteratura fantastica.
Si è trattato del classico gioco dei due pesi e delle due misure da parte di “sinistri” e democratici in genere che, non avendo più ideali da proporre, trovano molto comodo – e sanno solo – agitare spauracchi.
Anni prima, il filosofo comunista francese Louis Althusser, una delle “colonne” della Sorbona, e forse in assoluto l’ultimo discepolo di Marx che sia stato una figura di primo piano nella filosofia contemporanea, in preda a un analogo accesso di follia, uccise la moglie. Che io sappia, questo sciagurato evento non è mai stato considerato da nessuno un argomento contro il comunismo. Dirò di più: Joseph Vissarionovich Djugasvili, in arte Stalin, era molto più che un “normale” dittatore, era un pazzo furioso che aveva a disposizione dei suoi improvvisi, immotivati, deliranti scoppi di collera isterica tutti i mezzi del più vasto apparato totalitario mai esistito, che a suo totale arbitrio faceva deportare o uccidere i collaboratori più stretti, gli amici, i membri della sua famiglia. Come ha raccontato Nikita Krushev nel suo celebre “Rapporto”: “Quando si era invitati a cena da lui, non si sapeva mai se dopo si sarebbe stati riaccompagnati a casa con tutti gli onori o tradotti in carcere”. Ebbene, neppure questo è perlopiù considerato un argomento contro il comunismo.
L’increscioso episodio sopra ricordato non toglie nulla al valore della “Soglia” come pubblicazione, alla quale hanno collaborato nomi fra quelli di maggiore spicco fra i critici di letteratura fantastica politicamente non allineati a sinistra, e la stessa pubblicazione, nonostante la diffusione limitata e la veste tipografica alquanto spartana, è considerata rivista professionale nel “Catalogo generale della fantascienza, fantasy e horror” redatto da Ernesto Vegetti. Tanto meno, mi pare, vi sia qualcosa da imputare a coloro che vi collaborarono. Almeno, per quanto mi riguarda, io ritengo di non avere nulla di cui vergognarmi o pentirmi.
Howard P. Lovecraft e Robert E. Howard sono due esempi, probabilmente non i soli, non solo di due eccellenze nella narrativa del fantastico; il primo ha rinnovato l’horror che prima di lui stava diventando asfittico e ripetitivo con gli sfruttatissimi temi di vampiri, fantasmi, streghe e licantropi (e letteralmente nient’altro), il secondo è sostanzialmente il padre dell’heroic fantasy moderna cui ha dato un volto dinamico e sanguigno che la riscatta dalla leziosità di C. S. Lewis, John R. R. Tolkien (fin troppo sopravvalutato) e altri. Non solo, ma li possiamo considerare esponenti di una Weltanschauung “nostra”, H. P. Lovecraft con tutta la finezza e la profondità di un intellettuale dotato di una solida cultura e attento indagatore di realtà umane ed extraumane, Robert Howard con il suo sano istinto “barbarico” che lo porta a cogliere tutto il profondo stato di malessere dell’uomo civilizzato (o, come direbbe Konrad Lorenz, auto-addomesticato), e si può ben notare anche il fatto che, a differenza di John R. R. Tolkien di cui mi sono occupato in un precedente articolo su queste pagine, nessuno si è mai sognato di proporre un “recupero a sinistra” di questi due autori, ai quali semmai “i compagni” e democratici assortiti non hanno cessato di riservare improperi e maledizioni.
Un motivo in più, se vogliamo, per apprezzare l’opera narrativa di entrambi.
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